Balcani on the road

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“La Penisola balcanica, anche conosciuta come Balcani, è una penisola dell’Europa Orientale che è delimitata a sud-ovest dal Mare Adriatico e dal mar Ionio, a sud est dal mare Egeo e ad est dal Mar Nero….”
In realtà i Balcani sono molto di più. Almeno nelle menti mie e del Maestro rappresentavano da anni la meta di un viaggio sognato, mai realizzato. Terra strana, insieme di nazioni orgogliosamente bellicose. Ferita viva, lacerante, mai del tutto guarita di un’ Europa che ormai sta scomparendo.
In un continente abilmente assuefatto all’assenza di nazionalismi i Balcani hanno rappresentato, forse ancora rappresentano, una strana eccezione. Per anni terra di conflitti.
Gli Ottomani, scacciati dall’allora cattolicissima Spagna, tentarono una risalita in Europa tramite i Balcani. I veneziani posero le basi del loro dominio sull’Adriatico sulle coste istriano dalmate. Il sangue dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria sancì lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Tito e le sue armate conclusero la Seconda. La morte del Maresciallo diede inizio ad uno dei più sanguinosi conflitti civili su terreno europeo.
Questo ed altro ancora hanno valso alla splendida penisola l’appellattivo di “polveriera”. Spiegare, capire, comprendere tutte le dinamiche sottostanti gli avvenimenti che per anni hanno coinvolto la regione non era certamente la prima preoccupazione mia e del Maestro. Curiosi sempre, arroganti mai. Conoscere un mondo nuovo, per certi versi immune ad alcune derive culturali banalizzanti di cui il nostro bel continente è invaso ogni giorno, ci stimolava non poco.
Una domenica di primo novembre, grigia, piovosa e desolatamente inutile vede me ed il Maestro trovarsi per un insolito aperitivo primo pomeridiano. Mezzogiorno è passato da poco quando il tradizionalissimo Monte Baldo, enoteca del centro degna di menzione al merito per qualità e calore, ci accoglie e ripara dalle intemperie autunnali e dalla noia, inseparabile quanto ammiccante amante del vivere.
Il buon Gianni, cui affidiamo lieti le nostre bevute, ci presenta un decanter dallo splendore granato emanante inebrianti e densi sentori di vita. Nemmeno il tempo del primo sorso, un sorriso all’oste premuroso, uno sguardo alla pioggia fitta ed ecco che la voglia di partire mi assale.
Non resisto. In preda ad un raptus da viaggio esco dall’enoteca e correndo sotto l’acqua giungo alla vicina libreria dove, passati pochi istanti mi raggiunge il Maestro. Il commesso, leggermente sorspreso da questa irruzione, ci fissa con sguardo interlocutorio. Una guida sui Balcani; grazie! Rientrati col prezioso volume tra le mani iniziamo a ragionare a voce alta. Città, strade, commenti, tradizioni e storia balcanica rieccheggiano tra i tavoli in legno e le bottiglie esposte alle pareti dell’osteria.
Dettagli. Date. L’itinerario è presto fatto. Quattro giorni, tre notti. Partenza dalla nostra Fatal Verona direzione est-sud est, sosta ristoratrice in quel di Zagreb, diritti sino alla Serbia, destinazione Novi Sad, città di secondo piano e proprio per questo meta ideale. Ripartenza in direzione Bosnia Erzegovina. Sarajevo, capitale dai mille volti, teatro di guerre e crocevia di culture, mondi e religioni. Discesa verso l’ Adriatico con tappe obbligatorie nella sbandierata Mostar e nella Mariana Medjugorje. Notte nell’imperiale Spalato. Ripartenza. Casa.
Sommariamente le date previste per la dipartita sono decise per il mese di dicembre; tra l’8 e il 28. Chissà.
Pochi giorni, imprevisti ed impegni inderogabili riducono le tempistiche al lumicino. Fine dicembre…??…
Deciso a non rimandare oltre la partenza chiamo il Maestro: “Settimana prossima…???”. Ghigno telefonico, sospiro. Si parte.
Dopo leggera quanto insolita contrattazione fissiamo la partenza per le 6.30 del mattino di giovedì 17 novembre, compleanno del Maestro. L’albeggiare cupo, tipico delle prime mattine d’inverno c’accompagna nei primi km di autostrada. Giunti a Trieste, passato il confine sloveno, ecco che un pallido sole ci accoglie promettendo quanto di più gradito possiamo aspettarci. Bastano pochi minuti in direzione Ljubljana, città che sfioreremo soltanto, per renderci conto che il clima balcanico è decisamente instabile. La temperatura precipita infatti sotto lo zero. Una nebbia densa e plumbea avvolge ogni cosa. Le foreste di sempre verdi attorno a noi compaiono e scompaiono continuamente avvolte dall’abbraccio della fitta foschia che attutisce ogni suono. Impossibile non ricordare. Meno di un anno fa, stessa strada, stesse foreste. Imbrunire, sera, notte. Quel 31 dicembre Ljubljana seppe scaldarci nel suo gelido cuore. Accolti in terra slovena da una città festante.
La strada scorre decisa sulle note altisonanti di un vecchio cd pop russo ucraino, acquistato là, nell’estremo est ormai prossimo alla Russia, che come un bicchire di brulè bollente riscalda i cuori miei e del Maestro. Mentre la nebbia sta svanendo nelle piane collinari sempre più morbide che l’asfalto taglia deciso, ecco la prima frontiera comparire ai nostri occhi. Croazia. Poco prima di aver passato il controllo documenti un incredibile quanto non desiderato dubbio divampa negli occhi quieti del mio compagno di viaggio. Il passaporto?… Dotato soltanto di carta d’identità valida per l’espatrio, dimentiacato il documento di tanti viaggi a casa, il Maestro inizia a scusarsi per quella che potrebbe rivelarsi una dimenticanza pesante. Vada per Croazia, Slovenia e Bosnia. Il grande quesito resta la Serbia. La nostra guida ci condanna perentoriamente ad un obbligo di passaporto. Le ambasciate non rispondono, tergiversano, balbettano e ci riattaccano scocciati. Urgono soluzioni alternative. Tuzla, città a sud del confine serbo-croato, nel cuore della Bosnia, sembra fare al caso nostro. Industriale, titina, squallida e di nessun interesse turistico, chissà. La scelta di Tuzla sta per essere confermata quando finalmente un docile e romanesco funzionario d’ambasciata risponde alle nostre chiamate. Novi Sad, per alcuni istanti sacrificata al viaggio assieme a tutta la Serbia, rientra prepotentemente nell’immagginario mio e del mio compagno di viaggio. Dal 2010 in Serbia, per i cittadini italiani, non è più necessario il passaporto… alla faccia del buon Ivan ultras serbo a Genova.
Zagabria (Zagreb) , ore 11.47. L’entrata in città, direzione centro, dopo alcuni km di vellutata autostrada scorre tranquilla. Le buone nuove, giunte soltanto pochi istanti prima dall’ambasciata italiana in terra bianco rossa, ci hanno predisposto al migliore degli umori possibili. Sosta carburante e via nel dedalo intricato di vie e viuzze che sempre più si affannano intricate nel cuore della capitale croata. La città, pur mostrando evidenti segni di socialismo reale, risulta tipicamente ben conservata nelle prossimità del centro. Concentrati sull’approssimativa mappa cittadina riportata dalla sempre più deludente Lonely Planet, troviamo fortunosamente un parcheggio pseudo libero nell’immediata prossimità del centro pedonale. Abile manovra, sfanalata tattica e irruenza tremendamente italica ci consentono di parcheggiare in pochi istanti. Da via Milana Amrusa, passeggiando nel grigio e freddo mezzodì “Zagabrese”, eccoci sbucare in una delle piazze principali della città. Trg Bana Josipa Jelacica, dedicata al patriota e nazionalista croato (Ban Jelacic) che a metà ‘800 diede battaglia agli Ungheresi. Il tempo è poco, la fame tanta. Per cui, nonostante l’architettura, l’atmosfera e le bellezze locali inducano le nostre menti e i nostri cuori ad una visita più approfondita, optiamo per una razionale quanto casuale ricerca di una sana bettola mangereccia. Risalendo la via adiacente la cattedrale cittadina ecco il Resturant Katedra comparire impettito ai nostri occhi.
Rapido studio del menù esposto esternamente. Titubanza d’ordinanza spazzata via da uno sguardo complice ed ormai familiare. Si entra. Con leggero stupore, ma nemmeno troppo, troviamo un ristorante desolatamente deserto. Chiediamo se è possibile mangiar un boccone al solerte titolare venutoci ad accogliere poco oltre l’ingresso. Data la risposta affermativa masticata in un mix d’inglese, italiano e croato, eccoci seduti nel più Hemingweyano degli angoli che la sala da pranzo offre agli ospiti. Luci soffuse, dipinti e vecchie foto ornamentali alle pareti, addobbi e atmosfere ammiccanti ai primi anni novanta italici. In definitiva non male. L’inglese è praticamente sconosciuto, l’italiano idem, il polacco è gestibile nelle sue similitudini linguistico lessicali. Ordiniamo intenzionalmente una zuppa del giorno e due Cevapcici con bacon e formaggio, oltre ovviamente a due spledide bionde da mezzo alla spina (Ozujsko), le zuppe saranno invece due, segno evidente che o il mio polacco è da rivedere o polacco e croato non c’entrano un cazz…(forse entrambe..). Terminato il bollente quanto salutare brodino servito a entrambi dalla sorridente cameriera, masticando l’ennesima fetta di ottimo pane croato e fissando estasiati il perlage della birra ghiacciata di fronte a noi, iniziamo a trarre i primi sommarissimi bilanci del viaggio. Aspettative. Impressioni. Sensazioni. Un accavallarsi di vissuto e vivendo, teso ad un futuro molto più che prossimo. I cevapcici nei nostri piatti mi fanno tornare a quando, bambino di 5 o 6 anni scaraventato nella realtà Jugoslava di fine anni Ottanta, impaurito da quel paese vicino e lontano che sentivo nominare nei discorsi dei miei genitori e dei loro amici Istriani di una vita, trovavo pace seduto ad un tavolo in qualche Gostilna carsica. L’attimo presente. Certo. Il domani alle porte. Instabile. La Serbia, La Bosnia. Il Viaggio.
Pagato il giusto; ridiscendiamo leggiadri la stretta via che conduce alla piazza ormai avvolti nell’incanto autunnale croato quando, urla e respiri affannati ci fanno voltare di scatto. La gentile cameriera ultra quarantenne ci sta rincorrendo neanche fossimo ergastolani in fuga. Data la mia padronanza con ogni qual si voglia idioma slavo m’incarico di gestire la situazione. Non capendo un’acca inizio a dar sfoggio del mai dimenticato body language. Scontrino…??… Ricevuta…??…. Mancia..??… chissà…. dopo diversi tentativi andati a vuoto, col Maestro nell’invidiabile posizione di pubblico alla “chi vuol essere milionario”, la cameriera desiste dalle sue intenzioni facendo ampio gesto con la mano. Non sapremo mai cosa volesse. Il buon Ban Jelacic, orgogliosamente impettito sul suo fido destriero, non ci è mai sembrato così amichevole. La piazza, ricoperta da un tendone trasparente c’invita ad entrare nel suo ventre. Spezie, brulè, salsiccie e birra ghiacciata. Tavoli in legno, panche e sgabelli rivestono e addobbano quella che sembra una sagra paesana in pieno centro città. L’idea di fermarci e dar sfogo alle nostre innate doti di degustatori ci sfiora ancora una volta, ma la strada chiama.
L’auto è là dove l’abbiamo fortunosamente parcheggiata un ora e mezza prima. La nostra dipartita scatena una vera ressa all’accalappia posto. Peggio che nella nostra bella Verona. Nel frattempo, girando un po’ qua e un po’ là, andando a memoria c’incamminiamo verso la periferia dove, speriamo, troveremo indicazioni favorevoli l’autostrada che ci condurrà amica in Serbia. Passando a fianco al giardino botanico, poi alla monumentale stazione dei treni fantastichiamo circa una possibile vita in quel di Zagreb. Bella città, belle ragazze, bella vita… forse. I blocchi impetuosamente posti ad adobbo del vialone che conduce fuori città, se da una parte evocano in noi tristezza e domande profonde, dall’altra ci fanno nuovamente sorgere il quesito della mai troppo discussa e dimostrata Teoria dell’equivalenza dei blocchi. La guerra. Tutto questo sembrerebbe normale. Ma il conflitto balcanico a Zagabria cos’ha lasciato. La città ci saluta, la curiosità ci assale. La nostra inservibile guida consegna a noi, assetati lettori, un quadro variegato e confuso. Bombardamenti, scontri, distruzione. Gli anni novanta e molto altro.
