Esattamente tre anni dopo, nel luglio 2011, mi ritrovo a percorrere le vie di Tashgurkan, stavolta da solo, e mentre cammino con attorno un paesaggio naturale identico e uno cittadino completamente cambiato, mi scopro a domandarmi se in fondo non ci sia qualcosa di perverso in me e nel fatto di tornare dopo così breve tempo nella città cinese che fa da frontiera con il Pakistan. L’osservare le profonde differenze dalla Tashgurkan di allora però mi conforta e quasi giustifica a me stesso l’essere di nuovo qui.
Vedo viali e giardini in costruzione, fontane e palazzi, il progetto di un centro commerciale, Tashgurkan è un cantiere a cielo aperto, non diversa da quasi tutte le altre città cinesi, e non mi sembra possibile che solo nel 2008, dove adesso vedo una spianata pronta per accogliere enormi edifici, ci fosse un campo pieno di sporcizia, e al posto di questo ampio viale ancora da asfaltare esistesse un mercato dove tutte le facce avevano i tipici lineamenti dell’Asia Centrale. Adesso ci sono cinesi dappertutto, cinesi ben vestiti con reflex da migliaia di euro al collo e giovani ragazze chioma al vento e minigonna a mostrare a tutti senza alcun pudore la nera seta dei capelli e il bianco avorio delle gambe. Quanto ancora resisteranno i veli e le tradizioni musulmane qua? E per quanto ancora riusciranno a farlo quelle in apparenza più dure delle valli dell’Hunza e dell’Indo? A Kashgar ormai è sparita ogni traccia materiale del passato. Nel 2008 ancora esistevano angoli antichi, un minuscolo centro storico e animali per le strade, adesso i cinesi hanno spazzato via ogni cosa e stanno ricostruendo in quel loro tipico stile antico plastificato che chi ha visitato almeno una volta la Cina ha ben presente. Le ruspe hanno buttato giù tutte le case di fango, sostituite da robuste case di mattoni rivestite di fango, assolutamente perfette e belle, troppo perfette e belle, senz’anima e senza quel calore umano che un edificio abitato per decenni si porta inevitabilmente dietro, ma ideali per appagare la curiosità dei nuovi e sempre più numerosi ricchi turisti provenienti da oriente. Vicino al fiume gli asini con gli zoccoli affondati in un palmo di melma han lasciato posto ad una fredda spianata di marmo, e i pazzi al volante dei taxi che fine hanno fatto? Tutti adesso rispettano i limiti di velocità e addirittura un ragazzo si è fermato per farmi attraversare la strada, situazione inconcepibile tre anni addietro quando bisognava solo correre veloci e sperare. E pure i taxi, che ricordavo padroni delle strade con il loro caratteristico colore verde, rappresentano ormai solo una piccola parte delle auto in circolazione e si perdono tra utilitarie e SUV. John Hu del John Cafè mi ha detto: ‘Visto com’è cambiata la nostra città?’. In realtà nei mercati e nelle zone più lontane dal centro resistono ancora le facce e le tradizioni uigure con il loro caos che si accende al tramonto, ma mentre nel 2008 parevano ancora i padroni della città, adesso sembrano intimiditi, quasi rassegnati ad essere stranieri a casa, in parte perché circondati da centinaia di cinesi che incuriositi li inquadrano nei loro enormi obiettivi autofocus ma soprattutto per il fatto di essere guardati a vista da un numero elevatissimo di poliziotti armati, che non si nascondono mentre controllano ogni loro mossa, anche mentre si inginocchiano per pregare il loro Allah. Nel 2008 la visita a Tashgurkan fu breve e io e Nadia andammo a pernottare in un’orribile yurta nei pressi del lago Karakul, stavolta rimarrò per la notte. Immaginando i disagi dei giorni successivi avevo pensato di sistemarmi nel miglior albergo della città, il Traffic Hotel, ma non ha camere libere, e, visto che neppure la seconda scelta ha posto, ripiego sul primo squallido alberghetto in cui hanno disponibilità. La stanza è sporca e puzzolente, le mattonelle del pavimento hanno un buco di circa venti centimetri da cui esce (dal nulla, visto che siamo al secondo piano) una