PREMESSA
Per portare a termine un viaggio come il mio occorre grande spirito di adattamento e convivere con le rivolte di stomaco e intestino, dimenticarsi i dolci e se proprio va tutto male l’Uganda è piena di parchi che offrono sistemazioni confortevoli con cessi dove ti siedi e tiri lo sciacquone (cosa che non ho fatto per non so quanti giorni) dove si possono godere ottimi panorami e attività di qualsiasi genere. Sulla base di queste premesse ho raggiunto la cittadina di Mbale, caotica, tutta banche e supermercati dove l’attrazione principale è la torre dell’orologio, che emozione esserci arrivata dopo due mesi d’attesa!
LORNAH E I SUOI CHILDREN IN NEED
La storia di Lornah potrebbe tranquillamente essere stata raccontata da Luise Alcott. Lornah è nata in un villaggio sperduto a circa 60 km da Mbale nell’est Uganda in una condizione di estrema povertà. Quinta di cinque figli, perde il padre appena nata e poco dopo tre dei fratelli. Sua madre, non potendosi occupare di lei, decide di mandarla a vivere con una zia che abita in un villaggio a cinque km da Mbale. Qua cresce facendo la cenerentola per la famiglia della zia, va a scuola e frequenta il college a Masaka, città a circa 150 km a sud di Kampala. Trova lavoro in un internet caffè e impara molto bene l’uso del computer. Riceve qualche offerta di lavoro che le avrebbe anche potuto far fare una discreta carriera ma capisce che il suo futuro non è quello.
Lornah è una donna dal carattere forte e si presenta subito come una persona precisa e professionale, nonostante la sorte l’abbia fatta nascere a condizioni e facilità zero è riuscita da sola con il suo cervello e la sua determinazione a crearsi una posizione importante. Nata come child in need ha deciso di dedicare la sua vita ad altri children in need e di prenderli per mano e insieme a loro camminare verso un futuro diverso da quello che gli si prospettava alla nascita.
Torna a Mbale e coi soldi guadagnati compra un terreno e una casa che sarà l’orfanotrofio e dopo qualche anno costruisce l’ufficio e la camera per i volontari.
Ho incontrato Lornah a Kampala davanti a un supermercato, mi è venuta lei incontro ed è stato subito feeling. Siamo partite in macchina col suo fidanzato in direzione Mbale. Africana anomala, Lornah ha trent’anni e non ha ancora figli, non mi ha chiesto un centesimo per la benzina e mi ha pure offerto il pranzo. Ha parlato brevemente del suo progetto ma principalmente ha detto, vieni, vedi e decidi, te ne puoi andare via subito o puoi rimanere quanto vuoi, non devi lavorare, non devi pagare ti chiedo solo di passare del tempo con loro però a partire da domani ora è tardi e dobbiamo andare a berci una birra!
Lornah ha una dote che vorrei avere anche io, sa delegare. Ovvero lei non fa praticamente niente impartisce ordini ma senza essere una persona austera e antipatica, nel suo orfanotrofio regnano serenità e buon umore, pensavo fosse il frutto dell’educazione che gli ha impartito quando erano piccoli ma poi ho visto che fa cosi con tutti. Un esempio eclatante, gestisce il supporto a distanza di circa 40 bambini, i sostenitori vivono tutti in Germania; ogni fine periodo scolastico prepara le lettere da spedire ma fa un’unica spedizione e in Germania ha una volontaria che si occupa di smistare tutte le lettere ai vari destinatari. Cucina qualche volta perché le piace ma non lava i panni e non fa le pulizie, ci pensano i ragazzi e ne sono contenti, gode del rispetto di tutto il villaggio e quando incrocia un ragazzino del sostegno viene salutata con l’inchino. Gioca con loro e quando gioca è una leader ride e si diverte quasi più dei ragazzini e le porte della sua casa sono aperte a tutti i ragazzini del villaggio. Quando è il momento del pranzo ci si conta e si divide per quanti si è. Il cibo non manca, colazione, pranzo e cena sono garantiti e i ragazzi si fanno la doccia tutte le sere.