Man mano che ci allontaniamo dalla capitale croata, innoltrandoci nell’estremo sud della Slavonia percorrendo verso sud est quest’istmo di Croazia, il paesaggio va via via degenerando in un familiare deserto di piane e steppe. La foschia, il grigio, il freddo che fin qui c’hanno accompagnato, negandoci di godere lo splendore delle montagne sloveno-croate, iniziano a svanire svelando ai nostri occhi quanto di più monotono si possa immaginare viaggiando su terra. Lunghi paesi disposti verticalmente, in file di case parallele, iniziano a comparire ai due lati della strada. Un sole pallido, ormai sovrano e incontrastato dominatore del nostro orizzonte, ci avvolge e invita ad un abbiocco pomeridiano che il nostro Viaggio non consente. Sosta in pseudo autogrill \ bettola a pochi km dalla Serbia. Obbligatoria. Mai decisione fu più saggia ed azzeccata. Simpatico lavavetri croato, dall’aspetto molto più serbo in verità, ci pulisce accuratamente il lunotto anteriore senza lasciarci democraticamente proferire verbo. Soltanto in fase di contrattazione alla richiesta di 2 kune per il servizio ribattiamo in automatico 5…. al giovane butel non sembra nemmeno vero. Può così tornare sul suo furgoncino delle autostrade croate, per cui teoricamente lavorava, fiero e soddisfatto. Ancora imbambolati da viaggio, birre e lavavetri optiamo per quanto di più maschilisticamente elevante vi sia al mondo. Sonora “fischiata” in squallida e sorprendentemente ben tenuta toilette di frontiera. La bettola travestita da autogrill ci accolgie come i peggiori saloon del far west erano soliti accogliere i lerci e sudici cow boy. Con totale indifferenza. Decidiamo di berci un caffè e stuzzicare a caso quanto ci capiti sotto mano. Indimenticabile l’incontro con la mai troppo rimpianta Orangina, originale aranciata in bottiglia super giusta tanto in voga nei primissimi anni novanta. Vittima sacrifcale del monopolio di Fanta e co. nella cultura globalizzata del XXI secolo.
Usciti al sole e all’aria fresca ci sentiamo due leoni in gabbia. La nostra libertà sta lì, parcheggiata a pochi metri. La nostra savana, la strada. Ripartiti allegramente iniziamo ad entrare in clima frontiera. La Serbia dista ormai pochi km. Sono da poco passate le 16 quando, di fronte a noi, le sbarre di confine croato si alzano spianando la strada alla conquista della Serbia del nord. Per il sud ci sarà tempo. Soprassiedo sulla menzione al merito alle ufficiali di guardia serbe, croate e slave in genere. Tali dettagli potrebbero incrementare il desiderio di contrabbando con conseguente arresto di troppi viaggiatori. La nazione dell’ex presidente Milosevic ci accoglie con inseparato calore. Il sole tardo pomeridiano di questo fine d’autunno sembra voler dissipare ogni dubbio sulla vera natura di questa Nazione. Orgogliosa sempre, cattiva mai. Tutto ci sta sorprendendo in positivo. Strade, segnaletica, clima, paesaggi. Come bambini al primo giorno di vacanza ci scopriamo sorpresi ed estasiati di fronte a tutto. Anche il più piccolo e trascurabile dettaglio assume, ai nostri occhi, parvenze messianico rivelatrici. Estasi da viaggio…
Tirando a sorte su quale uscita autostradale prendere, abbandonati a noi stessi dall’inservibile quanto provocatoriamente avversa guida sui balcani occidentali di cui disponiamo, per grazia o per amore scopriamo di aver imboccato la via più diritta verso la nostra meta. La balcanica Novi Sad ci attende… dove esattamente non ci è dato a sapere. Sappiamo soltanto che le quasi otto ore di viaggio, l’imbrunire infuocato delle piane ormai rivolte alla Slavonia collinare, la nostra poesia di viaggiatori, concordano unanimamente per una tipica quanto urinale sosta a bordo strada. Mai sonetto fu meglio sonato.
Le seganlazioni per Novi Sad sono in realtà molto scadenti. Passati diversi villaggi memorialisticamente collegati ai più ungheresi ricordi del Maestro, giunti ad un tipico bivio a tre strade, annotato sul nostro tacquino di viaggio come la stragrande maggioranza dei veicoli svolti a sinistra, optiamo per un saggio “ferma che chiedo”…. La giovane mamma con infante virgulto di diec’anni appena, oltre a ricordare indelebilmente la piccola Cecilia e sua madre di manzoniana visione, si dimostra pronta a dare a una mano a noi. Cretini, senza gps né mappe dotate di qualsivoglia dettaglio stradale. Le ipotesi mie e del Maestro (a sinistra ovvio… io andrei dritto…) vengono perentoriamente infrante da una mimica balcanica assolutamente di livello superiore. Ringraziati con ampi gesti delle braccia e vocalizi italici mamma e piccolo serbo festante, proseguiamo determinati secondo le indicazioni ricevute. Destra, cavalcavia, sinistra sempre dritti….
Dopo pochi minuti ecco un insperato quanto benvenuto cartello recante a chiare lettere cirilliche la scritta Novi Sad…. Il trafico aumenta, la strada inizia a salire irta arrampicandosi su una verde e oscura collina. Il buio della notte sembra nascondere ogni cosa. Soltanto il serpentone di auto e camion arrancanti sulle rampe asfaltate nel mezzo della foresta c’indicano l’unica via possibile. Giunti ad una biforcazione ecco che, come scheggie impazzite, tutte le auto dispondendosi su due file iniziano una folle discesa fra curve e tornanti, strettoie e cambi di direzione. Timidi, titubanti e inconsapevoli, impieghiamo alcuni minuti a comprendere la strana soluzione urbanistica adottata dagli amici serbi. Lato destro della valle in discesa. Lato sinistro in ascesa. Due strade divenute sensi unici a due corsie. Sulle ali dell’entusiasmo, in scia ad uno spericolato mini van bianco, ci lanciamo nella folle corsa in direzione Novi Sad. Come i primi pionieri alla conquista dell’Ovest, come cercatori d’oro riversatisi in Alaska, Io ed il Maestro sfrecciamo verso la nostra meta.
La strada spiana. Le foreste sembrano lasciare il posto a morbide colline e insignificanti centri abitati. Della nostra meta nemmeno l’ombra. Dovremo esserci. Dovremo esserci. Dovremo esserci… Non ci siamo ancora. Ecco finalmente una deviazione, una freccia, un tunnel. Uno o forse due km in sotterranea. Un ponte magnificamente illuminato. Riva opposta. Novi Sad.
L’entrata in città. Trionfale. La notte da pochi istanti avvolge ogni cosa ma le luci, poderose, orgogliose, nitide di questa provincia a nord della Serbia, illuminano soffusamente e confusamente ogni metro di asfalto sotto di noi. La scadente e derelitta piantina a nostra disposzione sulla loenly planet ci manda da destra a sinistra guidandoci vaquamente da un capo all’altro della città senza farci nemmeno annusare il cuore vivo, il centro. Costretti da lunghi giri a vuoto, persi in vialoni e sommersi da palazzi che sembrano tutti uguali, decidiamo di chiedere informazioni ai gentili abitanti di Novi Sad. Così mentre il sottoscritto domanda con fare affabulante chiarificazioni cartografiche ad una graziosa mora di trent’anni, il Maestro punta deciso un rassicurante omone sui quaranta poco più avanti. Ottenute le rispettive informazioni scopriamo nel confrontarci che le due versioni divergono profondamente. Destra o sinistra…???… Diritti o alle spalle…???… Optiamo per una pseudo concordanza delle due versioni giustificata dai diversi punti di vista. Chissà. Dopo circa una quindicina di minuti di esasperato girovagare nelle periferie di Novi Sad, siamo nuovamente pronti a chiedere nuove delucidazioni sulla viabilità cittadina. Un orgoglioso quanto smonato capellone occidentalesco sembra fare al caso nostro. Almeno saprà l’inglese. Bingo. Sempre diritti, seconda a destra poi prima a sinistra. Mitico. Hotel Zenit arriviamo. Immancabilmente le dettagliate indicazioni dell’amico anglofono ci conducono in piena periferia, là dove nemmeno i serbi mettono piede. Tra strettoie, villette private e sensi unici, rieccoci su uno dei quattro vialoni principali.
Questa volta decidiamo di far da soli. Penetrati sino al blocco del traffico della zona pedonale, letti un paio di nomi di vie, provati altri tre o quattro vicoli traditori, crediamo di aver finalmente capito lo strano dedalo urbanistico su cui si sviluppa la città. Fatto il primo giro in tondo manchiamo di un nonulla la stretta entrata nel cortile dell’albergo. Al secondo tentativo, presa bene la mira, infiliamo con una sapiente retromarcia contromano uno strano vuoto legislativo stradale serbo. L’hotel Zenit ci appare in realtà molto meno sgargiante e sfavillante di quanto ci fosse sembrato nella mini foto prospettivamente affabulatoria del sito internet. La posizione a occhio è comunque ottima, per cui, evitiamo sottigliezze e accapparatoci l’ultimo posto auto disponibile nella buia corticciola antestante l’albergo, dopo diplomatica trattativa con una squadra di muratori serbi, siamo pronti ad entrare in scena. Anzi. Sono pronto. Fedeli al nostro motto di prudenza, ispiratore tra l’altro del mitico “vedo non vedo”, mentre il Maestro resta a controllarmi le spalle (e soprattutto la sua auto…) io mi avvio verso l’ingresso. Salita una prima breve rampa di scale, passato un portico di cemento stile sovietico, ecco una seconda gradinata condurre ad un’imponente portone in legno. L’ingresso, ancora scale, un corridoio. Calcinacci, intonaco e polvere di cemento. Una sbiadita quanto nascosta freccia indica “reception” a destra. Il piccolo soggiorno \ sala da pranzo che si affaccia sul bancone in legno dell’accettazione clienti ha un suo fascino. I tavolini in legno, sobriamente decorati con tovagliette più o meno ricamate e dai colori vivaci, sono disposti lungo la parete. Uno per ognuna delle numerose finestrelle che addobbano delicatamente le pareti. Sbirciando da una di queste, attendendo la conferma della prenotazione, intravedo la sagoma del Maestro. Fieremente in piedi, tra la macchina e l’albergo. Sguardo ruvido. Sangue caldo.
Il gentilissimo ragazzo della reception, terminati i veloci controlli di rito riguardanti la nostra prenotazione, consegnatemi le chiavi mi accompagna all’esterno per far parcheggiare l’auto nel posteggio riservato all’hotel. Rassicurati circa la costante sorveglianza del posto macchina a noi destinato, scaricati i bagagli, siamo in ballo. La camera si presenta splendidamente. Le scuse del giovanotto serbo circa la temporanea assenza di ascensore, la cavità dello stesso che si apre squarciando il cuore dell’hotel Zenit, il rischio di finirci dentro… per ora non ci interessano poi tanto. La stanza è perfetta nella sua essenzialità. Comoda, calda, spaziosa il giusto. Adagiate bruscamente le valigie a terra. Divisi gli spazi vitali. Scelte le rispettive brande per la notte (lunga o corta che sia…), siamo pronti alla prima stappatura in terra serba. Un Valpolicella Superiore dell’est veronese sembrerebbe fare al caso nostro. Vino già assaggiato, degustato ed apprezzato in annate precedenti si rivela invece la più cocente delle delusioni. Sentori assurdi, tannini squilibrati, acidità insensata. Praticamente imbevibile. La delusione per il buon gotto mancato mi spinge a cercare conforto sotto una doccia bollente. Ritemprato nel fisico, bramante di scoperte nello spirito, ripasso velocemente le poche notizie relative alla serena cittadina che ci reca gentile ospitalità. Tutte riassumibili in due nomi. Kod Lipa per una lauta quanto meritata cenetta. La via di Laze Teleckog per un bicchiere postdinner.
Lasciata la stanza nel più classico limbo del “vedo non vedo”, gettata catarticamente la mezza bottiglia rimasta nel gabinetto, siamo finalmente pronti alla più trionfale delle uscite. A questo punto, io, il mio senso dell’orientamento ed un abbozzo basato sui più elementari punti cardinali ci guidano alla scoperta del centro storico di Novi Sad. Corticciola e portico dell’hotel sbucano, come previsto, nella centralissima piazza Zmaj Jovina. Il colpo d’occhio è, per tutti noi amanti di quelle atmosfere otto-novecentesche strizzanti l’occhio al sovietismo, unico. Una, dieci, cento piazze. Ognuna diversa, unica e irripetibile nella sua banale monotona eccitante frenesia. Via vai di gente. Luci. Insegne luminose. Vetrine sgargianti. Sguardi rubati o forse donati, chissà. Nel girare a vuoto per alcuni istanti assumiamo le sembianze di spensierati ragazzini, pallone tra i piedi, a spasso per i campetti del borgo. Ripresa conoscenza dopo questa breve divagazione onirica, eccoci attraversare con passo deciso l’intera piazza. Quasi al termine ordino una svolta a sinistra. Perentoria. Inaspettata. Sino a quando, pochi metri dopo, gli occhi increduli del Maestro si trovano a fissare la scritta impressa su una vetrina: “Kod Lipa”.
