L’ aeroporto di Tel Aviv, l’ unico aerodromo internazionale di quella che per superficiale comodità definiremo “Israele & Palestina”, ci accoglie nel cuore della notte. Proveniamo da Istanbul per ovvi motivi di risparmio economico ma anche così da evitare tutta la pressante trafila per imbarcarsi su un volo della compagnia di bandiera israeliana El Al che prevede gate d’ imbarco esclusivo in una zona riservata dell’ aeroporto di Fiumicino sotto il controllo a vista di uomini armati e con una lunga sequenza di controllo bagagli e domande sui motivi del viaggio e non solo.
Storie tramandano che su ogni volo di linea della suddetta compagnia, ci sia sempre, mescolato ai passeggeri, un uomo del Mossad, i servizi segreti israeliani, pronto ad intervenire in caso di situazioni particolari.
Il nostro equipaggio di viaggio è formato da quattro persone: oltre al sottoscritto, il solito Jena, Marxim ed Il Cancelliere.
Per motivi legati alla prenotazione dei biglietti, tocca dividerci su due voli differenti che atterrano in Israele a distanza di giusto un’ ora uno dall’ altro.
L’ ingresso nel paese è salutato al controllo passaporti da una scarica di domande tra il serio ed il faceto (a prima vista): l’ esatta pronuncia del tuo nome; il nome di tuo padre; se trattasi della prima volta che visiti il paese; se hai amici in loco; con chi viaggi; il motivo del viaggio; quali località toccherà il tuo giro; quando tempo ti tratterrai. Ogni esitazione, che sia dettata dal non comprendere bene l’ inglese o dalla stanchezza del viaggio o perché davvero, come noi, non abbiamo niente di organizzato e decideremo le nostre tappe giorno per giorno, fa propendere l’ addetto / a militare a porti ulteriori domande fin quando non si risponda in maniera consona (a cosa, ovviamente, non si sa).
Superato l’ esame, la sorpresa è che non viene più apposto il timbro dell’ stato ebraico sul passaporto ma viene consegnata una sorta di carta
d’ ingresso con il tuo nome, fotografia, dati personali, data ed orario d’ ingresso nel paese. Meglio così; non si dovrà poi cambiare passaporto per visitare nel futuro più imminente altri stati quali il Libano, l’ Iran e tutti quelli considerati “canaglia” dai discendenti di Davide.
Il controllo in entrata non sembra poi così clamoroso, ci saremmo aspettati di più.
Solo il militare posto ad ogni entrata ed uscita dell’ aeroporto, a cui devi presentare il passaporto per poi passare, tu e la tua valigia, sotto il metal detector dopo aver inserito il tuo nome in una sorta di registro, tradisce una certa voglia di sicurezza.
Ma in fondo è così anche nei paesi dell’ ex Unione Sovietica dove per entrare in porti, stazioni ed aeroporti devi sottoporti ad un controllo.
La nostra prima tappa è Gerusalemme, la città contesa e sacra per più di una religione.
“Noterete la differenza tra Gerusalemme est e Gerusalemme ovest”, accompagnati da questo avvertimento come se fossero due entità differenti, ci rendiamo ben presto conto, se non subito che questo fantomatico distacco non è poi così netto come i più ci hanno inculcato.
L’ unica clamorosa differenza è tra la turistica Est e la poco più esente da ciò Ovest.
Arabi israeliani e non, ovunque, sia ad Est che ad Ovest; architettura dei palazzi che richiamano quella più tipicamente orientale; scritte in arabo; confusione tipica delle città mediorientali; mercati di cibo e mercanzia varia come solo nei paesi arabi sanno offrire; souvenir che richiamano alla Palestina; donne con i veli; cimiteri musulmani.
E gli ebrei o israeliani che dir si voglia dove sono?
Certo che ci sono e si lasciano notare per il vistoso abbigliamento legato alla loro ortodossia religiosa ma l’ impressione è che siano in netta minoranza. A meno che non ci si rechi in visita nel quartiere ultra ortodosso di Mea Shearim dove gli uomini sono tutti in divisa ebraica coronati da lunghe treccine e le donne, che in alcuni casi non possono transitare sullo stesso marciapiede degli uomini, indossano una parrucca o sono completamente racchiuse in un lungo velo nero che lascia scoperti solo gli occhi.