Durante le vacanze scolastiche la giornata dei ragazzini è scandita dai giochi e dai vari impegni, cucinare, lavare i piatti, fare il proprio bucato e fare i compiti delle vacanze. Lornah non deve pregarli di assolvere i loro doveri, fanno tutto da se in perfetta autonomia. Questa è stata una delle prime cose che ho notato in questi ragazzini e così ho preso la decisione di dare un valore al mio alloggio di 15 euro al giorno e di acquistare con quei soldi il nuovo equipaggiamento della cucina. La scelta era stata determinata anche dal fatto che i ragazzi, senza recitare una parte in presenza di una volontaria, hanno dimostrato di essere un gruppo molto unito, più che amici e più che fratelli, una grande sinergia difficile da trovare un gruppo di persone, per di più ci sono nove ragazzine tra i 7 e i 16 anni che vivono insieme in uno spazio ristretto e con pochi beni materiali, non hanno mai discusso e si sono sempre mostrati uno per l’altro, servizievoli e molto rispettosi delle cose altrui e non mangiano mai dolci.
Appena ho comunicato a Lornah la mia decisione ha subito stilato una lista del necessario e siamo andate insieme nel downtown a spendere i miei 165 euro. Ha controllato scrupolosamente ogni singolo prodotto e con mio piacere ha considerato prioritario l’acquisto delle forchette, con mia immensa gioia dal mio passaggio i ragazzi iniziano a mangiare con la forchetta, ma come ho detto loro, non devono ringraziare me ma se stessi perché hanno dimostrato di aver meritato il passaggio dalla mano alla forchetta per mangiare e mi sono fatta promettere che non mangeranno mai più con le mani.
Lornah non pensa di aver finito di imparare, ha capito che i volontari sono importanti e vorrebbe averne sempre e sulla base della mia esperienza (con la latrina, ho patito le pene dell’inferno) ha deciso che coi prossimi soldi costruirà il gabinetto e la doccia per i volontari. Inoltre ho preso l’impegno di crearle dei profili su internet per avere più visibilità. Mi ha anche chiesto se voglio creare una rete italiana di sostenitori ma ho declinato, il sostegno a distanza è un impegno che deve essere preso per almeno 15 anni, l’organizzazione è piccola e se un sostenitore smette di sostenere il bambino smette di andare a scuola finché non si trova un altro sostenitore.
Doveva essere una settimana ma ci stavo talmente bene che ho prolungato fino a 11 giorni, nel tranquillo villaggio tutti erano cordiali e giravo in assoluta tranquillità. Un vicinato come tanti dove la vita è scandita da una quotidianità semplice e dove sembra non accada mai niente di particolare. Ogni 3 giorni si andava nel downtown a fare le compere e sbrigare qualche pratica (e io a cercare un cesso decente) e prima di partire tra i ragazzini regnava l’ansiosa attesa di sapere chi avremo portato.
Mi sembrava di essere stata catapultata all’improvviso in una storia raccontata da qualche romanziera di fine ottocento (nella mia stanza usavo la lampada a olio perché non c’era la correte elettrica!) uno spaccato di vita di un villaggio senza problemi e senza lieto fine ma una storia che si ripete all’infinito lontana da quelle che normalmente vivo qua.
I ragazzini di Lornah mi hanno dato tante soddisfazioni mi hanno dimostrato di essere sulla buona strada per diventare degli adulti formati che non lasceranno children in need per strada e questo è stato un passo anche per me visto che i bambini non sono mai stati il mio forte.
Bilancio dell’esperienza assolutamente positivo resteremo in contatto voglio tornare a trovarli!