Terminata la mia autoesaltazione, stabilito di posticipare l’aperitivo al dopo cena, entriamo con fare noncurante e sicuro nel locale. L’arredamento in legno massiccio ricorda le vecchie taverne di primo novecento. Le pareti, alte e candidamente pitturate al grezzo d’un bianco ruvido ed imperfetto, bene sposano la sostanziale tendenza al rustico che avvolge l’ambiente. Un oste quanto mai taciturno e in apparenza calorosamente burbero ci accoglie. Quasi tutti i tavoli sono liberi. Chiediamo se sia possibile cenare nelle cantine, a detta delle guide vera chicca del locale, la risposta negativa non ci scoraggia e scelto un tavolo vicino l’ingresso, ci accomodiamo curiosi. L’occhio, tra una sbirciata e l’altra al menù, va a cadere alternatamente sui quadri raffiguranti battute di caccia nella neve ed in desolate steppe balcaniche, sulla manciata di avventori di quella che può considerarsi un’osteria slava a tutti gli effetti (per lo più omoni barbuti e ben piantati…) e sul grande tv che trasmette programmi di caccia con orgogliosi cani da ferma ben inquadrati nelle fasi della punta. Il tutto non ci distrae ovviamente dall’ordinare un antipasto, che poi divideremo in due e due belle porzioni di grigliata mista di pura carne serba. Gustosa e selvaggia come piace a noi, almeno speriamo. Il tutto verrà accompagnato da una bottiglia di vino rosso montenegrino, vera riserva enologica della grande Serbia per anni nel cuore e nei pensieri del tanto contestato Slobodan Milosevic. La bottiglia, pur presentando tutte le caratteristiche di confezionamento dei mercati secondari, distanti anni luce dai fasti e dall’eleganza spesso artificiosa delle etichette franco-italiane, ha un suo perchè ed una volta assaggiata si rivela non poco meritevole. La cena prosegue tra ampie sorsate granate e assaggi di formaggi e salumi tipici. I due piattoni di carne grigliata si riveleranno ottimi, abbondanti e pregevoli per qualità e cottura. Gli argomenti di conversazione non mancano di certo. Il Viaggio, i Balcani, La Caccia, il buon Conte Arvedi, anziano e simpatico ex proprietario del mitico Hellas perito in condizioni grottesche ed amante della caccia nelle tenute di famiglia, specie quelle balcaniche. Terminata la cena, ordinato un caffè, è il momento dell’ammiccante richiesta fatta all’oste, sempre più accomodante nei confronti di due turisti assetati come i sottoscritti: Rakja. Dicesi Rakja bevanda alcolica ad alte percentuali prodotta dalla distillazione o fermentazione di una materia prima di partenza qualsiasi, frutta, tuberi, graminacee. La più diffusa, specie nelle regioni Bosniache di nazionalità serba è la Slivovica, fermentato o distillato di prugne. Le versioni commerciabili si attestano tra i 40 e i 45 gradi alcol, quelle contadine artigianali sfiorano spesso i 60 o 70. Ispirazione a tali bevute è rintracciabile nel lungometraggio “The Hunting party”, film che offre uno spaccato paesaggistico culturale balcanico di notevole fattura. Chiusa questa noisosa quanto necessaria parentesi contestuale le successive pagine di racconto saranno incentrate sulla descrizione antropologica degli effetti di tali bevande alcoliche. In una parola… Eccezionali.
La rakja si presenta al nostro tavolo sotto forma di innocuo bicchierino luccicante e grondante sudorini alcolici. L’albicocca apre le danze in un mix di morbidezza glicenica e freschezza balsamica, ossia, una botta tremenda. La ciliegia richiede giustamente il suo spazio. Le erbe del contadino reclamano ascolto. L’ortica o qualcosa di simile si offre vittima al nostro tavolo. Impossibile non bissare il primo amore, per cui ancora albicocca. L’oste, ormai tramutato ai nostri occhi e nella sua stessa mente in druido taumaturgo, non manca mai di rifornire il tavolo di cristallini bicchieri splendenti di alcolica mistura. L’estasi è totale. La leggerezza onirica. In un mix di dialetti, inflessioni, lingue e linguaggi (forse rimembranze del capitolo geografico del sussidiario Cetem delle scuole elementari…), riusciamo a comunicare col druido che ci sta guidando nel mondo della Rakja serba e convincerlo a mostrarci il cuore pulsante del locale. Le cantine seminterrate dove i “tavolini incastonati tra le botti permettono di annusare l’odore del vino” (almeno secondo la nostra guida…) Giunti nelle tanto sospirate segrete vignaiole del ristorante la delusione sognante, mitigata solo dall’ennesimo bicchiere di Rakja colmo ben saldo nelle mani, pervade ogni cosa, ogni corpo. Il mio, quello del Maestro, quello del druido stesso. Impotente di fronte a tanta pochezza. Consapevole della bolla speculatoria attorno ad una normalissima cantina che volgari compilatori di guide da turismo di massa hanno trasformato in poesia ed arte. La realtà è ben diversa. Grande arredamento… grandi botti… grande atmosfera. L’odore del vino in cantina o ad affinare è tutt’altra cosa. Preghiamo lasciateci questi piaceri puri nella loro semplice straordinarietà. Finzioni drammaturgiche.. no grazie. Il nostro amico Oste vede e provvede. Un’altra Rakja offerta dalla casa ci aspetta al piano superiore.
Cuore o orgoglio.
Il conto ci lascia ovviamente esterefatti per la sua sostanziale incosistenza, specie se paragonato alle speculazioni burocratico europeistiche. Paghiamo con lauta quanto meritata mancia a colui che fin qui ha illuminato i nostri cuori bisognosi di calore fiammeggiante. L’uscita dal Kod Lipa è essenzialmente un’apoteosi nazionalistico indipendentista. Poesia, Sonetto, Gloria, L’Aura.
Dimenticato il mai troppo rimpianto Petrarca ci concentriamo, ovviamente in suo onore, su ciò che più influenzò la sua secolare poetica. La Bellezza.
Dirò tra le righe che le ragazze serbe si presentano come molto, molto, molto notevoli. Girando per ore atorno al concetto si potrebbe perdere la retta via. Belle. La serata, per la verità nulla di trascendentale essendo un giovedì sera qualunque, promette nevvero niente male. Le vie pullulano di gente, i vicoli secondari traboccano di profumi, le piazze si riempiono di un vociare tra lo straniero e il familiare, comunque sia, interessante. Percorsa per intero la stretta via di Laze Teleckog, cuore pulsante della fredda movida Novisadese, aggirato il centro pedonale passando per le strade Njiegolseva e Miletica, rieccoci in Zmaj Jovina. Bella come il sole che sorge al mattino. Calda come un tramonto d’agosto. A questo punto l’impervia Laze è nostra preda. Uno, due, tre locali a destra e sinistra, pieni di luci, colori, odori. Tapas club. No Maestro. Torniamo sui nostri passi. London club. Si entra.
Londra è qui, o forse una scontata imitazione della capitale britannica ha trovato qui riparo ed accolgienza. Il pub è nella sua creazione ordinato, pulito e caratteristico. Mentre la Aj7 Milano sta asfaltando il Partizan Belgrado in un’anonima quanto seguita partita di eurolega il Maestro prende commiato recandosi alla toilette e lasciando al sottoscritto l’arduo compito della comanda. Due birre bionde e medie come un mezzogiorno balcanico saranno il giusto aperitivo alla serata. Tavolo centrale, cameriera serba, bella. Birra bionda, fluente. Partita scontata. Forse no. Il Partizan ha cuore, la mercenaria Milano no. Sul parquet non contano le griff ma il cuore, l’agonismo e la tecnica di base. Rimonta. Canestro dopo canestro in un vortice d’emozioni crescente noi tutti siamo supporters del mitico Partizan (nel ’97 l’allora Stella Rossa sconfitta in casa nella finale di Korac cup dalla mitica ed invincibile Mash Jeans Verona… ndr).
La sconfitta di Milano è accolta da un boato che nasce ovviamente dal nostro striminzito tavolo. La seconda comanda di birre passa innoservata ai più, non alla cameriera dal rosso capello che prontamente ci lancia un’occhiata interlocutoria. Il biondo e maltato liquido alcolico, scorrendo sereno nei nostri corpi, sposta avanti le lancette di quasi un’ora. Poco prima delle undici decidiamo di pagare il nostro debito al London pub e uscire in cerca di fortuna altrove. Non prima di aver risposto alla fulminante domanda della bella rossa al banco. “Where are you from…??… Italy…???…”… risposta inebetita e alquanto frastornata… “of Course.”…. “i Knew it.”. Della serie…. c’abbiamo l’etichetta. La gentile ragazza ci convince della bontà delle sue intenzioni. Rassicurandoci che i lati espressi del nostro carattere che con cotanta leggerezza riconducevano alla nazione italica erano soltanto positivi. Baci e abbracci d’ordinanza, mancia obbligata. A presto. Laze Teleckog è ora l’ombelico del mondo. Piena di gente, dentro e fuori da locali stipati, rumore e calore profano. Il tanto criticato Tapas club diviene ora stipato e rinomato luogo di ritrovo immancabile in una visita a Novi Sad. Arredamento moderno. Guardaroba full. Gente in piedi, spintoni. Banco ad “L”, baristi cattivi, cameriere accattivanti. La nostra anima freudiana è ormai all’ennesima potenza. Un tavolino recante la scritta “reserved” a chiare lettere diviene magicamente libero al terzo ordine di Rakje. Qui prosasticamente servite in micro ampolle da 0,5 cl. Eccellenti. Eleganti. Dimensionate. Una volta stretta la longilinea ampollina tra denti e labbra, innalzata con leggero movimento del capo, eccola dischiudere l’inebriante liquido che dalla gola sale profondamente al cervello. Non dire basta. “Other one please…”. La discesa che si fa ascesa.
Terminata l’ennesima ampolla di gloria ecco una bionda gemella, seconda metà d’una bellissima serba orgogliosamente nascosta tra bicchieri e bicchieri, chiedere timidamente la nostra disponibilità all’accoglienza al nostro metro quadro di tavolo, di tre Grazie serbe dallo spigliato fascino balcanico. Ovviamente, dopo lungo e sofferto conciliabolo, io ed il Maestro ci vediamo costretti ad approvare e convalidare l’invito. Perdere il tavolo… Mai! Le tre ragazze si dimostrano pazzescamente innovative. Giovani. Belle. Profonde ed affascinanti. Il paradiso sorride a noi viaggiatori per una notte in quel di Novi Sad come non speravamo da tempo. Dopo poche parole, qualche gesto, un paio di Rakje ingurgitate con balcanica memoria, le tre grazie slave iniziano a sorridere senza ne capo ne coda. A noi. Noi inutili nullità che la strada serba ha sputato sul lungomare novisadese.
Là dove il mare non esiste. Saska, Natasha e Saska i loro nomi. Prepotentemente entrati nella scena del racconto. Biondi capelli, tendenti al castano per alcune, profondi occhi verdognolo cobalto. Empatia. Magnetismo. Bellezza. Venere. Due sorelle. Un’amica. Sorella maggiore aperta, simpatica e accattivante. Sorella minore nazionalisticamente chiusa al proprio circolo di spasimanti di razza, nazione, cultura serba. Amica completamente in balia degli eventi. Per tale motivo, facile preda, disdegnata dalla moltitudine. La serata si scalda fra sorrisi rubati e Rakje pagate a noi stessi. Birra splendente per le ragazze. Distillati pesanti, elegantemente ingurgitati per noi omoni italici.

Delle tre ragazze, Saska mora, la sorella maggiore, si dimostra realmente la più aperta ed interessante. Il trucco nero attorno le palpebre mette in risalto il verde smeraldo che splende luminoso dai suoi occhi. Magnetico. La conversazione aperta tra sorrisi e ridolini idioti leggermente alcolici, intervallati dalle frasi di circostanza in dialetto stretto che intercorrono tra me ed il Maestro, prosegue con frequenza crescente. Scopriamo aver a che fare con tre ragazze bosniache che da un paesino di confine hanno deciso di spostarsi in Serbia per con concludere gli studi universitari in quel di Novi Sad. Nonostante qualcosa non torni alle logiche e quadrate menti mie e del mio matematico compagno di viaggio, soprassiediamo sul disquisire inutilmente di geo politica e di fronte a cotanta grazia e bellezza optiamo per un profilo ben più che basso….
Altra rakja altro regalo. Ste ampolline della minchia sembrano non finire mai. Il ghiacciato quanto focoso liquido racchiuso al loro interno idem. Nasdrovie, salute o chi per esso. Ormai è chiaro anche agli osservatori più distratti che le tre grazie serbo-bosniache sono magneticamente attratte dal nostro italian style (….come no…??!!??).
Soltanto la sorella più piccola, la bella e graziosa Natasha, sembra non solo indifferente, ma a tratti insofferente della situazione.
Non volendo disturbare oltre la bella compagnia slava decidiamo di fare un passo indietro e tornare a farneticare su ciò che rappresentano i Balcani. Tale mossa è accolta con sorpresa dalle due Saske che tra sorrisi, sguardi e frasi in mezzo inglese rientrano prepotentemente nella scena. La conversazione riparte, alternando ancora rakje, sorrisi, dialetto veronese e ammiccamenti patetici. Ottenuto il numero della sorella maggiore accettiamo di buon grado l’invito a seguire le nostre muse del mese in un locale vicino.