barra di ferro arrugginita alta mezzo metro e spessa due dita, e i muri sudici sono tappezzati di numeri di cellulare, deduco di prostitute in cerca di clienti, non essendoci infatti il telefono queste non possono chiamare di continuo per offrire il classico massage e immagino abbiano ideato questa soluzione alternativa per farsi trovare. L’odore e le scritte mi danno l’impressione di essere in Italia, nel cesso di un autogrill. L’autobus per Sost, in Pakistan, dovrebbe partire alle dieci dall’edificio della dogana, ma per non correre rischi visto che non ho ben chiaro quale sia il palazzo giusto tra i cinque tutti allineati lungo la Karakhorum highway, anticipo la sveglia, e alle otto del mattino seguente mi incammino lungo la strada. In meno di mezzora arrivo a destinazione e mi dirigo verso l’unico dei cinque che sembra aperto. Davanti ci sono tre autobus e almeno cento cinesi sono in coda ad uno sportello in attesa che un militare, con una lentezza esasperante, riempia e consegni delle ricevute. A testa bassa scrive su quei foglietti come se stesse ritoccando un affresco, impiegando oltre un minuto a ricopiare un semplice numero di passaporto. Dalla fila lo chiamano, gli fanno domande, protestano, ma lui rimane impassibile, senza mai alzare gli occhi dalla scrivania. Alle nove la coda non si è mossa di un millimetro, tutti continuano a chiamarlo picchiando le mani sul vetro e visibilmente sempre più irritati mentre lui continua a registrare numeri assolutamente indifferente a tutto il resto. Poi qualcosa finalmente succede, smette di scrivere, solleva il volto indirizzando un sorriso ebete al primo cinese della fila, si rizza in piedi e se ne va. La folla rumoreggia mentre io fino a quel momento mi son limitato ad osservare incuriosito la scena, senza capire assolutamente nulla. Dopo pochi minuti il militare ritorna, stavolta accompagnato da una ragazza che prende il suo posto. Lei è gentile e risponde alle domande. Io allora mi faccio largo e in breve arrivo allo sportello chiedendo ‘Pakistan?’. Della sua risposta capisco solo quello che mi dice a gesti, la mano tesa ad indicare laggiù e una X formata da i due indici a significare dieci, sarebbe già sufficiente per le mie necessità, ma un ragazzo dalla coda interviene ugualmente in mio aiuto parlandomi in un inglese davvero elementare e aggiungendo che quella è la coda per i bus turistici che arrivano fino al Khunjerab pass e poi tornano indietro. Mi avvio nella direzione giusta superando i palazzi governativi finché non arrivo in quello dove in effetti c’è scritto sulla facciata un ben evidente ‘Custom’ che prima non avevo visto, ancora però è tutto chiuso ed è completamente deserto. Sul marciapiede una donna sta spazzando via la polvere, le chiedo ‘Pakistan?’ e lei mi fa capire che non va bene e che devo tornare da dove sono venuto. Confuso e incerto sul da farsi torno sui miei passi, sennonché a metà strada sbuca d’improvviso da dietro un auto un tizio tutto sporco e con la faccia da galera. E’ piccolino ma in mano ha un grosso bastone che solleva e mi punta contro minaccioso. Io indietreggio lentamente e lui, muovendo l’estremità del bastone da me verso un cancello aperto che porta in un piazzale, mi dice ‘Pakistan! There!’. Un po’ scosso lo ringrazio velocemente e anche se non del tutto convinto che per il Pakistan si vada di là decido comunque di seguire le sue indicazioni. Il piazzale è diviso in due parti da un piccolo recinto e conduce ad una costruzione abbastanza anonima che ha due ingressi, uno verso nord e uno verso sud. Di fronte all’ingresso settentrionale sono ammassati grossi sacchi e alcune valigie, e ci sono tre persone ad aspettare. Tutti e tre indossano il kurta, un’ ampia camicia lunga fino alle ginocchia, e dei pantaloni larghi dello stesso colore e della stessa stoffa. Sono pakistani e sono diretti in Pakistan. Uno dei tre parla perfettamente inglese, mi chiede da dove provengo e come mai visiterò il suo paese, poi con un sorriso contagioso esclama: ‘Welcome to Pakistan and thank you to visit my country!’