A DAY IN BUWALI VILLAGE
Lornah voleva portarmi a conoscere sua madre e il villaggio in cui è nata, forse voleva farmi vedere che era partita veramente da zero o ci teneva a farmi vedere il luogo in cui era nata fatto sta che è stata una fantastica giornata!
Siamo partite al mattino Janet mi guardava con occhi languidi… “possiamo portarla?” “Certo!”. Non potevo portarli tutti, ma gli altri non ci sono rimasti male per fortuna… Prima nel downtown a fare le compere per la mamma e poi via un’ora di taxi collettivo come sempre spiaccicati (unica bianca) e strada tutta buche. La mamma di Lornah, di età indefinibile, si era messa il vestito della festa per il mio arrivo. Il vestito della festa era ridotto peggio di uno straccio, vive in una casa senza pavimento, è completamente sdentata e non parla inglese (questo vuol dire che non è mai stata a scuola). La casa è ancora da finire ci sono le pareti ma l’interno è costruito a metà, la mamma vive in due stanzette, ha qualche albero di matoke (banane) e di solito le mangia accompagnate dall’erba del prato. Un po’ di parenti lì intorno e Lornah stessa provvedono al suo sostentamento.
Con una buona dose di coraggio ho dovuto mangiare quanto mi era offerto. Carne (per l’occasione offerta da me) e matoke (ovvero le banane ma sanno di patate quindi vanno bene con la carne) l’erba non me l’hanno neanche proposta per fortuna, seduti per terra con le mani.
Due parole sulla carne: le macellerie non hanno il frigo, sono un chiosco di legno tutto scassato con appeso un pezzo di mucca con tante mosche che ci girano attorno, il macellaio taglia il pezzo lo mette su un tronco di legno ci parte con la mannaia per fare i pezzetti (frammenti di ossa che schizzano da tutte le parti) poi li posa sul piatto di una bilancia che non è mai stato lavato, li impacchetta in una foglia gigante e me lo mette in mano. Sorrido e divento vegetariana. Proprio per rispetto per la mamma ne ho mangiato un boccone (sgranando il rosario) pensando male che vada passo qualche giorno sul cesso (pardon latrina) e comunque se non ammazza rinforza, se è cotto si può; tutto bene comunque, anzi no, ma non certo per quel pezzo di carne.
Poi sento grandi schiamazzi, i bambini fuggono esagitati, Janet torna indietro concitata, “Seguimi! Seguimi! Vieni a vedere la cerimonia della circoncisione!”
La cerimonia della circoncisione è una festa non religiosa ma etnica tipica dell’est Uganda. Un folto gruppo di ragazzi, ragazze e bambini scorazza per le strade fangose del villaggio. In mezzo al corteo ci sono i due ragazzi che verranno circoncisi dal macellaio il giorno successivo. I ragazzi del corteo indossano i peggiori stracci che trovano e portano in trionfo ogni genere di cianfrusaglia. Non mancano di portarsi dietro taniche di “our local beer” ovvero un beverone color caffelatte che è il risultato della fermentazione di non so quale erbaccia.
Lornah non si era manco alzata intenta com’era a scolarsi il suo meritato litro di local beer con l’aggiunta di acqua calda (per disinfettarla!) bevendola direttamente dal becco della teiera.