Risalita l’ormai affollatissima Laze Teleckog in direzione Zmaj Jovina, pochi metri ed ecco sul lato sinistro della via aprirsi le porte di un altro club, forse il Lazino Tele, però concitazione, rakje e ora tarda non aiutano i ricordi. L’interno è molto più spazioso del Tapas. Le pareti dipinte di un blu cobalto tendono a raffreddare di molto l’intero ambiente. Tutti i tavoli sono zeppi di giovani che tra una birra, un bicchiere e una danza conversano in tranquillità. Le nostre amiche, asfaltando ogni remota quanto utopica speranza realizzativa, si ricongiungono con un gruppo di amici, di cui fanno parte tra gli altri, tre o quattro orsi serbi di incerta ancestrale natura.
Il Maestro, da saggio ed esperto viaggiatore qual’è, si ritrova ad ordinare un’ultima bionda alla salute di ciò che poteva essere e non è stato. Il sottoscritto, infastidito da cotanto realismo, prova a girare la serata a suon di rakje, intermezzate da una birretta per non far torto al fidato e navigato amico. Scelta che avrà esiti, duole ammetterlo, disastrosi. Si avvicinano le tre del mattino, l’alcol è ormai rarefatto e mischiato indissolubilmente nel mio corpo. Perso di vista il Maestro da quasi un’ora, termino le mie farneticazioni al tavolo delle belle e pazienti amiche. L’accordo verbale sul risentirsi di lì a un’ora rimarrà tale. Saluto ed esco di scena. Barcollando fiero.
Laze Teleckog, Novi Sad, ore 3.18 a.m del 18 novembre. Estasi. La via profuma di vita.
L’aria che si respira è continuamente ravvivata dalle calde folate di profumi e rumori che l’aprirsi e chiudersi delle porte dei vari locali rinnova ogni istante. La notte s’illumina già all’orizzonte. Passo dopo passo eccomi giungere in piazza Jovina. Bella, fredda, amica. Pensieri, parole soffocate nella solitudine etilica, ricordi ed emozioni. Che bel viaggio. Già proprio un bel viaggio. Portico in cemento, gradino traditore, barcollo. Scalinata sulla sinistra. Zenit Hotel. Casa.
La sveglia di noi viaggiatori su strada in terra balcanica suona presto. Le otto sono passate da pochi minuti. Ciabatte, felpa e pantaloncino corto riscaldano il mio corpo pronto per una lauta colazione. Il Maestro ben più fresco e riposato di me, nonostante le escoriazioni rimediate su quel mezzo gradino sotto portico, attende paziente le mie macchinose operazioni di approssimativa vestizione. Trapani, martelli e scalpelli accompagnano la nostra trionfale discesa per la ripida scalinata dell’hotel. L’ascensore sarà presto realtà. La reception, desolantemente deserta sino alla sera prima, è oggi ravvivata da un caldo soleggiare che filtra da ogni finestra e dal vociare confuso dei vari avventori sparsi tra i pochi tavoli della sala colazione. Un essenziale quanto ben curato buffet ci da il benvenuto, assieme al sorriso cordiale della giovane receptionist che ha preso il posto del biondo ragazzo della sera precedente. Pane, burro, marmellate e un fresco succo d’arancia sono quanto di meglio esista al mondo per digerire un post serata degno di nota.
La giornata soleggiata sembra sorriderci. Qualche battuta su rakje, Serbia e dintorni.
La testa ancora alleggerita e resa ovattata dalle ampolline ingurgitate qualche ora prima. Saldato il nostro onestissimo conto ci congediamo dal mitico Zenit hotel pronti, quasi, per ripartire. Caricate le valigie, rientrai in albergo per recuperare dettagli lasciati in stanza, decidiamo di concederci un’ora di tour in quel di Novi Sad. Per respirarne a fondo l’aria del mattino, l’atmosfera e un pochino di spirito diurno.
Sbucati in una piazza ben più che deserta rimaniamo per alcuni istanti immobili. Sole in faccia. Equilibrio precario. Sorrisi e risate ebeti. Sfiorata la chiesa ortodossa cittadina, rientrati verso la cattedrale cattolica, studiamo per qualche minuto la pianta storica della città posta all’entrata di Zmaj Jovina, commentiamo bravamente disposizione e planimetria cittadina come esperti urbanisti alto medievali, decidiamo di rintanarci nella miglior caffetteria disponibile a vista per profondo caffè ristoratore.
Il Costa cafè di Novi Sad si presenta ben più alternativo dei classici locali sparsi per l’ Europa. Ampi divani, angoli a salottino, arredamenti anticati. Vetrina varia ma non troppo banalmente omologata. Libri e riviste sparse disordinatamente attorno le pareti. Una bella ragazza pronta, alla bisogna, artisticamente adagiata su un divano in pelle marrone che meriterebbe ben altri finali. Accettato l’onere della comanda, ad un bel caffè non può non essere accompagnato un altrettanto stabilizzante “cochino”, ossia una bottiglietta in vetro di globalizzante Coca Cola, il meglio del meglio per la gestione di post sbronza ostici e spigolosi.
Il morale mio e del Maestro è alto. La rakja, pur avendo ormai abbandonato i nostri corpi, ha lasciato una piacevole leggerezza alcolica nelle nostre anime. La bella bionda “alla bisogna” fa il resto. Iniziano le puntate politicamente scorrette. I commenti. Le occhiate. I sorrisi tristemente rincoglioniti. Un toscano riserva entra prepotentemente sulla scena inebriando e soffocando i poveri avventori serbi inconsapevoli di tutto.
La strada chiama, l’ora si fa tarda. Manca poco alle dieci. Sarajevo è lontana.
L’uscita di scena da quel del Costa cafè novi sadese è quanto di più patetico possa esistere. Inchino, saluto e ampi sorrisi provocatoriamente lanciati in italico idioma colpiscono il cuore della povera biondina serba. Esterefatta di fronte a cotanta schiettezza d’intenti rimane basita e rapita. Magari…
Saliti in macchina siamo pronti, guida alla mano, a seguire la via più breve per giungere alla nostra successiva tappa. Sarajevo.
Capitale della Federazione di Bosnia Erzegovina, città resa tristemente celebre dai fatti del conflitto balcanico, sede del famoso assedio di metà anni novanta. Crocevia di storia e culture. Ortodossi, cattolici e soprattutto mussulmani.
Da Novi Sad ridiscendere in direzione Ruma, poi ancora attraverso la piana serba avvicinarci al confine passando per Sabac e Loznica, da cui contiamo di sfondare in Bosnia. La maggior parte dei paesi e delle cittadine che attraverseremo ci sono totalmente sconosciute. La fretta nel partire ha fatto passare in secondo piano ogni qualsivoglia preparazione o studio di piante, tragitti e percorsi. Si viaggia a vista, guidati dal caso e da una scadentissima guida. Molto ardua si rivelerà subito la dipartita da quel di Novi Sad. Il disordinato e schematico dedalo di vie e vialoni che tanti grattacapi ci aveva procurato la sera precedente si ripropone a canone inverso. Sbagliamo probabilmente soltanto un paio di incroci, quel che basta per ritrovarci in una periferia a un passo dal ponte di fuoriuscita dalla città ma totalmente persi nel lungo fiume cittadino. Laciata da parte l’inutile Lonely Planet, decisi ad affidarci al caso ed al buon senso, eccoci finalmente e tristemente sulla retta via per l’addio alla più bella sorpresa di terra balcanica.
Ponte, galleria, gola a due sensi. Giunti sulla sommità iniziamo la ridiscesa tra foreste e case in legno osservando i vari banchi di frutta e distillati casalinghi che si susseguono su entrambi i lati della strada. Ancora segretamente invaghiti della potente rakja, serbiamo nel cuore la speranza di un nuovo incontro con quelle gelide ampolle che tanto hanno saputo riscaldare i nostri cuori ed inebriare le nostre menti fino a poche ore prima.
Il Maestro, valente ed esperto guidatore, opta per una sosta improvvisa. Un anziano serbo di campagna ci arriva incontro. Alla virile stretta di mano seguono indicazioni gestuali circa le nostre richieste. “Quelle due bozze di rakja là…”. Liscia per me, alle erbe per il mio compagno di viaggio. L’amico slavo insiste premurosamente per regalarci sopra il conto quattro mele e un paio di pere. Gentilezza estrema ricambiata da foto ricordo condite con masculini abbracci a ripetizione. Forti del nostro neo acquisto alcolico, grati di cotanta abbondanza a prezzi tanto stracciati, sulle ali dell’entusiasmo ci incamminiamo a bordo della nostra auto verso la desolata piana serba.
Passato lo snodo autostradale che punta Belgrado, proseguito perpendicolarmente verso la Bosnia, il traffico pesante continua a rallentare non poco la nostra andantura. Le quattro ore preventivate per giungere in quel di Sarajevo sembrano già dilatarsi oltre le cinque, vedremo. Tra Ruma e Sabac, oltre al traffico pesante, nebbia e foschia monopolizzano amorevolmente il tragitto. Villaggi e città di frontiera. Molto più che no global, occidente free. Le indicazioni per la frontiera tardano a comparire. La scala su cui si basa la nostra evanescente attesa si dimostra ancora una volta fallimentare. 1, 10, 100 km… chissà.
Mentre seguiamo per Zvornik sparisce Loznika, là in un deserto di nebbia e steppe inesplorato. Pochi km, poi il nulla. Catapultati in una terra di confine ignorata dalle mappe, tralasciata dalle segnaletiche, dimenticata dal mondo. Un fiume, un binario ferroviario ed infine un’imponente lago artificiale appaiono ai nostri occhi mentre nebbia e steppe lasciano consapevoli il posto a colline e foreste. Un cargo merci di spropositata misura dona il tempo per gradita fischiata a bordo strada. Si riparte.
Non esistono in questo lembo di Serbia indicazioni di nessun genere per l’ormai tanto sospirata Bosnia. Il fiumicciattolo che da alcuni km ci accompagna si tramuta metro dopo metro in un imponente lago artificiale. Tale bacino acquifero, risultando estraneo ed inesistente alla nostra derelitta guida, aumenta quel senso di ansia che soltanto le grandi e sconosciute distanze sanno regalare durante un viaggio. Le snelle torri di ottomana memoria, imponenti ed impettite al di là del lago ci sussurrano frasi in lingua bosniaca. Sussulti, squarci, attimi. Il lago si allarga. Km, km, km. Dove siamo…??
Una famiglia serba, intenta nel difficile e mai banale lavoro dei campi, notata la nostra interlocutoria presenza a bordo strada, manda avanti l’anziano decano. Servito di banalmente imprecisa mappa, mi faccio incontro accomodante e sorridente. Gesti, mezze parole, inchini e sguardi maschi. Niente da fare. Arriva la moglie. Attempata donna slava con occhio vispo e attento. Dopo breve e chiarificatore colloquio col marito, presa in mano la vigliacca mappa di cui disponiamo per il viaggio, pronuncia un nome quasi amico ed indica con la mano la direzione. Ljubovjia… sempre diritti.
Rientrato in auto esordisco con un sostanziale “siamo giusti…”. Lasciando ai minuti successivi la spiegazione che forse abbiamo cannato di quasi 50 km la prima frontiera serbo-bosniaca spingendoci troppo a sud. Poco male. I paesaggi offerti dagli imponenti lavori titino-sovietici di riqualifica delle vallate di confine meritano questo e ben altro. Spettacolo il sole che brilla su di un lago specchiato nelle torri delle moschee poste ai lati di gole ed insenature rialzate. Scogli. Testimoni. Storia. Dopo varie e sinuose svolte seguendo il lungo lago eccoci passare, distratti e assorti, una stradina, un ponte striminzito e un confine. Ferma,,,!! inchioda, ,,!!aspetta…! L’inversione di marcia rimane l’unica alternativa.
Svoltato finalmente sulla sinistra dopo pochi metri di risalita, attraversato un ferroso ponte, freddo e metallico, ecco una prima sbarra di frontiera. Confine. Documenti alla mano usciamo indenni e tristemente malinconici dalla calorosa e sorprendente Serbia. Gli ufficiali bosniaci ci accolgono facendoci garbatamente accostare a bordo strada. Infastiditi da cotanta abnegazione al lavoro, posteggiamo tristi la nostra calda autovettura sul lato destro della strada. Di fronte a tanta risolutezza, nostra nell’andare oltre, dei funzionari nel farci perdere sapientemente tempo prezioso, l’unica reale preoccupazione al nostro procedere è rappresentata dai due litri di ottima quanto illegale e non etichettata rakja serba. Dopo attenta, precisa e puntigliosa disamina dei nostri documenti di viaggio i bonari serbo bosniaci ci lasciano rifluire verso il cuore dei balcani con fare quasi amichevole. L’unica domanda che penetra tra dubbi e incertezze riguarda la direzione da seguire per giungere nella secolare Sarajevo. Leva…leva,,, left… Se la mie conoscenze idiomatiche slavo-polacche non sono totalmente da buttare ritengo con ragione d’aver intuito “sinistra”.
