Prima di tornare in strada prendiamo una bottiglietta d’acqua. Siamo stanchi, inutile negarlo. Facciamo defluire un po’ la folla. Il quartiere che ci aveva indicato il ragazzo spagnolo sull’aereo? E chi se lo ricorda?
Decidiamo di girare nei paraggi, in fondo è già quasi l’1 e per le 5 vorremmo essere in aeroporto.
“Tanto la Spagna è famosa per la movida, ci sarà movimento anche qua” pensiamo. Del resto la zona è semicentrale ed è venerdì sera.
Attraversiamo il ponte sul fiume di Madrid (ora non ricordo il nome) e andiamo dove ci sembra che la maggioranza della gente vada, convinti che ci sia qualcosa.
Niente di più sbagliato. Sfatiamo subito un mito: la movida di Madrid. Giriamo 3 viali e notiamo un solo locale, pochissimi bar. Qualche ristorante: già chiusi! Ore 1:20.
Al ritorno in Italia un mio collega, profondo conoscitore di Madrid, mi spiega che si riempie il centro, che c’è movida. Per come la vedo io allora la situazione è uguale a quella di moltissime città. Ogni città ha i suoi quartieri o vie del divertimento. Non c’è alcuna novità, se in una zona semicentrale, dopo un evento con migliaia di persone, ristoranti etc. sono già chiusi allora significa che la tanto pubblicizzata movida madrilena altro non è che una situazione uguale a quasi tutte le città del mondo.
Ma tant’è. Infatti i pochi bar aperti sono strapieni di reduci del concerto, intenti a rifocillarci. Sappiamo che dovremo prendere un taxi, la cosa non ci preoccupa, ne vediamo girare un bel po’.
Ci sediamo su una panchina qualche minuto a far riposare le gambe. Sono stanche per il saltare durante il concerto. Ci avvicinano 3 ragazzi spagnoli che ci chiedono di dove siamo e se eravamo al concerto. La seconda domanda è almeno idiota, visto che indossiamo la maglietta Ac/Dc sotto le felpe, ma visibile. Chiedo loro dove si può trovare un buon locale per tirare almeno le 4. Ci dicono che loro ne conosco uno poco avanti, ma guardo avanti e vedo solo una statale. Ci chiedono di seguirli, “lì c’è rock per continuare e potete bere quello che volete, whisky, birra”. Col cazzo!
Per me il dubbio che vogliano rapinare turisti o cose simili è più che plausibile. Non c’è l’ombra di un locale nei paraggi, sul viale, figuriamoci in una strada al buio. Li mandiamo via gentilmente e decidiamo di entrare in un baretto per mangiare qualcosa.
Ne notiamo uno, molto piccolo. Pieno. Andiamo al bancone, guardo la lista dei bocadillos. Chiedo se parlano italiano per capire meglio gli ingredienti. Il barista, sui 70, mi risponde “io sono italiano”. Guarda te la coincidenza! È di Lecce, ha girato mezzo mondo, vissuto 23 anni in Inghilterra, in Francia e ora si trova da circa 15 anni a Madrid. Gli ordino un bocadillo a non ricordo cosa, una specie di salsicciotto. Mi fa “se volete ne ho già due pronti, al jamon, buoni”. Penso: “evvai, viva l’italianità. Chissà da quanto saranno lì. Tra italiani ci si frega, eh?” Declino l’offerta e rispondo che voglio quello che ho ordinato. Scambiamo quattro chiacchere con lui, quando a un tratto faccio una domanda apparentemente banale ma che ci sconvolgerà la serata:
“per essere all’aeroporto intorno alle 5-5:30 a che ora dovrò prendere il taxi da qua? E dove è più facile trovarne uno libero?”. Non l’avessi mai fatto! Mi risponde: “ora vado a chiedere”. Si reca verso un gruppo di uomini e donne sui 45. Dopo pochi minuti uno spagnolo torna, ci chiede brevemente qualcosa del tipo “a che ora è il volo” e cose così. E fin qui niente di strano. Dopo 5 minuti siamo circondati da 8-10 persone che si prodigano nel darci consigli. Per almeno 20 minuti è un continuo “personalmiente… a qui… el terminal 1… le cinco de la magnana… e via dicendo”. Si scannano tra loro, giuro. Litigano per darci consigli. Non sono nemmeno ubriachi. Arriva la barista, altre due persone, ognuno con il suo consiglio. Io e il mio amico ci guardiamo in faccia e accenniamo a un sorriso “ho solo chiesto a che ora conviene partire e dove si trova un taxi libero” gli dico. Lui ride. Mezz’ora buona di casinisti che ci riempiono fino all’inverosimile di pareri personali e litigano tra loro, quasi si prendono a botte (giuro).