Poi i ragazzini (la mia Janet più altri 3 parenti della mamma) mi hanno voluta portare al ruscello li vicino, li ho seguiti attraverso un sentiero ovviamente in mezzo agli alberi di matoke (qualsiasi spostamento era scandito dagli alberi di matoke), un po’ di titubanza poi ho messo i piedi a bagno, ma mi sono dimostrata poco agile e avvezza ai fiumi, non vedevo il fondo. Pensavo se frano devo prenderla sul ridere, ovviamente la mia goffaggine ha suscitato l’ilarità dei ragazzini che saltavano come stambecchi con la mia macchina fotografica in mano, che mi tendevano la mano e mi sembrava dicessero vieni nonna aggrappati a me…
Tornati a casa della mamma si era fatta l’ora di andare a fare un rapido saluto all’unica sorella viva di Lornah prima dell’emozionante viaggio di ritorno a casa. Camminando per il sentiero risento il vociare di prima e me li vedo arrivare alle spalle ecco i ragazzi della cerimonia della circoncisione che ci raggiungono e ci sorpassa festosi e divertenti come prima, poi al bivio ahimè ci separiamo noi da una parte e loro dall’altra ma ecco che sulla strada ci viene incontro un altro corteo ancora più numeroso e casinista. Prendiamo un passaggio in moto per andare alla casa della sorella e ne attraversiamo un altro ancora (la moto si fa largo tra i ragazzi che si sono fermati a cantare e ballare), inizia a piovere e poi a diluviare restiamo bloccate un bel po’ a casa della sorella (sette figli come da tradizione afro) ci offre il te (wow!) cosa staranno facendo i ragazzi del corteo? Di certo non si fanno fermare da un po’ di pioggia e quando la pioggia cessa ce ne andiamo e sono ancora là ancora più festosi e zozzi di prima. Compriamo 20 verze che ci bastano per 3 giorni (quindi niente carne!) e aspettiamo il taxi collettivo e le emozioni non sono finite. Sulla strada del ritorno l’autista del taxi collettivo (omologato per 14 con 22 persone a bordo di cui 21 neri + 3 neonati) ha inscenato una competizione automobilistica con l’altro taxi collettivo per una strada tutta fango e buche per poi divertirsi ulteriormente cercando di schizzare i passanti passando sulle pozze di acqua marrone formatesi dopo la pioggia. E se dopo questa avventura non mi sono venuti i capelli bianchi…
AUTOBUS NOTTURNO KISORO KAMPALA
Quando sono tornata a Kampala, dopo la fantastica esperienza a Mbale, ho trovato un tedesco al mio posto ma letti ce n’erano, anche lui come me era diretto a Kisoro l’indomani, decidiamo di andare insieme, ma dato quanto si è subito rivelato simpatico propongo a Kib, un membro della famiglia che mi ha ospitato, di venire con noi, era sul bus prima di finire la domanda (per fortuna).
L’esperienza sicuramente più forte di tutto il mio viaggio più che un’esperienza una prova di sopravvivenza che giuro farò di tutto perché non mi capiti più… sono sopravvissuta questo mi basta. Per problemi col bancomat, ho prenotato i posti sul bus all’ultimo. Dovevo affrontare un viaggio di 12 ore per 400 km e si trattava del viaggio di ritorno da Kisoro a Kampala. I posti più ambiti, ovvero quelli in prima fila, erano già stati prenotati, ma che sarà mai! Andiamo in fondo! Ottima idea…. Il bus parte alle 18 quasi puntuali, dovevo fare il viaggio da sola con Kib il tedesco per fortuna era partito alle 5 del mattino diretto a nord (senza preoccuparsi dell’esito del mio prelievo bancomat).
Come accade spesso un viaggio in bus notturno in un paese africano può riservare parecchi aneddoti interessanti.
Salgo sul bus e già c’era la puzza del precedente viaggio, prendiamo posizione ovviamente a gomitate (in Africa è obbligatorio sgomitare soprattutto nelle strette strade del mercato) nel frattempo caricano i soliti quintali di merci e adesso voglio qua un ugandese che mi spiega perché le matoke devono percorrere 400 km quando ci sono più alberi di matoke in Uganda che avvocati in Italia! Per non parlare dei sacchi di mais e non so quanta altra merce…. Passa la solita mezz’ora abbondante in cui gli aspiranti viaggiatori si contendono gli ultimi ambitissimi posti in piedi, quindi finalmente si parte omologato per 60 persone con 80 persone a bordo e il cargo trasbordante di merce.