Il Maestro, tra il convinto e il disperato, annuisce severo e prende la sinistra. Le colline lasciano via via il posto a dolci quanto affascinanti montagne. Verdi, Selvaggie e dimenticate. I dorsali montani sono popolati di baracche, isbe e quant’altro possa richiamare una parvenza di centro abitato. Ad ogni capanna, casa, baracca coincide un’impianto di alambicchi, cisterne e quant’altro sia indispensabile per una sana distillazione casalinga. Le domande, i non detti, le esclamazioni fioccano nelle menti mie e del buon Maestro.
Alla faccia dell’islam sti bosniaci bevono e distillano più di noi. Già. bosniaci per il mondo, abitanti dell’orogliosa Repubblica Srpska nella fredda e dimenticata realtà geopolitica. Le impervie salite, tra tornanti e dorsali ghiacciate che sempre più insistenti appaiono ai nostri occhi, ci convincono nell’approfondire più dettagliatamente la cornice contenutistica che prepotentemente ci abbaglia. Pagina dopo pagina, dettaglio dopo dettaglio, ecco apparire ai nostri occhi un nuovo stato. Chiamato Bosnia Erzegovina dai distratti analisti filo occidentali, nella realtà suddiviso in quattro diverse entità geopolitiche. La Bosnia e l’ Erzegovina, federali sorelle d’un tempo balcanico di secolare memoria. Federazioni di Titina memoria. Convivenza riproposta negli anni duemila. La Repubblica Srpska. Orgoglio Serbo. Cuore pulsante di nazionalismo tricolore disperso tra le montagne di confine.
Da nord a sud. Passando per i villaggi ad est. Banja Luka, Doboj, Srebrenica, Visegrad, Kotezi. Cuore e orgoglio serbo in terra nazionalizzata bosniaca. Il distretto di Brcko. Città stato, regionalistica realtà dagli strani contorni, dagli evanescenti confini e dalla politicamente corretta legittimazione. Le strade montane, sempre più serbe ai nostri occhi finalmente illuminati di storica verità, appaiono ora dolci, morbide e calorose come solo un abbraccio tanto desiderato in mezzo al freddo desertico sa essere. Giunti ad un incrocio interlocutorio, destinati a rispondere bianco o nero, Serbia o Bosnia, in quel di Vlasenika, una giovane coppia di chiaro sangue bianco, azzurro e rosso, c’indica timidamente ma con orgogliosa e fredda decisione la via per quella capitale tanto disprezzata dai serbi in terra bosniaca.
Sarajevo. Sinistra poi destra.
Terminata la lunga ascesa alle cime balcaniche ecco comparire ai nostri estasiati occhi uno spettacolo paradisiaco. Un’interminabile altopiano fatto di morbidi e leggeri saliscendi collinari d’alta quota, contornato di foreste montante, colorato dalle leggiadre quanto intense luci del tramonto e riscaldato dai camini distillanti ininterrottamente profondi liquidi alcolici ci inebria di vita. Viaggiamo ormai a vista. Le distanze volgarmente ed approssivamente riportate sulla nostra globalizzante guida non c’interessano più. Sorpassiamo un lento camion di legname, ritmante fusi orari e dilatazioni temporali a noi sconosciute. Uno, due, tre tornanti secchi ed avvolgenti. Spiazzo sterrato. Cambio autista. Preso tra le mani il volante, risvegliato dal sogno in essere e divenire d’un viaggio ormai profondo, metto la seconda e per pochi metri mi faccio ri-sorpassare dall’imponente camion di legname passato soltanto pochi minuti prima. La strada riprende a scorrere lieta ed accomodante sotto la nostra auto. Il buio che ormai assorbe ogni rumore ed ogni distanza dilata il tempo e la sua percezione. Traffico crescente in entrambi i sensi. Fari e luci che con frequenza crescente illuminano la deserta montagna balcanica.
Sarajevo 5 km. Pochi minuti ed ecco che la periferia urbana, drasticamente incuenata tra le pareti ansiose d’una gola selvaggia, fa la sua orgogliosa comparsa sulla scena. Luci. Segnaletiche. Calore. Vita. Sarajevo.
Una discesa ripida e orgogliosamente arrampicata tra le montagne c’abbandona nel cuore cittadino. Un semaforo. Due. Alberghi ed ostelli. Guida, note, appunti. Lo stradone di Mula Mustafe Baseskjie ci accoglie, stretti fra tram e autovetture nel cuore cittadino. La mia guida si fa convulsa. Là sulla destra intravedo un nome amico. Il nostro hotel, forse. Beccato al primo tentativo. Divieto di sosta, divieto d’inversione. Prima via a destra. Irta risalita di un lato di gola sarajevese mai considerata utile ad occhio straniero. Slalom tra strette auto parcheggiate, viuzze diroccate e cordoli sporgenti. Ridiscesa. Semaforo. Tram. Marciapiede. Quattro freccie. Garni Hotel Konak. Presente.

A questo punto, dopo spigoloso parcheggio su altissimo bordo strada bosniaco, il Maestro decide di scendere ed entrare in hotel per accomodare i dettagli della nostra prenotazione. Rimasto solo in auto, tra una sbirciata e l’altra agli specchietti, osservo la fiera decadenza degli edifici affacciati sulla via in cui ci troviamo, sorta di circonvalzione rispetto al centro storico cittadino.
Grigi, come solo tali periferie di stampo sovietico sanno essere. Trasanadati, tristi e apparentemnte deserti. In realtà pieni di vita. Botteghe, appartamenti universitari ed ostelli trovano riparo tra quelle mura come in nessun altro posto.
Raggiunto nel frattempo dal mio fidato compagno di viaggio, vengo informato che il gentilissimo ragazzo della reception sarà molto presto nostro ospite a bordo dell’auto, in maniera tale da mostrarci la via più breve per raggiungere lo pseudo posteggio privato cui godono gli ospiti dell’hotel.
Passati pochi istanti ecco un giovane bosniaco sui 25 salire al mio fianco. Capello lungo castano, barbetta da burba appena accennata, viso e lineamenti molto gentili, inglese buono.
Sotto la sapiente guida del nostro nuovo amico non ho difficoltà a ripercorrere i vicoli osservati casualmente poco prima e centrare la corticciola, stretta fra due decadenti palazzi, incuneata nella grigia oscurità della notte Sarajevese, abbracciata alla locale stazione di polizia.
Le operazioni di parcheggio, vuoi per la stanchezza, vuoi per la reale impervietà dello striminzito posteggio, risultano più macchinose del previsto, tanto che mi vedo costretto a lasciare il volante al Maestro.
Scaricati i bagagli, strette le bozze di vino sotto braccio, c’incamminiamo seguendo il ragazzotto profondo conoscitore della città. L’hotel dista in realtà poche decine di metri.
La reception all’ingresso, appena sulla sinistra entrando, è molto semplice ma nel contempo ben curata. Il bancone in legno massiccio, le piante negli angoli, le poltroncine di pelle ricordano i più tradizionali ingressi alberghieri. Appena consegnati i documenti ecco una smorfia comparire sul volto del giovane bosniaco. Veniamo tristemente informati che, a causa di un errore in receptions, la nostra doppia con letti singoli si è tramutata in doppia con twins bed. La cosa in realtà non c’infastidisce più di tanto, altre volte è capitato di dover dividere lettoni o altro per risparmiare qualcosa. Le poche righe lette sulla nostra malefica guida pochi minuti prima però cambiano tutto. L’omossessualità, secondo la Lonely Planet, è mal vista nei balcani, in particolar modo in Serbia e Bosnia. Per cui… Faccie schifate di fronte alla prospettiva di dividere l’unico letto disponibile, smorfie animalesche e virili. Accettazone tacita e rassegnata dell’eventualità ormai divenuta realtà.
Mentre ci incastriamo nell’ascensore, facendo aumentare i sospetti nel biondo bosniaco circa la nostra ambigua natura sessuale, tra sorrisi, rassicurazioni e palesemente forzate ed esplicite smorfie di ribrezzo ad ogni contatto reciproco, io ed il buon Maestro ci affrettiamo a premere il numero due sul tastierino della cabina metallica che si appresta a risalire l’edificio dell’hotel.
Pianerottolo rivestito di caldo legno e ben sploverata moquette blu notte ci accolgono al piano della nostra stanza. Aperta la porta ecco rivelarsi ai nostri occhi un sotto tetto degno del miglior romanzo d’amore mai scritto. Là in quella stretta, bassa, scomoda sia pur estremamente ben curata mansarda, dovremo passare una notte in un bel matrimoniale di mogano verniciato.
Lasciati da parte i dettagli sistemiamo le valigie. Cotrolliamo bagno, lucernari, tv… non manca niente.
Rapido conciliabolo chiarificatore. L’ora tarda ci fa propendere per una saggia sistemazione compresa di doccia e vestizione italica, cui seguirà ridiscesa ed esplorazione del cuore pulsante sarajevese, chiedendo magari consiglio al buon receptionist su dove sia più indicato passare qualche ora fra goti, danze, sguardi ed emozioni di balcanica memoria.
Sono le sei passate da poco quando facciamo il nostro esordio nella movida cittadina. Pochi metri dopo l’uscita della nostra calorosa sistemazione,voltato un angolo pedonale sulla sinistra eccoci catapultati indietro nel tempo di 100, 300, forse 500 anni. Rinascimento là dove il rinascimento nemmeno incise sull’architettura urbana. Poesia, Calore, Cuore ed atmosfera. Piccole case, capanne d’un tempo, costeggiano fitte ed incalzanti i due lati dello stesso vicolo che ci spinge in una delle pittoresche vie del centro pedonale. Ferhadija Saraci. Ciottolame di pietra fluviale luccicante tra il tenue bagliore dell’illuminazione cittadina e il freddo calore lunare. Una luna splendente sopra le nostre teste. Case e palazzi sorvegliano quest’angolo di terra dall’alto di severe periferie invase dalla notte. Gole e verdi montagne abbracciano amorevolmente questa città. Che bella Sarajevo.
Sorpresa. Sgomento. Beatitudine.
Passo dopo passo un crescente piacere del girovagare per il gusto di farlo, del camminare a caso, dello scoprire ogni istante un nuovo, nascosto e secondario pezzo di strada in questa strana e sempre più affascinante città, pervade menti e corpi miei e del Maestro. Tale idillo è interrotto soltanto dall’impellente bisogno di cibo. Trovare un buon angolo di paradiso dove sfamare le nostre anime sature d’emozioni sarà, ora, la prima prerogativa.
Qui le cose si complicano all’improvviso. Nella sapsmodica ricerca d’un buon ristorante tipico bosniaco-sarajevese, scopriamo essere atorniati da cultura “mushlim”, ossia arabo-mussulmana, aggettivata con banale simpatia in virtù di antichi ricordi erranti in quel di Polonia ed Ucraina. Ogni qual volta un’entrata, uno sgabello, un tavolino in legno o altro tentano ammiccamenti curiosi ai nostri occhi, ecco particolari mushlim rivelarsi nella loro volgare forma. Carne da kebab, lineamenti e fisionomia arabeggianti, califfati perennemente decaduti in bella mostra, incensi volgarmente mimetizzati da banali lampade di aladino. Dov’è Sarajevo…??? La balcanica Sarajevo…??… ok le candide torri di moschee fieremente erette in ogni angolo. Ok le ferite ancora aperte d’una guerra mai del tutto dimenticata. Ma siamo o no pur sempre nel cuore della ex Jugoslavia…??.
Inganniamo il tempo e facciamo il punto della situazione di fronte a una tradizionale bachlavà, tipica torta di sfoglia, miele e frutta secca diffusissima in tutti i paesi arabi. La perfetta fattura del dolce, l’assoluta slavicità della gentile proprietaria della pasticceria non lasciano più alcun dubbio. Sarajevo è un’enclave di cultura arabeggiante nel cuore dei Balcani. Di ortodossi e relativa cultura nemmeno l’ombra.
Preso atto di questo ricominciamo ad esplorare tutte le vie e viuzze del centro alla ricerca di un ingresso, un menù, uno scorcio invitante. Una quadrettata tovalgia bianca rossa ci richiama l’attenzione dandoci l’illusione di essere di fronte una tipica trattoria balcanico-occidentale. Entrati bastano pochi secondi per cadere nella disillusione più totale. Odori e arredamento quanto di più arabo da me visto, cucina accomodata in uno sgabuzziono, disordine, polvere. Accolti calorosamente dalla proprietaria nonché cuoca e cameriera, attanagliati da una fame ormai importante, veniamo fatti accomodare in un tavolino al piano superiore. Il posto sarebbe in definitiva molto bello ed accogliente, non fosse per gli spifferi gelidi e una trascuratezza intrisa di vecchio che ricopre ogni cosa. Dalle pareti, all’arredo passando per la signora stessa.
Studiando silenziosamente il menù il Maestro mi guarda con occhiate titubanti finendo col chiedermi un consiglio gastronomico circa l’ordinazione che mi appresto a fare. Delle bistecche in varie salse che la casa propone tre o quattro m’incurisiscono non poco, l’unica per me inordinabile è la costata alle arachidi. Il mio buon amico, preso da raptus incosciente, ordinerà proprio quella (dimenticando cosa sono le pinauts…).
