Un addetto sanitario ci blocca per controllarci la temperatura con un piccolo termometro ad infrarossi.
Superiamo il test ma dobbiamo comunque obbligatoriamente passare una sorta di visita medica.
E’ la procedura per chiunque transiti dalla frontiera in ingresso in Siria. Soprattutto gli stranieri, libanesi o siriani con passaporto diverso da quello nazionale in quanto naturalizzati da un altro paese, sono obbligati al passaggio dal gabinetto sanitario. Figurarsi noi che siamo addirittura italiani.
Entriamo esaltati nella stanza, siamo fortemente emozionati. Dobbiamo ancora realizzare di trovarci in questo luogo e di star facendo ingresso in Siria, Paese che da tempo anelavamo di visitare. L’ambulatorio è angusto e dà l’impressione di esser poco pulito. Un ritratto del presidente Bashar al Assad ci saluta ma l’occhio va subito al lettino posto dietro il paravento ed approntato con delle consunte vecchie e grigie coperte militari di lana grossa feltrosa. “Se mi chiedono di spogliarmi e stendermi lì sopra, preferisco rinunciare all’ingresso nel paese. Altro che il corona virus del quale siamo sospettati…”, penso.
Invece intuiamo poco dopo che il lettino per le visite altro non è che il giaciglio dove il personale medico di turno riposa nottetempo. Il giovane dottorino, magari fresco di studi universitari, chiede i nostri dati e soprattutto da dove proveniamo alla presenza di un piccolo stuolo di presunti altri medici nullafacenti e avvolti in una pesante cappa da tabagismo. La lingua inglese è scarsa ma il nostro autista che comunica con noi in un misto di inglese e russo ci aiuta nelle comunicazioni. Intuiamo comunque grosso modo cosa vogliono sapere da noi. Il punto è se prima di arrivare in Libano, da dove proveniamo, siamo stati in Cina o in altri posti. Omettiamo di aver fatto scalo ad Istanbul e dichiariamo di esser giunti diretti dall’Italia. Questo li conforta [N.D.R.: i fatti si riferiscono ad inizio febbraio 2020 quando ancora la diffusione del virus in Italia non era conosciuta] ma il dottore ha una piccola esitazione quando sul mio passaporto nota i visti, datati, di Cina e Corea del Nord.
Il medico, impregnato di fumo, mi controlla la gola con l’abbassalingua monouso ed il respiro con lo stetoscopio da sopra i vestiti. Passo il test, sono idoneo all’ingresso in Siria.
Ma il sogno potrebbe subito infrangersi….
Stessa trafila per il mio compagno di viaggio come se io e lui fossimo due sconosciuti e viaggiassimo separatamente. Stesse domande, stessa procedura. Ma… l’arrossamento della sua gola dovuta alle giornate di vento, freddo, pioggia ed anche neve appena trascorse in Libano fanno allertare lo staff medico.
Che si fa? Si lascia passare o meno?
Il nostro autista insiste per la concessione del permesso, l’equipe si consulta animatamente. Per uscire dall’ impasse viene quindi chiamato il primario. Tano Cariddi della “Piovra” (al secolo Remo Girone da giovane) con la sua aurea da fumatore incallito, cappotto, capelli impomatati all’indietro e fascino da gigolò degli anni ’70 fa il suo ingresso. Si consulta con la sua equipe e col nostro autista. Il consulto porta alla seguente soluzione: ci lasciano passare ma devono avvisare il nostro albergo a Damasco di un possibile malato in arrivo.
Procediamo verso il controllo passaporti vero e proprio che superiamo senza problemi previo pagamento della tassa di visto già richiesto in precedenza.
Finalmente la Siria !
Abbiamo lasciato da neanche un paio di ore il Libano partendo da uno dei siti archeologici più affascinanti, Baalbek, l’antica Heliopolis dell’epoca ellenistica diventata poi nei secoli romana, bizantina, araba e dove abbiamo alloggiato allo storico hotel-museo Palmyra, aperto nel 1874 da allora mai chiuso e rimasto del tutto simile a quando il Kaiser Guglielmo II ne fece il suo quartier generale. Un misto tra il museo Nazionale di Beirut, l’Overlook hotel del film “Shining” e le atmosfere di Cluedo trasposte nel film giallo “Signori, il delitto è servito”.