Noi eravamo seduti in penultima fila dietro di me 7 persone con altrettanti lattanti in braccio, 4 bambini in piedi che non mi toglievano gli occhi di dosso e un discreto numero di valigie, poco più avanti le persone che occupavano i posti in corridoio, la via di fuga non era del tutto garantita… ma i finestrini si aprivano! Solo per l’aria le mie chiappe da lì non ci passavano. Ah dimenticavo… unica bianca.
A un’ora circa dalla partenza in una strada di salita il bus comincia ad arrancare fino a che non si ferma del tutto. Comincia il trambusto scendono prima quelli in piedi, poi capiamo che dobbiamo scendere tutti ma mentre scendevo c’era anche gente che risaliva in un incastro e sgomitamento quasi perfetto; bus rotto. Era leggermente appesantito.
Subito mi torna alla memoria uno degli ultimi racconti letti dei viaggi in Africa di Moravia. È una caratteristica dei viaggi in Africa quello di trovarsi fermi con la macchina rotta col meccanico a 80 km e lo stesso Moravia racconterà per me:
“in Africa un guasto al motore vuol dire il meccanico a cento, duecento miglia di distanza, vuol dire difficoltà se non impossibilità di raggiungere il meccanico, vuol dire lunghe attese, di ore e ore, su piste sperdute in cui non passano, e anche queste molto di rado, che le corriere.
È quello che puntualmente adesso ci succede. È ormai il crepuscolo, con un cielo verdolino sul quale si staglia, nero come l’inchiostro di china, il bizzarro arruffio della boscaglia. L’autista è disceso, ha aperto il cofano, guarda, esamina, scuote la testa. Scendo anche io, gli domando se il guasto è grave. Risponde che lui non può ripararlo, ci vuole il meccanico che sta a 40 miglia. Non è molto. Aspettiamo, alla prima macchina che passa mi faccio portare dal meccanico. Passa mezz’ora, passa un’ora e la macchina salvatrice non si vede. Intanto si è fatta notte le prime stelle brillano nel cielo; ed ecco, come richiamati da un sesto senso, diciamo così sociale, ecco, venendo da chissà dove, sbucano dalla boscaglia numerosi contadini. Sono vestiti di fatica, cioè in stracci, circondano l’automobile, la esaminano, ascoltano il racconto dell’autista che lo rifà ad ogni nuovo venuto. Guardano tutto, ascoltano tutto, ma, alla fine, con mia sorpresa, non se ne vanno. E neppure se ne stanno in crocchio, così, come si fa nei paesi, tanto per vedere come va a finire. No, eccoli radunarsi in cerchio a poca distanza dall’automobile, accendere un fuoco e sedersi intorno al fuoco. L’autista si siede con loro, non senza prima presentarmeli uno ad uno, con spiegazione forse non indispensabile ma significativa che si tratta di anime buone, di amici, di persone che vogliono assisterlo in un momento di difficoltà. Stringo varie mani indurite e rese callose dal diuturno lavoro con la zappa, ricevo diversi smaglianti sorrisi. In realtà tutta questa gente ha colto l’occasione del tenere compagnia all’autista sconfortato per fare un po’ di rustica mondanità. Hanno lavorato tutto il giorno, gli aspettava la solita capanna, la solita moglie coi soliti bambini addormentati nel buio, ed ecco qualcosa di nuovo.”.