Appena fatto l’ordine sghignazzo in faccia al mio esperto quanto assonnato compagno di viaggio. Colto sul fatto non può che ammettere l’errore, dopo avermi ovviamente proposto uno scambio alla pari. Mentre lo rassicuro ironicamente circa la indubbia bontà della sua scelta, ecco la gentile tuttofare del ristorante servirci la bozza di rosso erzegovino ordinato per ammorbidire gli intensi sapori balcanico mussulmani. Il vino non è gran chè, comunque si fa bere.
Terminata la cena, lasciatici alle spalle l’interlocutorio ristorante, eccoci di nuovo all’aria aperta. Il fresco della sera riscalda non poco le nostre menti. Sogni, emozioni ed aspettative. Dopo breve perlustrazione cittadina ci concentriamo sul proseguo della serata. Prima di iniziare a calarci nella movida sarajevese concordiamo breve passaggio in hotel in modo da applicare la prima regola di due navigati night life tester… chiedere ai gentili giovani impiegati in alberghi e ristoranti di nostro gradimento “dritte” fulminee, coincise e concrete. La domanda è una sola. Dove poter bere qualche bicchiere (qualche…???) e far quattro salti circondati da autoctoni e autoctone locali (meglio le seconde…) con predilizione per locali, club, pub “tourist free”.
Come talvolta accade tale strategia si rivelerà in parte fallimentare. Il virgulto bosniaco del tardo pomeriggio ha lasciato il posto ad altrettanto giovane della medesima nazionalità. Soltanto il capello, ben più corto, lo rende distinguibile dal gemello diverso. Con valida piantina cittadina alla mano, di cui l’hotel fortunamente dispone in abbondanza, studiamo come navigati luogotenenti in tempo di guerra le direttive che il nostro Ammiraglio per un giorno scandisce a voce e retifica a penna sulla mappa. Giunti nei nostri appartamenti privati per gli ultimi accorgimenti tattici vengo improvvisamente lasciato solo. Il Maestro, dopo la caduta notturno-mattutina novisadese, una giornata spesa alla guida tra pianure e montagne, crolla esausto con una caviglia sempre più malconcia ad accompagnarlo. Come suo secondo mi vedo gravato del comando della spedizione “Sarajevo by night”. Come qualcuno disse un giorno, è uno sporco lavoro ma qualcuno lo deve pur fare. Esco dall’hotel scuro in volto in maniera da dare un tono solenne a ciò che mi appresto a fare. Ossia una gran serata in quel di Bosnia. Studiati i vari appunti carpiti dalle precise ma non convincenti dritte del nostro amico receptionist, mi dirigo verso il cuore della città vecchia per cullarmi in un pre serata alcolico in piena quanto malinconica solitudine. Viaggio.
Stando le preziose perle di saggezza ricevute, la città sarebbe dovuta essere deserta in quanto il concerto di un non specificato gruppo bosniaco molto in auge avrebbe svuotato ogni altro locale, club, pub. Venerdì sera.
Giunto svogliatamente al primo locale consigliatomi, il City pub nella centrale via di Zelenih Beretki, scopro con gioviale sorpresa trovarmi di fronte un tutto esaurito. Zero posti sia in piedi che seduti. Nonostante un po’ di amarezza per la mancata consumazione alcolica, sono ritemprato dal fatto di aver visto così tanti giovani festanti in una serata annuciata quale “deserta”. Poco distante eccomi all’ingresso del Club Jez. Pieno. Sta cosa comincia a innervosormi, ma nemmeno troppo. Cambio lato della strada ed ecco un bellissimo pub su due piani con tavoli in vetrina. Spettacolo. Entro, faccio il giro del locale e… zero posti anche qui. Alquanto alterato mando platealmente a quel paese il cretino dell’hotel e le sue indicazioni porta sfiga. Deciso che Sarajevo va vissuta almeno per una notte inizio a fare di testa mia. Come un fidato segugio scandaglio ogni brezza balcanica che mi solletica l’olfatto. Ascolto ogni fruscio ritmato da tacchettio sospetto che rimbomba nelle strette vie sarajevesi. Non ce né per nessuno.
Una traccia mi guida a una rapida svolta a destra. Calca. Vociare confuso. Luci e profumi. Il Millennium cafè si apre in tutta la sua variopinta natura al mio fianco. Strizza l’occhio benevolo il luccicante locale. Sguardi rubati alle bellissime avventrici che passandomi innanzi penetrano al suo interno. Tocca a me. No.
Senza “reservation” è impossibile entrare. Non ci credo. Tale divieto, che in altri contesti avrebbe acceso nel mio animo le più malcelate ire, diviene sorriso ammiccante in salsa ebete di fronte all’incredibile bosniaca dal lungo capello moro e dai profondi occhi verdi che con ferma solerzia e timida tristezza mi comunica l’impossibilità all’accoglienza nel cuore festante del locale celato oltre l’ingresso. Umanamente sconfitto, orgogliosamente battagliero, applico la mai troppo decantata tattica della “pietas”. Tradizione, cultura, disperazione… faccio pietà.
Congiungendo le mani al petto, spalancando il più ampio degli sguardi miserevoli da me posseduti, solletico l’udito della bella portinaia con parole dolci e suoni soavi. “Pleaseeeee….”
Il fatto di essere in solitaria aiuta non poco la costruzione di un patetico siparietto alquanto vaneggiante, la profondità del mio sguardo leggermente sbronzo fa il resto. Forse.
Momento d’impasse, la sarajevese più bella della serata sembra sciogliersi. Inizia a sorridermi fra smorfie convulse e velato imbarazzo. Si sente in colpa. La mia solitudine è il suo crucio.
Con la dolcezza che da sempre la contraddistingue mi intima una breve attesa appena dentro il locale, con la scusa del freddo ho già entrambi i piedi piantati e pronti a metter radici nel sorprendente Millenium. Il vestitino nero che le cinge dolcemente i fianchi sembra esserLe stato cucito addosso. Bellissima. I tacchi da cinque che la sostengono nell’incalzante andare sono la più bella colonna sonora che un viaggio possa acclamare. Osservo stupito e sempre più speranzoso la dolce ragazza parlare a due avventrici altrettanto graziose che da pochi istanti hanno preso possesso del loro tavolo riservato. Poche battute ed ecco che ste tre grazie slave rivolgono all’unisono i loro profondi sguardi al sottoscritto. Gaudio. Gioia. Splendore. Mai sinfonia di ottoni balcanici, che prepotentemente rubano la scena alla poesia, fu più appropriata. La bella mora dell’ingresso, spalancato un sorriso immane, ringrazia amichevolmente le due bellezze attavolate e punta decisa verso il mio tumultuoso cuore.
“You can enter and sit at that table…. the girls are agree…”
Senza parole…..
Ringrazio, con inchino d’ordinanza, la gentilissima ragazza che con tanto senso del dovere ha ridonato significato alla mia serata. Imbarazzo.
Le due bellezze bosniache ora di fronte a me sono davvero notevoli. La prima, più intraprendente, porta lisci capelli castano rossicci tagliati a caschetto o poco più. Vita stretta e giacca grigio chiaro fanno tutt’uno con un viso da enciclopedia, un sorriso gagliardo e due bellissimi occhi castani. L’altra, imbarazzata, timida e vistosamente curiosa, non ha null’altro che un indimenticabile top nero, jeans blu scuro, labbra leggermente tinte di rosa, carnagione tendente all’olivastro sud meditterraneo e un fisico da centro est Europa che definire ideale è poco. Per non correre rischi indossa due occhioni verdi di una profondità filosofica.
Il romantico quadretto è “ahimè” completato da una sottospecie di orso bosniaco bonaccione e ingiacchettato all’inverosimile che con pallida espressione monotematica scruta il mio forestiero gesticolare. A questo punto, tra le altre questioni, entra in scena proprio la gestione del simpatico omone che potrebbe essere legato in qualsivoglia maniera alle mie muse sarajevesi. Rompo gli indugi ordinando una bella media di circostanza. Le ragazze rispondono con coktail occidentali e una coca cola per il totem imbalsamato. Andiamo bene.
La rossa a caschetto penetra lo schermo, accende le danze ballando di bacino a bordo tavolo. Il mio sgabello barcolla ma non molla. La mora decide d’entrare in scena a suon di sguardi. L’orso latita.
Le presentazioni in lingua anglosassone avvengono a mezzo castano-rossiccia che s’incarica di tradurre per tutti gli amici presenti. Attacco così amichevole bottone con Viola, la più estroversa del gruppo. Vivace ed emancipata, pur nella sua bellezza e gentilezza, ispira una certa antipatia che a pelle non riesco a dissimulare. Pochi istanti. Da dove vengo, perchè sono qui. Perchè solo. Altre divagazioni varie ed inutilmente corrette. Jasmina apre bocca. La bella mora seduta di fronte a me, tra una sorsata di cocktail e l’altra, gioca di sguardi e sotterra la superficiale occidentalizzazione dell’amica a suon di domande interessanti. Verona, l’ Italia, l’ Europa. Religione, cultura, politica. Bella e non solo. Interessante.
Inizia un duetto animato, incalzante, a volte irriverente, soprattutto Vero. Tutti e tre sono studenti di economia ventitreenni. La famiglia di Jasmina è mussulmana da generazioni, così come quelle dei due amici. Ammiarano l’ Europa, sono affascinate dall’Italia ma non c’invidiano più di tanto.
Parliamo di storia e cultura balcanica, Tito, la guerra degli anni ’90. Si, no, forse.
Più che del conflitto, che inevitabilmente intimidisce ogni animo, cerca di spiegarmi cos’era la Bosnia, cos’era Sarajevo, prima del sangue. Serbi, Croati e Bosniaci uniti dall’amore per l’arte e la bellezza vivevano uniti e pacifici. Poi l’ideologia, la propaganda, l’interesse straniero prima di tutto. La guerra. Le religioni non litigano nei balcani. Si rispettano e convivono da secoli. Altre volontà distorgono la realtà e creano il caos.
Jasmina è mussulmana, come lei i suoi amici e la maggior parte dei giovani sarajevesi. Bevono alcolici, parlano d’occiedente e si dichiarano vergini. Una birra si può perdonare in nome della globalizzazione e delle tradizoni balcaniche (sempre più profonde della conversione secolare all’islam), il concedersi ad un uomo prima del fatidico si…. no quello no.
Il divorzio fa parte della vita…. l’aborto no….
Trattasi del venerdì sera più impegnato della mia govane esistenza. Soltanto il folklore musicale balcanico ci distoglie, di tanto in tanto, dalla più intensa delle discussioni. Ottoni, danze, profumi, giro di birre.
Viola, ormai tagliata fuori dalla conversazione, esce di scena stanca e delusa. L’orso non fa una piega e ordinando l’ennesima cola assorbe lieto ciò che lo circonda.
Jasmina è vivace. Lei mushlim, io cattolico. Un improbabile quanto costruito scontro di civiltà si sta consumando al tavolo di un club, nel centro di Sarajevo. Il lieto fine sarebbe troppo scontato.
La Tv Bosniaca, di lavoro nel locale, decide di dedicarmi un primo piano con birra alzata per il programma della notte. Mezzanotte s’avvicina. La mia Cenerentola teme lo scoccare dei dodici rintocchi e assieme all’incomunicabile amico mi chiede di scortarla alla fermata del bus notturno. Sarajevo di notte è mille volte meglio della confusa capitale serale. La città vecchia lascia il posto al centro nuovo sotto i nostri passi. I marciapiedi dilaniati dalle “rose” di guerra ci indicano la via all’estremo ovest di Mustafe Baseskije. Mentre i silenzi assensi delle nostre anime squarciano il gelo notturno, giungiamo alla fermata di Jasmina. Pochi attimi ed ecco che un anonimo autobus s’incarica di separare le nostre vite. A presto.
Restato solo con la pallida mummia slava, alzate le spalle in segno di sconfitta (ma con l’onore delle armi…), attacco amichevole e disinteressato bottone col simpatico amico. Ovviamente, dopo pochissimi e scontati convonevoli di circostanza, arrivo al dunque. Festa. Night life. Party.
Il venerdì sera scoprirò essere particolare da queste parti alla streguea della domenica in terra cristiana. Poco importa. L’entusiasmo con cui la spazzolina bionda del mio nuovo compare descrive “Sloga club cinema”, tra l’altro uno dei locali più nominati dagli amici receptionist, mi mette di buon umore. Sembra essere promettente e molto vicino. Dopo poche svolte a sinistra eccoci in Mehmeda Sphae. Viuzza buia e dimenticata della semi periferia cittadina, appena oltre il centro vechio. Un passo sopra le rotaie del tram.
Innanzi l’ingresso, deciso ad entrare, vengo apostrofato dal bosniaco buono. Capisco che la sua serata finisce qui. Calorosa stretta di mano e via verso il cuore dello Sloga. Entrata tristissima. Proseguo, se possibile, peggiore. Volgarità e squallore. Disfattismo. Concerto hard rock salite le scale della presunta pista da ballo, che uccide ogni speranza. Classica finzione da telefono squillante nella folla mi spinge ad evaquare l’edificio. Soltanto giunto all’esterno una bella ragazza, cinta di sarajevese splendore, mi intorta in slavo per quasi cinque minuti. L’idillo è interroto da un mio trasognato… “i don’t understand nothing….”… ahhhh.