La strada che da Baalbek porta al confine con la Siria ci regala uno spaccato di Libano diverso e più “medio orientale” rispetto alla capitale Beirut ed alle zone del sud del paese per le quali siamo transitati nei giorni precedenti.
Nella cittadina di Chtaura sosta obbligata per cambiare moneta, ultima possibilità per entrare in possesso, in maniera più o meno legale, di banconote siriane.
In Siria, infatti, da qualche tempo ma già ben dopo l’inizio delle operazioni belliche che stanno sconvolgendo il Paese, è inibita la circolazione sia di dollari che di euro e con essi la diffusione del mercato nero dei cambia valute. Il mercato nero è per definizione illegale ovunque ma in molti posti è tollerato anche se in maniera non ufficiale e comunque da molti praticato senza prestare interesse agli eventuali risvolti.
In Siria, invece, sembra che negli ultimi mesi chiunque tra il popolo preferisca attenersi alle regole e non metterlo in pratica, poiché pare che ultimamente le conseguenze non giustifichino il rischio da correre.
Con qualche eccezione a titolo molto privato è possibile corrispondere dollari, nonostante tutto considerate ancora le banconote più pregiate, o i meno apprezzati euro ma sostanzialmente la moneta corrente è la lira siriana. Che verrebbe cambiata, al mercato nero, ad un tasso di cambio doppio e quindi più favorevole rispetto a quello ufficiale praticato dalle banche. Anche questo è uno dei motivi che vieta in maniera apparentemente stringente la circolazione della valuta estera. A differenza del confinante Libano dove il mercato parallelo a tasso migliore è il più diffuso ed i prezzi in dollari sono addirittura espressi sugli scontrini ed i bigliettoni verdi accettati dai più. Ma il Libano, ex “Svizzera del Medio Oriente”, è attanagliato da una imponente crisi economica che giustifica le varie banche a dispensare poco contante e a quasi congelare i conti correnti. Ciò si riflette anche sulla vicina Siria. Per via delle sanzioni a causa della guerra in atto, i bonifici dall’estero a favore dei dipendenti stranieri ancora operanti in Siria per missioni diplomatiche, ong, progetti lavorativi, vengono effettuati verso banche libanesi le quali, in analogia alle disposizioni che ottemperano verso i loro concittadini, regolamentano al ribasso anche per loro la elargizione di liquidità monetaria. Ed è giusto notizia di questi giorni il default finanziario del Paese dei Cedri…
A Chtoura, paese a pochi chilometri dal confine siriano, il centro cittadino presenta varie possibilità di cambiare moneta. Come su una strada con ampia scelta di ristoranti ubicati uno dietro l’altro c’è sempre quello considerato migliore degli altri, anche qui c’è l’”ufficio” di cambio di livello superiore. Ma non dal punto di vista estetico…
Il nostro autista ci scarica davanti ad un fondo commerciale aperto sulla strada senza insegne e senza vetrina. E’ costretto a sostare in tripla fila a causa delle numerose auto che parcheggiano per pochi minuti e ripartono. Davanti all’esercizio c’è un numeroso andirivieni, probabili profughi siriani che sostano in attesa di una auspicata elemosina, gente che si accalca alla luce del sole davanti ad un bancone che potrebbe essere quello di un bar. La ressa, seppur contenuta nelle dimensioni dei pochi metri quadri del negozio di soldi, ricorda le scene finali del film “Una poltrona per due” durante le contrattazioni alla Borsa di New York. Ci posizioniamo nelle retrovie per comprendere la situazione e poter operare finanziariamente anche noi. La gente spinge per infilarsi verso il bancone e smanaccia con mazzette di banconote. Dietro il bancone cinque o sei agenti di cambio, indipendenti fra di loro ma che condividono lo spazio al banco, distribuiscono valuta: dollari, lira libanese, lira siriana oppure euro in base alla richiesta che ricevono. Scippano i soldi dalle mani del cliente, lo inseriscono nella loro personale macchinetta conta soldi del tutto simile a quella portata alla fama televisiva in Italia dal signor Colombo e Jocelyn nella trasmissione “Conto su di te” a fine anni 80, prendono alla cieca da uno scatolone, invisibile ai clienti, il corrispettivo da scambiare, lo ricontano nella macchinetta e lo buttano sul bancone dove lestamente finisce nelle tasche dell’acquirente. Tutta l’operazione dura meno di 2 minuti. Una sorta di catena di montaggio. E via col prossimo con il quale il cambiavalute già interloquisce mentre serve la persona precedente. Nella volgarità del locale e della situazione spiccano un paio di schermi televisivi dove sono indicati dei tassi di cambio che ovviamente a nessuno interessano tutti presi dalla concitazione del momento.