. Come gli altri due è in Cina per lavoro, compra merce, soprattutto abiti e giocattoli, e la vende a Gilgit, la città dove abita. Altri pakistani arrivano, tutti sono vestiti allo stesso modo e hanno enormi sacchi. Sono gentili e incuriositi dalla mia presenza. Mentre mi chiedo se sarò l’unico straniero del gruppo, un SUV nuovo di zecca arriva nel piazzale, all’interno intravedo persone che mi paiono vestite all’occidentale. L’auto si ferma e ne scendono tre ragazzi, avranno circa 25 anni, sono vestiti di nero e hanno barbe lunghissime. Non arriva più nessuno e verso le undici finalmente la dogana apre. Un militare cinese mi si avvicina e mi chiede se ho la carta d’uscita, gliela mostro ma fa cenno che non va bene e senza darmi possibilità di replica la strappa sotto i miei occhi. Mi invita a seguirlo fino una macchinetta gialla, inserisce i dati del mio passaporto, preme il tasto ‘OK’ e una voce meccanica, in italiano, mi comunica che tutto è a posto e posso proseguire. Mentre il cinese si sta sbellicando dalle risate ripetendo quasi isterico ‘Italian! Italian!’ capisco che il motivo di tutta quella sceneggiata era solo l’ascoltare e il farmi ascoltare la diabolica macchinetta parlare italiano. Passo velocemente i controlli e mi metto in attesa del bus appena all’esterno dell’edificio, nella parte meridionale del piazzale. Come sempre quando ci sono i cinesi le procedure sono lunghe e mi pare subito chiaro che ci sarà da aspettare un bel po’. I pakistani si svagano fumando e parlando, cinque di loro discutono però un po’ troppo animatamente, delle parole urlate in faccia capisco solo ‘Muhammad Ali’ ripetuto decine di volte. La religione è argomento davvero sensibile e si sfiora la rissa. Carica e scarica i sacchi dallo sleeper bus alle tredici partiamo. Non essendoci abbastanza posto nella bauliera, buona parte dei bagagli sono stipati nei corridoi e sui sedili, ma non c’è troppa gente e si sta relativamente larghi, io sono in alto, abbastanza indietro, in una fila centrale. I tre ragazzi vestiti di nero e dalle barbe lunghe mi sono accanto. Quello sdraiato proprio di fianco a me attacca bottone. Si chiama Saleem e ha ventisei anni, lui e i suoi due amici si sono appena laureati in medicina a Xian, dove sono stati sei anni, e per tornare a casa stavolta, visto che è l’ultima, hanno scelto di percorrere una via più scenica dell’aereo. Sono di etnia Pashtun originari della zona di Peshawar, di un villaggio verso l’interno quasi al confine afghano. Saleem mi chiede che programmi ho per il Pakistan perché alcune zone sono molto pericolose, la Karakhorum Highway è sicura e sono abbastanza tranquille Islamabad e Lahore anche se a sud di Abbottabad è bene che faccia attenzione. Sarebbe invece un grosso azzardo andare a Peshawar e fa un esempio che mi colpisce: ‘Il Pakistan è generalmente più sicuro di quanto i media occidentali raccontino, ma Peshawar è molto più pericolosa di quanto tu possa aver sentito nelle news. Gli attentati sono all’ordine del giorno e ci sono pazzi fanatici che vorrebbero ammazzarti solo per il fatto di essere straniero, e non importa che tu sia americano o italiano, russo o indiano, per loro è lo stesso e sei un loro bersaglio.’ Ha modi di fare molto gentili, io ci parlo ma mi mantengo sempre un po’ distaccato che non sono sicuro al cento per cento se fidarmi o meno. Il bus risale un’ampia valle circondata da montagne e ghiacciai, filiamo via veloci sull’asfalto liscio e in meno di due ore percorriamo i centotrenta chilometri che separano Tashkurgan dal Kunjerab pass. Il militare cinese di scorta scende, oltrepassiamo il cartello Goodbye Cina e, nello stesso istante in cui il bus supera l’indicazione di ingresso in Pakistan, finiamo in una buca enorme salutata dal grido liberatorio di tutti i passeggeri, si sentono a casa adesso e pure nel modo di sedersi e parlare paiono più