La sera era passata molto velocemente nella calda notte estiva di Bangkok. Le mie serate nella capitale Thailandese sono sempre tutte uguali, verso le 8,30 cena e poi qualche birra. Tiger beer di solito.
Alle due, quando i locali chiudono, avevo salutato Kate, una ragazza svizzera conosciuta qualche giorno prima in aereo ed ero tornato in hotel. Giusto il tempo di una doccia, riposarsi un po’ e guardare la pioggia sbattere forte contro la finestra della minuscola stanzetta.
Alle tre e mezza tutto smise e l'aria si riempì di quell'odore acre tipico di Bangkok. Check out e vado a prendere il minibus che mi avrebbe portato in aeroporto.
Ho un amore/odio per il “nuovo” aeroporto di Bangkok. Sinceramente non mi piace però, in un certo senso, ci sono affezionato. E’ un aeroporto grande, trafficato (le code alla frontiera sono pazzesche), asettico ma che non si vergogna di concedere degli spazi alla tradizione. Ma soprattutto è li che per la prima volta, in una notte di inizio gennaio, ho sentito il caldo asiatico; quel caldo unico, umido, che a volte sa di smog, ma che se ti prende non ti lascia più.
Atterro a Phnom Penh alle nove di mattina. Il volo era durato poco più di un’ora, uguale a tantissimi altri che avevo già fatto. L’aereo per me è un non luogo, solo un mezzo per andare tra 2 punti nel modo, di solito, più veloce possibile. E’ un mezzo per spostarsi, non un mezzo per viaggiare.
Pensavo di scendere in uno dei paesi più misteriosi d’Asia, uno dei più chiusi e più mistici invece ebbi subito il primo, dei tanti scontri con la realtà. Do’ al doganiere il mio passaporto e mi sento rispondere: “Italiano?” “a.c. Milan? (n.d. chissà perché all’estero le squadre di Milano le chiamano a.c. ed internazionale)” e come se non bastasse, “adoro Toto, anche tu sempre con la chitarra?”. Sorridendo faccio di si con la testa e pago i 20$ del visto. La globalizzazione era arrivata anche li. Attendendo di riavere i miei documenti vistati inganno l’attesa chiacchierando con una ragazza norvegese che stava facendo il mio stesso giro.
Passano almeno 20 minuti, il tempo in oriente è una questione relativa, ed abbiamo di nuovo i nostri passaporti e siamo pronti per lanciarci alla scoperta di questo paese.
La giornata era splendida, me la ricordo come fosse ieri: 28 gradi ed una leggera brezza che allietava il cammino. Proposi alla mia compagnia di viaggio di evitare il taxi, fare un pezzo a piedi e fermare il primo tuc tuc che avessimo incontrato. “I don’t mind, it’s up to you” (non mi interessa, fai come vuoi) mi disse. Da quella risposta capii lo spessore della persona che avevo a fianco e la soprannominai l'ameba.
Sorridevo come uno stupido e nonostante i 15kg di zaino non sentivo affatto la fatica. Per me che arrivavo da Bangkok l’impatto è stato forte. Continuavo a guardarmi intorno e sorridevo come uno stupido: niente smog, niente casermoni grigi, poche macchine ma tantissimi tuc-tuc e ciclo’; ero giunto in Indocina.
Va bene essere stupidi ma dopo un po’ si esagera quindi decido di fermare il primo tuctuccaro che trovo per farci portare prima a fare un tour velocissimo del centro e poi alla stazione degli autobus.
“La cappa” del geometra sempre in agguato ed il “simpatico” conducente al posto di portarci alla stazione centrale ci porta in quella periferica. Mi dice che nessuno parla inglese, ed avrebbe fatto lui per noi i biglietti. Sento puzza di fregatura ma chissene. Alla fine ci chiede 15$ per 2 biglietti.
In tutta la mia vita non ho mai visto un ‘si volgar posto. Sono nell’estrema periferia di Phnom Penh, intorno a me nessun turista, solo locali. Persone con polli morti, ceste di frutta, televisioni, addirittura uno che voleva portare una capra (a quanto ho inteso dai gesti è stato allontanato, o comunque non era sul mio bus). Tutt’intorno mendicanti, monaci e venditori delle più disparate mercanzie.
Alle 11, in perfetto orario, parte il bus. 5 ore mi/ci separano da Siem Reap con il sito di Angkor, la capitale della cultura Khmer.
La prossima parte dopo, ora - purtroppo - devo andare a finire di studiare risk management.....