Il funzionamento della situazione nella quale ci troviamo ci appare chiaro sin dai primi istanti e ci buttiamo nella mischia anche noi.
Non prima però di aver sorseggiato un ottimo caffè espresso bollente distribuito gratuitamente tra gli astanti, prima o dopo la partecipazione alla rissa, da un vecchietto addetto alla preparazione ed al servizio dotato di una elegante caffettiera, un vassoio da bar e bicchierini di plastica che fa la spola tra la sua postazione e la fila di gente.
Gentilmente accettiamo il caffè, lo sorseggiamo e siamo pronti a portare a termine l’operazione di cambio.
Dopo aver aggirato i blocchi di cemento indicanti la non percorribilità, sgommiamo verso la frontiera per i circa 20 km che ci separano da essa tramite una tratta autostradale ufficialmente chiusa al traffico ma dove auto, camion, biciclette, gente a piedi la fanno da padrone.
Ai lati notiamo alcuni insediamenti, quello più grande di Tel Abbas ed un paio di dimensioni più piccole, baraccopoli utilizzate da profughi siriani, dove le condizioni di vita sono altamente precarie. Con le, poche, dovute differenze ricordano i villaggi di legno e teloni di alcune zone interne della Mauritania. Solo che lì, in quell’area dell’Africa la civilizzazione non sembra esser mai arrivata mentre qui in Libano, quasi in Siria, il livello si aspetterebbe essere ben altro.
La frontiera libanese la superiamo senza nessuna difficoltà di sorta, nessuno si interessa al nostro passaggio ed all’ufficio di controllo passaporti usufruiamo anche della prerogativa di transitare dal box dedicato ufficialmente al transito delle missioni diplomatiche, non perché ne facciamo parte ma semplicemente per evitare la piccola coda presente agli altri box.
Attraversiamo i pochi chilometri della cosiddetta “terra di nessuno” tra i due Paesi che poco più di settanta anni fa erano un unico territorio, una strada che attraversa un valico, una gola tra le montagne, raggiungendo il versante siriano del confine.
Dopo aver superato, quindi, i controlli medici e doganali procediamo verso Damasco, la capitale della Siria.
Subito dopo la frontiera diversi sono gli autobus, del tutto simili a bus di linee urbane, dove si ammassano decine di persone con vettovaglie varie. Sono profughi siriani di rientro dopo la fine delle ostilità belliche, fine avvenuta almeno nelle loro zone di residenza.
Damasco ci accoglie in tutta la sua vivacità. Alloggiamo nella città vecchia dove la vigilia di San Valentino sembra essere la festa di tutti. Ragazzini, coppie, famiglie, tutti sono in giro tra i vicoli della zona di Babtouma con i negozi addobbati a festa. E’ difficile districarsi tra i vicoli data la ressa di gente e più complicato risulta trovare posto in qualche ristorante, soprattutto in quelli più classici ricavati da vecchie case arabe caratterizzate dai grandi cortili ricercati nell’architettura.