rilassati. Gli scossoni del veicolo continuano, mi sporgo in avanti e vedo che la strada si è trasformata in uno sterrato terribilmente sconnesso. Andiamo giù ripidi verso la valle dell’Hunza attraverso un paesaggio che più si scende più diventa aspro con la highway che si incunea in profondi canyons sovrastati da montagne di cui non vedo la fine. La via è interrotta da numerosi cantieri, la maggioranza dei quali con manodopera cinese (e gestiti da cinesi), mediamente in ognuno di questi ci lavorano una ventina di persone, tutte impegnate con ruspe, scavatrici e martelli pneumatici. Ogni tanto si incontrano pure dei gruppi di pakistani, sono composti da un numero analogo di individui e quasi sempre sono divisi in due parti, quelli che si riposano sul ciglio della carreggiata e quelli che in piedi, disposti a circolo, osservano attenti l’unico che tra di loro, con un piccone e senza risultato apparente, sta cercando di frantumare un grosso masso (il ‘quasi sempre’ è perché talvolta non c’è nessuno a rompere la pietra e quindi nulla da guardare). Dopo circa cinque ore completiamo anche gli ottantacinque chilometri che separano il passo da Sost, il posto di confine Pakistano. Nell’ufficio visti della dogana firmo il registro, solo altri due stranieri sono entrati da qui nell’ultima settimana. Saluto Saleem e i suoi amici e mi avvio in cerca di un posto per la notte. Sost è adagiata quasi completamente lungo la highway e sarebbe uno squallido villaggio di frontiera se non fosse circondato da montagne magnifiche che la luce pomeridiana tinge di rosso e fa risaltare ancora di più nella loro bellezza. Non c’è molta gente a giro e anche per questo motivo decido di non soggiornare qua, monto quindi su un taxi e mi faccio portare nel paese successivo, Passu. Vette di roccia precipitano vertiginose sulla strada che serpeggia a fianco del tumultuoso fiume Hunza per i venticinque chilometri che separano le due cittadine, ma Passu è una desolazione e mi dà l’impressione di un luogo quasi disabitato. Fermo il taxi davanti all’hotel principale ma non c’è anima viva. L’autista suona vigorosamente il clacson finché dopo un paio di minuti da una porta laterale esce un vecchietto dall’aspetto dimesso e visibilmente stupito di vedermi, con un filo di voce dice che non ha stanze pronte ma posso scegliere quella che voglio e la sistemerà in pochi minuti. Ne scelgo una al piano superiore, quella con meno vetri rotti alle finestre e con la vista più bella, e lui si mette a lavoro. Scendo nel salone principale e mi metto a guardare le decine di adesivi attaccati un po’ ovunque, sono di agenzie turistiche e gruppi di trekking alloggiati lì nel passato, molti sono italiani. Entra un ragazzo, è il proprietario del piccolo negozio che si trova di fronte: ‘Ormai qua non viene più nessuno. Dopo il 2001 i turisti sono quasi scomparsi e in questi due anni, con l’uccisione di Bin Laden e la frana che ha formato il lago e ci ha isolati, se va bene nei periodi di punta passa un turista a settimana. Negli anni novanta in estate tutto era esaurito, adesso ogni cosa va in malora.’. Sta cercando di promuovere su internet il turismo nella valle superiore dell’Hunza e mi dà dei link con la speranza che lo possa aiutare in qualche modo. Il proprietario dell’hotel mi prepara un riso alle verdure e mi informa che per andare ad Hussaini la mattina seguente devo solo mettermi sulla strada e aspettare un taxi collettivo, ‘In genere dopo le sette ne passano un paio’ aggiunge. La corrente elettrica salta di continuo e subito dopo aver cenato vado a dormire richiudendomi nel sacco a pelo mentre dalla finestra rotta entrano folate di vento fresco. Mi sveglio presto e alle sei e cinquanta sono pronto, il padrone dell’alloggio mi vede e allargando le spalle un po’ dispiaciuto mi dice che i taxi sono già passati, ma di non preoccuparmi perché presto ne arriveranno altri. Il villaggio è assolutamente deserto, mi siedo sul bordo della Karakhorum