Poi la situazione si calma, ne approfittiamo per uscire da quella gabbia di locos e cavrones, salutiamo il leccese e andiamo verso un albergo lì vicino, il luogo più consigliato da loro per trovare un taxi libero. Sono solo le 3:30 ma siamo già abbastanza stanchi e vogliamo raggiungere l’aeroporto.
Ne troviamo subito uno. Gli diciamo dove siamo diretti e partiamo. Ne approfitto per guardare dal finestrino dell’auto Madrid e ne ho tutto il tempo, visto che viaggia a 30-35-40 km/orari. Penso “niente fretta, ma ci stai prendendo per il culo?”. Lo dico sottovoce, in dialetto a M. Il nostro dialetto è abbastanza simile al bergamasco, che non mi sembra molto simile allo spagnolo. Ma probabilmente il taxista deve aver afferrato qualcosa della frase. Accelera. Accelera. Accelera sino a guidare come un pazzo. Curve a 130 km/h, rettilinei a 170, fino a quando in una curva sbandiamo leggermente. Me la sto facendo sotto, non so se ridere o cosa, intanto mi tocco energeticamente le palle. Voglio portare a casa la pelle.
Il circuito termina dopo qualche minuto, all’arrivo il tassametro segna 25 euro. Sti cazzi! M gli porge i 25 e lui ci fa: “30, c’è il supplemento”. A ri sticazzi! È vero, sul finestrino c’è scritto 5,5 per l’aeroporto. Sfatiamo un altro mito: i taxi spagnoli, specie a Madrid, costano.
Entriamo in aeroporto. E notiamo che Barajas non ha sedie all’interno. Non sappiamo dove dormire qualche ora. M. opta per un tapis roulant dei bagagli posto ai banchi del check-in, io trovo un bar aperto 24h, mi siedo e poggio la testa. Lui dormirà almeno un’ora, io sì e no 15 minuti.
Ci re-incontriamo alle 4:20 e decidiamo di andare a fare subito il controllo bagagli. Intanto notiamo che in aeroporto ci sono altri reduci del concerto, dalle magliette o dalle bandiere Ac/Dc. Questo mi mette un po’ di malinconia, mi ricorda che tutto è finito.
Ci rechiamo alla zona del gate e lì finalmente troviamo le poltroncine. Ci sdraiamo, riposiamo un po’.
Poi le solite pratiche, volo di ritorno e via. Sul volo c’è un altro ragazzo italiano che ha seguito il concerto dagli spalti.
Arrivo a casa stanchissimo, ho dolori alle gambe, alla schiena, in due giorni avrò dormito 7 ore, in alcune situazioni pure male, ho giù la voce. Insomma: a 31 anni sono vecchio. Ho fatto cose che un ragazzo normale farebbe a 25. L’età si sente.
Ma sono felicissimo per l’esperienza vissuta. Una serata che ricorderò per tutta la vita, perché se qualcuno mi chiedesse “sei mai stato veramente felice?” risponderei che “in certi momenti, guardando lo stadio, la gente in torno a me e saltando con loro durante un concerto Ac/Dc ho capito cos’è la felicità”. E, che ci crediate o no, ho rischiato di commuovermi. Anche questo è rock. È stato il più bel concerto della mia vita. È stato un sogno diventato nuovamente realtà dopo Milano, il coronamento di un percorso iniziato anni fa, a 8-9 anni d’età quando nella mia cameretta accendevo la radio portatile con le musicassette di Ac/Dc o Guns n Roses. È stato un viaggio anche questo, un’esperienza unica e indescrivibile.