E’ giovedì, domani è giorno festivo per i musulmani e per di più sarà anche San Valentino che, a quanto pare, da queste parti si festeggia come Halloween da noi: tutti fuori e bar e locali notturni pieni.
Con grande piacere ci adeguiamo alle usanze locali.
E sarà sostanzialmente così anche per il paio di giorni a seguire durante i quali sosteremo in città, dove non solo la città vecchia e non solo la parte musulmana di Damasco troveremo vive ed attive ma lo sarà tutta la capitale e senza distinzione di credo religioso.
D’altronde la Siria, in Medio Oriente, è sempre stato un esempio di convivenza di religioni diverse. Non esistono sostanzialmente conflitti interreligiosi, musulmani e cristiani sono mescolati e chiese e moschee convivono senza problemi. Ognuno segue i dettami del proprio credo ma nessuno è discriminato, condannato o perseguitato per questo motivo. Ci saranno eccezioni ma dove non esistono al mondo le anomalie?
Giriamo la città per visitare i suoi siti di maggior interesse, da soli ed in compagnia di persone locali in base ai momenti, e ci rendiamo conto di esser un rarissimo caso di stranieri in città. A parte l’aver riconosciuto in un bar un tavolo di lavoranti esteri per qualche governo o qualche organizzazione straniera siamo sostanzialmente gli unici non autoctoni in giro o comunque l’impressione che abbiamo è questa.
Come San Paolo fu folgorato sulla via di Damasco, noi veniamo folgorati da Damasco. E ci tornano in mente i vari racconti di chi veniva in viaggio da queste parti prima del 2011 dai quali si evincono esclusivamente parole entusiaste. Nonostante la guerra, nonostante la crisi economica, nonostante i gravi problemi che affliggono la Siria, Damasco è ancora sostanzialmente la affascinante città di un tempo.
Ma la guerra? Non c’è la guerra in Siria? La domanda postaci da tutti in Italia.
Si la guerra c’era e c’è ancora ma adesso è limitata solo ad alcune aree a nord confinanti con la Turchia.
Damasco, in realtà, è stata meno colpita dalla barbarie del conflitto rispetto a località come Aleppo, Homs, Hama, Hamra, Idlib, Raqqa. La sua zona nord-est, da dove parte l’autostrada per il nord del paese e quindi il vero e proprio teatro di guerra, è stata diretta protagonista delle operazioni belliche comprensive di pesanti bombardamenti. I quartieri di Joubar, Barzeh e soprattutto quello di Al- Kaboun sono ridotti a macerie. Abitazioni ma soprattutto fabbriche oramai distrutte. Per anni, fino all’offensiva governativa del 2017 quelle zone della città sono state testimoni di una guerra cruenta come lo sono d’altronde tutte le guerre. Oggi i resti di quelle strade e di quelle costruzioni sono ancora lì ben visibili a chi si accinge ad infilarsi dentro la zona delimitata da alcuni posti di blocco dell’esercito siriano ed a poche centinaia di metri dall’Ambasciata della Corea del Nord che con la sua bandiera fluttuante al vento sembra delimitare la Damasco viva ed odierna dalla Damasco della guerra e della paura che fu fino a circa tre anni fa.
I segni della guerra si notato anche nei tombini saldati con delle pesanti lastre di ferro. “I banditi saltarono fuori dai tombini all’improvviso e provenienti chissà da dove, nel centro di Aleppo. E’ così che è iniziata la guerra in Siria“, ci dicono.
Posti di blocco o check point che dir si voglia sono consuetudine in città. Ogni ingresso ed uscita cittadino, tutti i punti strategici e tutte le strade di accesso alla città vecchia sono sottoposti a controllo visivo dei militari armati. Ogni auto è controllata, soprattutto se desta sospetto al drappello presente in quel momento. Una sorta di “operazione strade sicure” italiana ma molto più operativa. Diversi sono, nella città vecchia, anche i punti di controllo formati da gruppi paramilitari collaboranti con l’esercito che verificano la sicurezza quasi strada per strada. In molti angoli piccoli gruppetti armati fumano o parlano tra di loro sotto dei più o meno improvvisati luoghi di riparo ma senza disturbare l’attività dei passanti, delle auto, dei negozi e dei locali pubblici.