highway e aspetto fiducioso che qualcuno arrivi. Dopo mezzora sono ancora lì, provo a rientrare in hotel sperando di poter telefonare per avere un auto ma la porta è chiusa, chiamo ma non ho risposta. Alle otto e trenta non è passato nessuno, basterebbe un veicolo qualunque, un camion, ma non si muove niente. Alle nove decido di avviarmi a piedi, sono quindici chilometri, non troppi in fondo, e visto che c’è solamente una strada, se qualche auto dovesse passare sicuramente la vedrei e potrei fermarla in qualunque punto, ma nel preciso istante in cui mi chino per caricarmi lo zaino sulle spalle, sento il rumore di un motore sempre più forte e un minivan sbuca dalla curva a tutta velocità. Faccio cenno di fermarsi ma l’autista mi ignora superandomi senza neppure guardarmi, improvvisamente però il furgoncino inchioda e in una nuvola densa di polvere, dal finestrino del lato passeggero spunta la faccia barbuta e sorridente di Saleem che mi fa cenno di salire. I tre ragazzi sono contenti di rivedermi, e io ovviamente più di loro, pure insistono per cedermi il posto davanti in modo che io possa fare meglio tutte le foto che voglio. Dopo circa quindici minuti compare il lago, ha il colore limaccioso tipico di tutti i grossi corsi d’acqua della zona, all’inizio sembra solo uno slargo del fiume causato da una piana che ne rallenta la corsa, ma poi aumenta di profondità e si allarga fino alle pareti quasi verticali che lontano, verso valle, lo comprimono ai lati spingendolo in alto. Il lago si è formato per una gigantesca frana che è caduta nel gennaio 2010 e ha ostruito il corso del fiume Hunza, il livello dell’acqua ha iniziato rapidamente a salire sommergendo alberi, case e diversi chilometri di Karakorum highway, oltre ovviamente a isolare la parte superiore del’Hunza valley raggiungibile adesso da sud solo tramite piccole imbarcazioni di legno. La situazione è anche molto pericolosa perché se il fragile argine naturale dovesse cedere milioni di metri cubi d’acqua travolgerebbero la parte inferiore della valle con danni incalcolabili. Saleem mi spiega che il lago c’è ancora per il fatto che i cinesi si oppongono all’abbattimento della diga perché vorrebbero rafforzarla e ricostruire la Karakhorum highway sopraelevata, immagino per portarci i turisti che adesso si fermano al confine geografico del passo. Credo che in questo i cinesi abbiano assolutamente ragione perché questa zona già di suo bella è enormemente impreziosita da questo enorme specchio d’acqua incastonato tra la montagne, e sono certo avranno la meglio, semplicemente perché hanno i soldi e la forza per farlo, con il risultato bene immaginabile che molto presto una perfetta strada asfaltata arriverà fino a qua e ne scenderanno bus carichi di quelle stesse giovani cinesi capelli al vento e minigonna che adesso arrivano fino Kunjerab pass e che verranno a turbare le abitudini dei rudi abitanti di queste valli. ‘La Cina è grande’, tante volte l’ho sentito dire un po’ ovunque dai pakistani, ed ecco chi a mio giudizio spazzerà via i talebani, non gli eserciti e la politica, ma gli abiti colorati per tutti, che già stanno arrivando da oltre frontiera, e le gambe bianche scoperte delle ragazze cinesi, che non tarderanno a venir giù per queste valli, e a sentire la gente con cui ho parlato da qui fino a Gilgit, pare che non stiano aspettando altro. Noleggiamo un’imbarcazione e filiamo giù ammirando rocce colorate, paesi semisommersi e picchi bianchi di ghiaccio. Superato il paese di Gulmit, ora raggiungibile solo in barca, c’è una strozzatura, in questo punto la Karakorum highway tagliava la valle, adesso ne vedo solo un pezzo immergersi alla mia destra e un altro sbucare alla mia sinistra per poi sparire definitivamente dentro l’acqua, perché da qui in poi il lago si fa più profondo, con le pareti laterali ripide e sempre più strette. Superata un’ampia curva verso destra il canyon si restringe fino a diventare largo non più di cinquanta metri e