Ovviamente io non sono Moravia pertanto ho solo potuta immaginare questa avventura mentre scendevo a gomitate dal bus non sapendo quanta sarebbe dovuta essere l’attesa (ma oltre al fuoco ci avrei messo qualche spiedino di pollo ovviamente!). Mi siedo sullo zaino e comincio ad aspettare; Kib va a fare pipì e torna sconcertato gli dispiaceva perché il suo paese faceva una brutta figura ma io non ero a disagio, gli ho raccontato del racconto di Moravia e ci abbiamo riso su. Poi si è avvicinato l’autista e mi ha detto, scusandosi, che un altro bus era appena partito da Kisoro per venirci a prendere. La strada era completamente buia e la notte calata (Proprio come da Moravia!), almeno non piove penso e alzo lo sguardo; per la prima volta in Africa mi trovo al buio completo non posso perdermi il tanto sognato firmamento dell’equatore, quante stelle! Potrei rimanerci anche un paio d’ore a guardarle! Intanto i miei 80 compagni di viaggio ne approfittano per far suonare tutta la musica che hanno sul cellulare, per ingannare l’attesa, così mi sono goduta il firmamento con sottofondo di 80 diverse canzoni ugandesi e il brusio di 80 ugandesi. Ma i momenti poetici finiscono ed ecco il nuovo bus.
Risaliamo con le solite sgomitate, intanto mentre cercavo di salire c’era gente che voleva scendere per recuperare le cose dal precedente bus (potevano recuperarle prima di salire ma questa è Africa). Passa ancora un’ora per reincastrare la merce e le persone pressate esattamente come prima come a creare una fotocopia del precedente bus. Ed ecco che con queste due ore passate su una strada di montagna il viaggio diventa praticamente tutto notturno.
Le situazioni che non mi hanno consentito di chiudere occhio sono state le seguenti: musica ugandese sparata a bomba per tutta la notte, ugandesi che si uniscono alla musica ugandese, puzza di cipolle (la sentivo ma non le vedevo) lattanti che due a due cominciavano a frignare, dossi rallentatori combinati con ammortizzatori che erano un ricordo, ansia di non ritrovare le mie scarpe in quel marasma umano e merceologico, bambini che cercano di dormirmi addosso.
I bambini non pagano il viaggio se non hanno il posto a sedere, si sa l’Africa premia chi reca malessere e disagio ai propri figli e così ce n’erano 4 che dovevano ammucchiarsi tra le valigie a prendere testate ad ogni dosso rallentatore, una cercava di appoggiare la testa sulla mia gamba, non ho potuto allontanarla.
Non potevamo tenere costantemente il finestrino aperto perché entrava direttamente tutto lo scarico del bus, in Africa camion e macchine sono vecchie e inquinantissime, andare in moto o camminare ai bordi delle strade si inalano costantemente polveri sottili, quindi appena il bus sparava la sgasata dovevamo chiudere il finestrino e restare con la puzza di cipolle. Io e Kib a turno dormiamo un po’ uno sull’altra ma mai più di 10 minuti per i sopracitati motivi, in qualche città il bus si fermava per almeno mezz’ora non mancavano i venditori di bibite e di cibarie ma io mi ero preparata avevo mangiato e lavato i denti prima di partire e non mi serviva niente; per le strade, anche delle cittadine, c’era costantemente gente che gironzolava, l’Africa è sveglia 24 ore su 24. Ovviamente durante le soste per 3 persone che scendevano altre 5 ne salivano e il saliscendi era lungo e pieno di sgomitate, quelli che scendevano caricavano poi all’inverosimile il boda boda (le moto che fanno da taxi) con sacchi e bambini e partivano alla volta di chissà dove (la loro casa spero), mentre quelli che salivano cercavano di incastrare la loro merce nei posto lasciati liberi dagli arrivati a destinazione la musica ugandese non si fermava mai.
Tutto simpatico e divertente ma se fosse durato qualche ora in meno! Dopo sette ore di viaggio non ne potevo già più, sonno, freddo ma meglio il freddo della puzza di cipolla, musica martellante, bambini piccoli che piangevano bambini meno piccoli che mi dormivano addosso e soste interminabili non vedevo l’ora di vedere la tranquillissima stazione dei bus di Kampala!