La guerra da Damasco è relativamente lontana ma gli echi, i suoni di essa, non smettono di farsi sentire.
Come la prima notte del nostro soggiorno in città. A breve distanza una dall’altra, due violente esplosioni rimbombano sulle nostre teste. Non sono esplosioni lontane, non sono esplosioni avvenute nelle periferia della città come quelle avvertite a Donetsk, nel Donbass altro teatro di guerra questa volta nel cuore dell’Europa.
No, questa volta non si tratta di bombe ma di missili. In pochi minuti la notizia sui siti internazionali, italiani esclusi se non su un paio di non ampio dominio pubblico, è battuta. Due missili o due droni sparati da Israele con obbiettivo dei depositi militari sulla strada verso l’aeroporto di Damasco sono stati abbattuti dalla contraerea siriana. Un piccola battaglia avvenuta sopra le nostre teste.
“E quello che avete sentito questa notte non è niente. Erano degli stuzzicadenti in confronto a quello che si sentiva più volte al giorno fino a poco tempo fa…”, ci sentiamo pronunciare sorridendo l’indomani da alcuni locali.
E’ giunto il momento di dare l’arrivederci a Damasco. Il nostro tempo a disposizione, per questa volta, è terminato.
Riprendiamo la strada verso il Libano. Beirut ci aspetta nuovamente.
Mestamente ci accingiamo alle vicinanze del confine e solo ora, al ritorno, realizziamo che tra check point e frontiera vera e propria transitiamo per almeno 6 controlli. Solo in dogana però scendiamo per farci timbrare i passaporti e formalizzare la nostra uscita dal territorio siriano mentre un vecchietto, collega di quello dell’ufficio cambi, ci offre gentilmente un caffè.
In tutti gli altri check point al nostro autista basta solamente rallentare, salutare il militare di turno che si affaccia veloce al finestrino, dargli la mano e passargli delle banconote. Una piccola mancia per le sigarette.
L’autista ci guarda e sorride. E’ così che funziona al giorno d’oggi in Siria. La guerra e l’embargo occidentale hanno distrutto vite umane ed economia.
Siamo di nuovo a Chtoura, all’oramai familiare cambia valute. Beviamo il solito caffè offertoci dal solito vecchietto, cambiamo velocemente i nostri soldi senza lasciarci sopraffare dalla folla e facciamo nuovamente ingresso a Beirut a distanza di qualche giorno.
Ma la nostra auto è targata siriana ed al check point militare libanese in ingresso città targa e facce non piacciono. Ci incanalano in un’altra linea e ci fanno fermare. Davanti a noi un’altra auto con targa siriana e quattro ragazzi in un angolo, faccia bassa rivolta al muro e con le mani incrociate dietro la schiena.
Un militare si interessa a noi. Il nostro autista gli dice che siamo stranieri e non capiamo l’arabo. Il militare del tutto esaltato si rivolge a noi in arabo. Non capendo non rispondiamo. Il militare si indispettisce ed alza ancor di più la voce. Gli rispondiamo in inglese con l’aiuto arabo dell’autista. Il militare è su di giri, sono attimi concitati. Chiama il suo superiore. Ci controllano i passaporti ma ci chiedono ugualmente la nostra nazionalità d’origine. Si intestardiscono a voler sapere se a Damasco abbiamo frequentato la zona dell’aeroporto. Rassicurati di esser italiani e di non esser stati noi ad aver lanciato i missili su Damasco un paio di giorni prima… ci lasciano andare. Avanziamo con l’immagine dei quattro ragazzi siriani in attesa di giudizio che svanisce alle nostre spalle.
Siamo di nuovo a Beirut e per celebrare il nostro viaggio a Damasco ceniamo al già testato ristorante iracheno “Baghdad”. Il nostro Auspicio è di facile immaginazione.
LUCA PINGITORE
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