bisogna guardare molto in alto per vedere il cielo oltre le cime, poi si riallarga fino alla frana causa di tutto, mezza montagna venuta giù in un cumulo enorme di sassi e argilla, e decine di persone in attesa di noi. Io mi affido ai miei tre amici per la trattativa di una jeep che ci porti a Karimabad, su loro suggerimento lascio lo zaino nella barca, un ragazzo sudicio di polvere lo prende e lo trasferisce a riva, è così che si guadagna la giornata. E’ alto più di un metro e novanta, occhi verdissimi e capelli biondi a spazzola risaltano sulla sua faccia abbronzata. Fosse nato a Los Angeles sarebbe il classico istruttore di fitness circondato da giovani donne con seni sull’orlo di esplodere nei loro micro costumi, qua raccatta zaini e borse che imbrattano il suo kurta ormai diventato color della terra e attorno ha solo uomini più sporchi di lui. Guarda ammirato i miei sandali, vorrebbe che glieli regalassi, per fortuna Saleem arriva, gli dà qualche rupia e mi trascina via da quella situazione imbarazzante. In sette saliamo su una jeep da quattro e, a fatica tra i sobbalzi, andiamo su per la strada che attraversa gli sfasciumi della frana. Io sto comodo, nonostante le mie resistenze anche stavolta mi hanno lasciato il posto davanti mentre gli altri cinque si stringono nel sedile posteriore. Saleem mi dice di fare attenzione adesso con le foto e si raccomanda di non fotografare assolutamente donne, neppure gruppi di persone per strada se non sono sicuro che tra di loro non ci sono componenti del gentil sesso, perché è proibito e qualcuno potrebbe davvero arrabbiarsi violentemente. Non sarà molto difficile seguire alla lettera questa sua indicazione perché in Pakistan le donne risultano quasi assenti e comunque se ti vedono ti ignorano o fuggono. Nelle valli dell’Hunza e nelle zone intorno alla parte settentrionale della Karakorum Highway in realtà ancora alcune se ne vedono ma più giù, oltre Chilas, diventano davvero rare, e non solo quelle con il volto scoperto ma anche quelle con il burka integrale. Ho visitato diversi paesi musulmani, ma mai mi ero trovato in una nazione così integralista, e devo ammettere che spesso mi sono trovato a disagio, quasi inquietato, a girare per strade, paesi e città dove all’aperto, nei mercati e nei ristoranti, si vedono solo uomini barbuti dagli strani cappelli che indossano larghi kurta monocolore. A Karimabad, tra l’imponenza dei due colossi montuosi, l’Ultar e il Rakaposhi, cambiamo veicolo e a folle velocità ci dirigiamo verso Gilgit. Nonostante la maestosità dei quasi ottomila metri di queste due montagne, il paesaggio è meno spettacolare, la valle è più arida ma meno scoscesa, e verso il fiume centinaia di alberi carichi di albicocche addolciscono l’ambiente. A pochi chilometri dalla destinazione finale una frana ha completamente bloccato la highway, ci vorranno ore per liberarla, ma siamo fortunati perché una strada alternativa, l’unica, ha inizio poche centinaia di metri prima del punto oltre cui è impossibile proseguire, ed è facile tornare indietro e raggiungere Gilgit in una manciata di minuti. A Gilgit ci dividiamo, i tre ragazzi hanno il bus per Islamabad la mattina seguente e preferiscono stare vicino all’autostazione, io scelgo un’altra zona. Per ringraziarli di tutto li invito a cena, loro accettano e mi regalano una scheda telefonica pakistana che potrebbe essermi utile. Ceniamo nel ristorante del migliore albergo di Gilgit e ho modo di conoscerli meglio, mi parlano dei problemi del loro paese, dei talebani e del fatto che tutti e tre vogliono andare via, per raggiungere i loro genitori che lavorano nei paesi del Golfo Persico. Quelli di Saleem sono in Qatar, gli altri due li hanno a Dubai e in Arabia Saudita. Mi fanno assaggiare diverse specialità pakistane, tutto ottimo, e alla fine sono loro ad offrirmi la cena nonché a volermi riaccompagnare in taxi alla mia guesthouse.
ANDREA SABATINI
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