Non sono nemmeno le una quando m’incammino nell’ormai gelida notte bosniaca. Perso, fiducioso, curioso.
Il freddo è pungente e reso ancor più ostile da sottili raffiche di vento che tagliano l’aria partendo da nord est. Proseguo la mia solitaria esplorazione della città, passo dopo passo giungo all’incrocio del casinò cittadino. Là dove Ferhadija e Mustafe street si incrociano, di fronte un enorme blocco cementifero, mi perdo tra sogno e realtà. Balcani.
Uno sperduto pub irish style mi offre conforto per pochi istanti, rientro in strada e punto nuovamente verso il centro. Scrutando ogni pertugio, assaporando ogni folata di vento, sfiorando ogni brezza di grazia.
Svoltando ironicamente a sinistra mi trovo in una stretta viuzza, appena prima del centro vecchio. Sulla destra una soffusa quanto nascosta gradinata, alquanto scalcinata, emette sonorità festanti. Entro. Forse il Sa club, forse il Clou club. Difficile dirlo. Lasciata la giacca in una sorta di disordinato semniterrato ecco che una porta di fronte a me spalanca l’ingresso alla mia voglia di festa. Sonorità hard, buttafuori pacifici, età media bassa. Situazione stranamente imbarazzante. Ordinate un paio di slivovitze al banco, sorseggio dubbioso il caloroso liquido bollente. Non macherebbe nulla, ma in fondo manca tutto. Qualità oggettivaqmente bassa, come l’età. Volgarità e spudoratezze già viste circondano la piccola pista da ballo. Atmosfera zero. Caos e disordine. No grazie.
Dopo quasi 20 minuti persi a spulciare il guardaroba alla disperata ricerca del mio giaccone da viaggio invernale sono nuovamente on the road. Sfinito. Affamato. Una rampa di scale mai battuta prima mi regala un bellissimo locale deserto e una gelida birra tra le mani.
Il docile buttafuori, per quanto accomodante ed ospitale, non rappresenta certo la compagnia serale da me ricercata. Trangugio avidamente la bionda spumeggiante, risalgo la ripida gradinata e m’incammino nuovamente verso il nulla.
Le due sono passate da poco e la tremolante via sarajevese mi culla lieta; notte, silenzio e deserto dentro. Un trancio di pizza rubato ad un affollato chiosco notturno, nel ritemprare le mie forze, mi spinge oltre. La notte è ancora giovane. Girovagando distrattamente per le vie della città vecchia mi ritrovo alla ricerca del Fazenda club, il mio andare è sempre più barcollante ma la bellezza e lo splendore cittadino mi animano passo dopo passo di luce e forza nuove.
Il club Fazenda è illuminato a giorno da luccicanti lampeggianti bianco blu. Milizia ovunque e leggera snsazione di colpevolezza. Procedo incurante dell’atmosfera circostante il locale. Varcata la soglia ecco un confuso vociare dialettale invadere il mio spazio vitale. Omoni, tanti… Bellezze, poche.
Caos calmo ma nemmeno troppo. Spintoni e fastidio. Esco.
Non rientro in hotel prima di un katartiko tour cittadino periferico. Notte e silenzi. Paura e meraviglia. Fedele al buon Davide Van De Sfroos sono sempre più convinto che “.. l’inchiostro de ogni viagg l’è nel to’ saangh”…(da.. l’ Omm de la tempesta… D.V.D.S)
Vagando tra centro e periferia collinare per un’altra oretta, mi ritrovo solo e infreddolito quando le tre son passate da pochi minuti. Gamba in spalla risalgo, anzi ridiscendo via Kovaci che accompagna sorridendo ironica la mia dipartita dalla night life cittadina. La visione dello splendido hotel, illuminato al mio fianco, ridesta in me antichi desideri di pace e silenzi dimenticati da anni.
Reception nemmeno sfiorata, ascensore gestito meccanicamente nella più etilica delle tradizioni. Corridoio, camera mansardata, testata nella trave lignea e plumbeo collasso in letto matrimoniale ocupato a metà dalla sagoma rannicchiata del Maestro.
Il mio ritemprato compagno di viaggio si alza di buon ora. Al mio risveglio, poco prima delle nove, è appena rientrato da un’abbondante colazione e da due passi mattutini nel deserto centro storico, incorniciato da quella particolare foschia che avvolge e abbraccia ogni cosa in città.
Il sole alzandosi nel cielo filtra nella stanza e riattiva quel che resta dei miei neuroni. Salto in piedi e scendo ritmatamente le scale per la colazione. Mentre consumo un pasto frugale ma ottimo scambio due parole col giovane receptionist del giorno prima, ringraziandolo per le (…ben poco utili in realtà) dritte sulla night life cittadina.
Usciamo a fare due passi.
L’aria fresca del mattino è qui come in ogni altra città da me visitata, la miglior cura per i postumi d’una sbronza. Sarajevo è bellissima. Adornata di storia, fascino e mistero saprebbe riscaldare anche gli animi più dismessi. Liberi da pensieri e incombenze scrutiamo le piccole botteghe intente ad aprire. Una libreria con due giganti mappe storico-geopolitiche incentrate sugli anni novanta attira la nostra attenzione. Entriamo.
Accoglienza notevole, scambio di battute con uno dei due titolari in buon inglese. Parlando dell’ospitalità balcanica ci sorride e ammette che, se non fosse che ogni 10 o 15 anni gli slavi si divertono in confliti sanguinari, sarebbero senza dubbio uno dei popoli migliori d’ Europa. Quando si dice l’auto ironia.
Due poster fotografici in bianco e nero rappresentano il ricordo sarajevese che decidiamo di portare con noi in Italia.
Rientrati in hotel per saldare il nostro debito scopriamo essere graziati da uno sconto speciale per “l’inconveniente del letto matrimoniale…”. Mitico. I dieci euro risparmiati saranno investiti in ottimi goti in terra croata. Senza dubbio.
L’umore è alto, le valigie scivolano liete sui marciapiedi cittadini. La nostra cara auto ci aspetta in trepidante attesa. La strada chiama.
Non resistiamo ad una divagazione collinare su una delle due sponde della gola che racchiude Sarajevo. Persi tra villette, moschee e cimiteri islamici candidamente risplendenti di luce marmorea, ci troviamo in un mondo sognante che guarda la bella città slava dall’alto.
Dipartita.
Ridiscesa la ripida collina eccoci nuovamente in Mustafa Baseskije. Ormai a nostro agio tra le strette vie cittadine, seguendo le precise indicazioni ricevute in albergo, eccoci nel vialone che conduce all’estrema periferia sud ovest. Blocchi, palazzoni, ventagli di mitragliate sui muri degli stessi ci ricordano le voci di un assedio non troppo lontano. Il mitico Holiday Inn giallo sfila alla nostra destra.
La strada ridiscende sempre più, dolce ma costante verso le vallate, le piane, il mare.
Consapevoli di dover affrontare il trasferimento più breve e relativamente piacevole riusciamo a godere ogni minimo particolare che la strada sotto di noi ed il paesaggio attorno noi donano lieti. Mostar non dista molto, là potremo rifoccilarci. Medgjugorie è poco più in là. Spalato comodamente collegata da ampi tratti autostradali.
La cittadina di Jablanica lungo la strada inviterebbe ad una sosta, ma il desiderio di raggiungere la “famosa città del ponte abbattuto” (e la fame…) ci spingono a proseguire.
Undici e tre quarti di sabato 19 novembre. Mostar.
La città appare subito costellata di moschee, la tradizionale suddivisione ortodosso-islamica non appare fin qui per nulla evidente. Lasciamo l’auto in un parcheggio poco distante dal centro cittadino ed ecco tre o quattro slavi venirci incontro in maniera abbastanza intimidatoria. Scopriamo trattarsi di parcheggiatori abusivi e guide pseudo ufficiali della città. La cosa ci da un certo fastidio. L’italiano parlato dai più anche. Due euro per un parcheggio sicuro. Altri venti se volessimo avere il privilegio di una guida privata tutta per noi. Discorsi sdolcinati e appiccicosi sull’ Italia e gli italiani ci fan girare le palle ancor di più. Scansati i fastidiosamente turistici amici, c’incamminiamo lesti verso il centro vecchio. Il ciottolame si fa sempre più fitto. Le case da decrepite sempre più curate. BeB, hotel e pensioni. Negozi di souvenirs e ristoranti completano l’opera. Poca gente e venditori col coltello tra i denti rendono l’atmosfera misticamente falsata e costruita. Artificiosa.
Il centro è senza dubbio molto bello, piacevole e caratteristico. L’insistenza e la saturazione di esercizi commerciali di qual si voglia natura un pugno tra i denti. Passato trionfalmente ma senza particolari emozioni lo storico ponte, brand vincente di tragica storia di guerra, optiamo per una ritirata là dove ci compete. Ostaria.
Indecisi su quale locale testare per una buona grigliata mista, veniamo intortati da un’apparentemente disinteressata indigena che ci chiede le impressioni sulla città e finisce per recapitarci belli e serviti ad un ristorante amico. Location a dire il vero ottima. Terrazza all’aperto sul fiume che il tiepido sole novembrino rende ancora godibile. Si vedrà.
La comanda di ciccia e birra è obbligata dall’aprossimativa gestione del menù (ovviamente in italiano…) mancante della quasi totalità delle pietanze riportate.
La pergola di verde rampicante che ci regala atmosfera e relax nell’attesa, assieme ad un ottimo pane casereccio, sono i preludi per una seconda bionda in bottiglia tipicamente bosniaca e due vassoi di grigliata di proporzioni immani.
Dividiamo l’irrisoria spesa tra Km (Marchi convertibili) ed euro, ringraziamo per ospitalità e qualità del cibo e ci incamminiamo verso il parcheggio sperando di evitare la combriccola di guide, parcheggiatori ed amici vari che poche ore prima aveva prepotentemente cercato di entrare nel racconto.
Aggirando lo spiazzo dove la nostra auto riposa constatiamo la totale assenza di guardiani o altro. Meglio così.
Uscendo dal centro sbagliamo un paio d’incroci prima di esser indirizzati sulla retta via per Medjugorje. Il piccolo paesino mariano ci attende. I paesaggi tra Mostar e la nostra prossima meta sono quanto di più rilassante e indicato ci possa essere per guidare e viaggiare in senerità. Un caldo sole primo pomeridiano illumina l’asfalto sotto di noi e fa brillare le alte colline pietrose ai bordi d’una morbida vallata. Deviando sulla destra iniziamo l’ascesa di una di queste alture. Paesaggio fantastico, risalita ripida per cinque o sei chilometri. Passaggio di Krusevo, piccolo villaggio collinare di notevole fascino, ridiscesa verso la piana mariana.
L’arrivo a Medjugorje, attorno le 15, è all’insegna della calma più totale. Avvertiti da amici e parenti circa il gran numero di persone che sempre popolano la piazza, la chiesa e il monte delle apparizioni, eravamo preparati ad una classica scena da mercato mistico-fideistico. La realtà ci lascia abbastanza basiti tanto che scendiamo dall’auto prima di realizzare che il piccolo santuario semi deserto di fronte a noi è proprio Il Santuario.
Botteghe aperte molto poche, gli hotel e i ristoranti, pur dando segni di vita, sono ben lontani dal tutto esaurito.
Visto così l’intero centro assume un’aria molto più credibile ed invita, avvolto nel suo solitario silenzio, alla preghiera o quanto meno alla riflessione. Mentre il Maestro perlustra i dintorni, compreso il piccolo anfiteatro per le suppliche al crocifisso, io mi concedo un’oretta di preghiera all’interno della chiesa. Sobria, quasi deserta, silenziosa ed illuminata dall’abbagliante luce solare che filtra dalle ampie vetrate. I pochi pellegrini che entrano ed escono, quasi tutti locali, vanno dalle nonne alle giovani fanciulle, passando per coppie più o meno mature.
Terminata la recita del rosario esco e do il cambio al mio compagno di viaggio che visita l’interno del Santuario per alcuni minuti.
Prima di incamminarci alla volta di Spalato, nostra prossima meta, decidiamo di concederci un’ultima birra bosniaca ed una fetta di bachlavà, anche qui di ottima fattura.
Appena dopo le 16 siamo di nuovo on the road. Stando alle indicazioni degli indigeni la città dalmata non dovrebbe distare che un paio d’ore, dopo i primi 40 km infatti la successiva ottantina dovrebbe essere su rapida autostrada croata.
Mentre lasciamo le campagne bosniache correndo incontro il sole al tramonto strane emozioni ci accompagnano. Soddisfazione, stanchezza, curiosità. La frontiera interrompe i nostri vaneggiamenti da viaggio, una sbarra che si alza, un altra che ci ferma. Siamo in Croazia.