Ma il peggio si è verificato nell’ultima parte del viaggio. Per spiegarla devo fare una digressione sui cessi, come potete immaginare il cesso in Africa è ancora un concetto astratto, se ad un africano scappa il più delle volte va nel bosco, Lornah ha fatto più volte fermare il taxi collettivo per scendere a fare pipì, la carta igienica è inesistente. Quello che normalmente accade in Europa è che il bus si ferma all’autogrill si va al cesso e si compra la rustichella e ci si lamenta di qualcosa. In Africa l’autogrill sono i venditori che arrivano a proporre cose dal finestrino e la gente scende poco.
Io mi ero tutelata per non scendere ho smesso di bere un’ora prima di partire e ho pisciato tutto prima di partire e nel viaggio mi sono consentita solo qualche sorsata d’acqua per evitare di dover esplodere visto quanto era complicato scendere in quell’incastro perfetto. Quello che dovrebbe fare una mamma è armarsi di pazienza e raccogliere i 4 figli incastrati tra le valigie e con quello più piccolo che si è tenuta in braccio scendere durante una delle varie lunghe soste e fargliela fare anche a forza. Ma evidentemente mi è toccata una mamma con poco giudizio da questo punto di vista. Mi sono svegliata ad un certo punto e non sentivo più la puzza di cipolla e ho capito subito quello che era accaduto e penso lo abbiamo capito anche i miei piccoli lettori.
Sveglio Kib quasi con un pugno “APRI SUBITO QUELLA C—O DI FINESTRA!” allontano la povera bambina che appoggiava la sua testolina sulla mia gamba con una gomitata e penso sono fottuta la via di fuga è sempre inesistente, ci sono quelli in piedi da chissà quante ore… “quanto manca alla mia cara stazione dei bus?” Kib guarda fuori e dice “siamo quasi a Kampala invertiamo i posti…” era sempre nero ma verde dalla vergogna.
Appena il bus è atterrato alla stazione sono scesa fracassando parecchi setti nasali pur di uscire da quell’inferno subito; era giorno la città era sveglissima (non era manco andata a dormire) il solito via vai di persone e merci, biciclette stracariche che non possono essere pedalate da quanto pesano, gente che attraversa la strada in diagonale macchine che non fanno passare moto, moto che cercano di passare tra le macchine, polveri sottili. Camminiamo un po’ prima di prendere una moto senza rivolgerci la parola, ma poi gli ho sorriso l’incubo era finito procedevamo lentamente verso il meritato letto distrutti dalla notte della peggiore prova di sopravvivenza ma era finita e per questo ero molto contenta così abbiamo cominciato a ridere, a casa ho dormito fino a mezzogiorno. Mi sono svegliata contenta di essere sul mio materasso per terra e non sul bus notturno.
CONCLUSIONE
Ovviamente non è tutto, ci sono: la gita alle Sipi Falls, l’esperienza a messa, chiamata a parlare in pubblico ai fedeli, le notti di Kampala che nonostante sia una metropoli africana con tutti i suoi casini mi sono sempre sentita protetta, il downtown market, la famiglia e gli amici di Kib e i loro 1000 modi di aprire una birra, la passeggiata per le alture di Kampala coi suoi tre principali luoghi di culto (cattedrale cattolica, chiesa protestante e moschea) la magnifica gita in canoa (un tronco scavato) sul lago Mutanda e successiva passeggiata sull’isola collinare, come preparare un caffè iniziando a raccogliere i chicchi dalla pianta (un’ora e mezza), il confine con la Repubblica Democratica del Congo, il confine col Ruanda (la giornata dei confini), il giorno del mercato di Kisoro con il via vai di donne coi canestri sulla testa e il bambino appeso dietro la schiena e l’eterno viaggio che mi ha portato all’aeroporto.
Ho preferito parlare solo delle cose salienti e mi sembra di averne dette a sufficienza, il resto resta nel mio cuore perché non potevo chiedere di più dall’Africa che finalmente mi si è aperta in tutta la sua socialità, nei suoi bei paesaggi e nei suoi lati peggiori ho cercato tutto e ho trovato veramente tutto; pienamente soddisfatta!
VALENTINA GALLEANO
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