Pochi minuti di arrampicata sulla parete est della dorsale balcanico dalmata, alcuni km percorsi sulla sommità delle piccole montagne sorridenti tra la Bosnia e l’ Adriatico. Verticale caduta verso ovest ed ecco un’imponente viadotto apparire all’orizzonte. Il sole ha lasciato il posto alle prime ombre della sera. Soltanto coppie di fari, molto distanti le una dalle altre, ci fanno intuire il percorso della moderna autostrada. Eccoci lanciati a oltre 130 km\h in direzione nord. Avvistiamo l’uscita per Split quando è già notte. Pedaggio, immissione in tangenziale trafficata ma scorrevole, tunnel incuneato al termine di una gola, luci, caos, città, un porto in lontananza, il mare brilla illuminato dalla luna. Spalato.

Lunghi vialoni a due corsie ci cullano tra sali e scendi guardati a vista dai palazzoni periferici e dai gignteschi murales dell’ Hajduk Split, di cui molti muri sono addobbati. Il girovagare svagato alla ricerca del centro storico cittadino, all’interno del quale abbiamo prenotato una sorta di stanza in affittacamere affacciato su piazza Narodni, non porta a risultati concreti. Vuoi per le segnaletiche approssimative, vuoi per la stanchezza. Giunti due volte alle porte delle mura antiche veniamo rimbalzati fuori da divieti, sensi unici e corsie pedonali. Un lungo vialone che risale la collina alle spalle del mare, contornato da due chilometriche fila di lumini da cimitero, c’inquieta non poco ed allo stesso tempo diventa nostro unico punto di riferimento. Ridiscesi alle porte del centro pedonale decidiamo di parcheggiare appena fuori e procedere a piedi, valigie alla mano, in direzione della nostra sistemazione. Alla sistemazione dell’auto per la notte penseremo poi.
Penetriamo nel cuore pedonale da Marmotova street. Via commerciale ben tenuta e già strizzante l’occhio allo stile romanico su cui si fonda l’intera architettura cittadina. Dopo poche rapide svolte nelle viuzze del centro, passato il mercato del pesce, eccoci sbucare da uno strettissimo vicolo nella bellissima piazza Narodni, dove il tempo sembra essersi fermato. Un anziano signore tenta d’intortarci per affittarci una sistemazione, una volta mostrato l’indirizzo del nostro alloggio, prova inutilmente a persuaderci che sia proprio il suo. Lasciato perdere il delirante croato troviamo finalmente il nostro indirizzo. Una lunga e stretta scalinata ci conduce alla porta della presunta reception. Porta chiusa, campanello muto. Ottimo. Mentre io attendo che qualcuno risponda alle scampanellate il maestro ridiscende le scale per chiedere qualche info nel bar adiacente. Dopo mezz’ora buona e senza nulla in mano ecco apparire il nostro salvatore. Tale figura indossa gli abiti di un grosso yankee con coda di cavallo notevole almeno quanto la sua panza. Jeremy, così si chiama, è ospite fisso della stravagante struttura ricettiva spalatese da diversi mesi. Dovrebbe essere uno chef, o giù di lì. Avendo il numero privato della titolare si offre di avvisarla della nostra presenza. Saluta e se ne và non prima di aver spiegato al Maestro come raggiungere un parcheggio auto sicuro per la notte. Rimasto così in solitaria sul pianerottolo del B&B luxury rooms e varie, attendo paziente l’arrivo di questa solerte albergatrice.
Dopo alcuni minuti ecco un vociare confuso ed un forte odore d’alcool pervadere l’ambiente e le strette rampe di scale. Una barcollante signora sui 40 avanza sbattendo a destra e sinistra ad ogni gradino. Alzato lo sguardo inizia a scusarsi a gran voce, darmi la mano e lamentarsi dell’orario d’arrivo. Tento di mantenere un profilo basso d’ordinanza e rassicuro la sbronza signora che l’attesa non mi ha creato poi sti grossi fastidi. Accolto nella reception, ossia in un mini appartamento con salotto, scrivania, cucinino e vetrina di super alcolici, prima ancora di poter proferire verbo mi trovo un calice di bianco in mano. La pazza è ormai su di giri. Mi rivela di aver scoperto da circa 12 ore di essere nata a Trieste e che per questo possiamo considerarci connazionali. Lei ama l ‘Italia, il vino, la gente e i ragazzi. Un livido pallore seguito da brivido febbrile mi attraversa l’anima. L’ubriacona è ormai irrefrenabile. Mi comunica che si prenderà cura lei di me e del mio amico. Passando solo una notte in città questa dovrà essere indimenticabile, crazy, drunk e quant’altro. Deciso a cavalcare l’onda del suo entusiasmo, accettato un mezzo calice di nalefka alle ciliegie, chiedo dove mangiare del buon pesce, bere qualche aperitivo ed infine ballare fino a notte fonda. L’avessi mai fatto. Trangugiata la sua razione di dolciastro liquore, svestita la giacchetta con inguardabile calore, l’isterica donnona apre una pianta cittadina e penna alla mano inizia a ricamarci su un romanzo. Mi raccomanda il miglior ristorante di pesce qualità prezzo della città, poi le viuzze del centro dove fare pre serata ed infine… infine… lui. Il miglior club di Spalato, sconosciuto ai turisti e popolato soltanto da gente del luogo. Il Kuka club (già il nome sembrerebbe prometter bene…). L’unico incoveniente è che tale locale, oltre a non essere segnalato in nessuna guida, non avere insegne, entrate ufficiali o altro, è aperto a chi bussi al portone d’entrata, sapientemente nascosto appena fuori dal centro pedonale. Delirio.
Il Maestro giunge intimorito a sua volta dal vociare convulso, udibile fin dalla piazza. Manco il tempo di chiedere lumi ed ecco un bicchiere di nalefka servito anche a lui. La callarona croata si rifà gli occhi di fronte al mio amico carissimo cui cedo lieto la “patata” bollente. Fortunatamente, un Jeremy in splendida forma ci toglie dagli impicci lanciando uno sguardo languido alla padrona di casa che ricambia vogliosa le attenzioni del master chef americano. A questo punto ci viene mostrata la camera, una suite o giù di lì. Molto bella in realtà. Letto matrimoniale, divano e poltrone in pelle, schermo piatto, doccia faraonica. Non male. La moracciona spalatese ci saluta garantendoci la comodità del lettone a centro stanza che, racconta, è stato diviso diverse notti da lei e tre sue amiche sbronze. Evviva.
Finalmente soli. Risate isteriche prolungate, finestra spalancata sulla bellissima tgr Narodni. Emozione. Ci prepariamo alla serata conversando lieti di storia balcanica, viaggio, pazzie croate, night life e gotti italiani. Aperto per l’occasione un Barolo 2003 sorseggiamo il granato nettare piemontese al grido disorientato di “Voria cantar Verona… o lisetta lisetta bela” poesia dialettale sapientemente reinterpretata dal punto di riferimento della cultura border line veronese, il così detto “berlinese”, lui. Ugo Brusaporco.
Doccia e vestizione avvengono in un crescendo di etilico splendore. Pronti a testare le tre perle rivelateci dalla nostra “cassandra dalmata” c’incamminiamo in una stretta viuzza in direzione palazzo di Diocleziano. Trovato con estrema facilità il ristorante consigliatoci, salita la prima rampa di scale, ecco aprirsi un bellissimo ambiente spiccatamente marinaresco. Muri bianchi, scavati qua e là. Quadri e dipinti rimembranti il mare, il pesce ed il vino riscaldano l’atmosfera quel tanto che basta. L’esperto cameriere parla ovviamente un buon italiano. Ordiniamo due primi e due secondi di pesce, oltre ovviamente ad un ottima bozza di Sauvignon Zagabrese che si rivelerà eccezionale.
Da segnalare soltanto la qualità e la finezza del pesce cucinato ed una tavolata in alta percentuale di donzelle notevoli.
C’è del buono a Spalato.
Lasciato il ristorante siamo pronti a testare la seconda rivelazione della pazza. I localini, pub, bar ecc, compresi tra Dosud e Mariliceva street. Due o tre ambienti con poltrone, divanetti e tavoli posti esternamente ad affollare le strette vie e gradinate in pietra del centro. Niente di che ma molto pittoreschi. La rakja costa sui due euro a cicchetto, per cui. Apriamo le danze. Pochi istanti e decidiamo di separarci per perlustrare altre eventuali attrazioni.
Di nuovo insieme verso la mezzanotte decidiamo di partire all’avventura verso il Kuka club. Il locale più esclusivo di Spalato. Popolato da calciatori, modelle, e quant’altro. Almeno secondo le deliranti rivelazioni della stordita. Ci perdiamo più volte nell’immediata periferia cittadina. I passanti interpellati ci danno ogni volta indicazioni diverse. Stiamo quasi per desistere quando ecco aprirsi una porta di fronte a noi. Nascosta tra due alberi e una siepe, nel retro di un vecchio palazzo malandato, si apre di tanto in tanto per accogliere al suo interno piccoli gruppetti di persone. Chiediamo info ad un paio di ragazzotti in piedi contro il muro. “Is that Kuka…???”… “yes yes”.
Giubilo ed emozione. Neanche fosse una frontiera mai sfondata prima, ci apprestiamo a ridiscendere nel cuore del mitico Kuka club di Spalato.
L’interno è volgare. Volgarità pura e trasudante da ogni angolo. Buio, soffuso e male illuminato. Il vedo non vedo la fa da padrone. Guardaroba, breve corridoio sulla destra ed ecco una minuscola pista da ballo desolatamente deserta tenuta salda da banco a ferro di cavallo che le cinge i fianchi.
Attendiamo delusi che la pista e l’intero locale prendano vita sotto i nostri occhi sorseggiando birra e rakje a ripetizione. Il Maestro sbotta verso l’una mentre io mi concedo una danza in pista assieme a quattro fanciulle mediocri e un paio di supporters dell’ Hajduk. Rimasto solo faccio appena in tempo a vedere il locale riempirsi a livelli qualitativi molto bassi prima di optare per una ritirata strategica ed inevitabile poco dopo le due.
Le emozioni più belle e più vere mi attendono fuori dal locale. Deciso a prolungare di qualche minuto la mia passeggiata notturna mi spingo sino al lungo mare. Splendido come soltanto il buon vecchio Adriatico sa essere, dopo averlo per anni rimirato dalle sponde opposte, mi siedo trasognante ad osservarlo da qui. Sognando al di là della cupa distesa d’acqua la natia Italia.
Poco dopo le tre sono in branda. Il Maestro mi ha preceduto e già ronfa nella sua metà di letto. Domani si torna a casa.
Risveglio gagliardo rattristato soltanto dalla consapevolezza che anche questa breve, intensa e comunque meritevole trasferta sta volgendo mestamente al termine. Il sole brilla alto. Le candide pietre di diocleziana memoria risplendono fiere ed impettite tra piazza e cattedrale. La colazione ci è gentilmente servita in camera da una notevolissima spalatina dal liscio capello moro.
Passeggiata ristoratrice fra le strette vie del centro e l’arioso lungomare cittadino. I versi poetici della sera precedente ci accompagnano rindondanti fra mura e palazzi come le campane altisonanti che suonano a ripetizione. Gli indigeni croati ci scrutano dubbiosi e divisi fra nostalgici dei fasti della Serenissima e nazionalistico oppositori anti italiani. Anche questa è Spalato.
Giunti dopo ampio girovagare alla nostra fedele e scalpitante autovettura siamo pronti a salpare verso nord. Scaldando i motori ci soffermiamo ad ammirare l’inizio di una carneficina. Campo da rugby. Under 16 contro over 30…. Balcani.
La strada scorre lieta sotto di noi. Centro, periferia, strada chiusa…. tangenziale poi autostrada. Inizio risalita della dorsale balcanico dalmata. Viadotti e gallerie impensabili sino a pochi anni fa. Presenti amorevolmente offerti dalla cara Unione Europea in cambio di “..?..”. Chissà. Tutte cose tristemente già vissute o studiate.
Passati gli oltre 1700 m di Vaganski, seguito diritto verso la Slovenia, decidiamo di lasciare la comoda ma tremendamente monotona highway e ridiscendere la gola verso la costa all’altezza di Zuta Lokva. Il primo avamposto peschereccio lasciate le montagne ghiacciate è il paese di Senj.
Piccolissimo villaggio, dedito ormai più al turismo estivo che alla pesca, presenta un lungomare popolato di locali deserti, barricati e sprangati. Quattro vie interne totalmente assopite nella calura marittima domenico pomeridiana ci fanno ripiegare ai bordi del porticciolo dove un ristorante d’altri tempi ci accoglie lieto. Salumi e formaggi tipici, pesce a volontà e un buon litro di ruvido bianco istriano ci fanno sentire a casa.
La costa istriana mi spetta di diritto. Salito in macchina affronto le dolci statali adriatiche in direzione Rijeka con sconsiderevole noncuranza. Fondali azzurri a sinistra, verdi colline a destra, roccie e pendii carsici, bianchi e splendenti. Spettacolo. I palazzoni fiumani ci accolgono quando le frequenze Fm ci raccontano i secondi tempi della serie A nostrana. Tangenziale e poi breve tratto di statale a tagliare la penisola istriana. Trieste e l’ Italia.
Tra nebbia fitta e soste in autogrill giungeremo a Verona attorno le venti.
Notte, buio, stellata. I Balcani del sud ci attendono.

CESK
( utente del forum viaggiatorindipendenti.it )

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