Ma non erano i musulmani che costringevano le loro donne ad uscire completamente coperte?
Questi in più le fanno radere anche i capelli a zero costringendole alla parrucca…
“Gerusalemme però è un mistone, non è propriamente Israele. Israele l’ occidentale la vedrete altrove”, cercano di convincerci.
Ed in effetti, nel sobborgo di Mevaseret Tsiyon, dove mi reco in solitaria una sera e nella periferia della città stessa, la situazione leggermente cambia.
Ci sono gli ebrei ma non proprio gli israeliani.
Entro in contatto con degli ebrei russi che mi raccontano come sia per loro difficile magari ottenere un visto per la cosiddetta Unione Europea ma di come sia facile, invece, ottenere il permesso a trasferirsi in Israele, se si dimostra la discendenza divina.
Ma allora essere ebreo è una razza o una religione?
Agli ebrei russi che decidono di emigrare sul Mediterraneo, un programma specifico dei potentati sionisti, paga il volo d’ andata, trova la casa in cui vivere, offre un corso di lingua ebraica (obbligatorio) e concede uno stipendio fisso per alcuni mesi, il tempo di trovare un lavoro.
Per qualcuno, trattasi davvero della Terra Promessa.
E fa sorridere quando scopri che il biglietto aereo per la persona che si trasferisce è pagato ma non lo è quello per il suo cagnolino, non rientrante nel programma.
Gerusalemme non ci ha soddisfatti, troppe orde di turisti. Grupponi perfino dalla Nigeria. E’ la prima volta che mi imbatto in gruppi turistici organizzati provenienti da quelle zone.
Al contrario però, non abbiamo trovato controlli esagerati, come era fino a qualche tempo fa, se non squadroni (composti da uomini e donne in quanto il servizio militare è obbligatorio per tutti) di militari di leva intenti a studiare i punti nevralgici della città e controlli di rito all’ entrata del Muro del Pianto.
Circostanza comune a tutti i militari è il mitragliatore d’ ordinanza e pronto all’ uso, in luogo delle pistole nelle fondine delle nostre forze dell’ ordine.
Solo per accedere alla Spianata delle Moschee i controlli sono un poco più accorti e devi evitare ogni simbolo che tradisca la tua appartenenza ad una fede diversa di quella di Maometto. Molte Bibbie, rosari ed altri oggetti simili vengono sequestrati.
Certo, andare a visitare la Moschea Sacra con un Bibbia in mano è chiaramente provocatorio ma i controlli sono serrati e, per la prima volta in terre musulmane, avverto la necessità di sfilarmi il braccialetto di confessione cattolica ortodossa che mi porto dietro da alcuni anni, memoria di un viaggio in Montenegro.
Abbandoniamo Gerusalemme per incunearci più nel vivo del viaggio, entrando in Palestina (o Territori Palestinesi o Cisgiordania o West Bank che dir si voglia).
Subito fuori Gerusalemme, il muro della vergogna, come è stato soprannominato, si staglia imperterrito davanti a noi.
Costruito per separare, dividere, chiudere,sfavorire gli spostamenti di uomini e mezzi tra uno pseudo-stato e l’ altro. Controllato da torrette, alto 8 metri, dotato in alcuni punti di barriere elettroniche è figlio del ben più famoso Muro di Berlino.
Dopo aver superato blandi controlli doganali da parte dell’ esercito israeliano che ci lascia comunque entrare nel Territorio Palestinese senza grossi problemi di sorta, sostiamo sotto le grigie piastre di cemento che formano il muro. Di qua siamo in “Arabia”, di là sarebbe occidente. Pochi metri e cambia tutto. O quasi.
Anche Betlemme è preda dei grupponi organizzati per via di luoghi sacri ai cattolici. Il significato del muro si snatura e non riesci a coglierne davvero l’ essenza in quanto con i turisti si riesce a vivacchiare e si avverte poco la triste condizione secondo la quale gli arabi palestinesi non possono recarsi in Israele ed i loro fratelli presunti privilegiati che vivono al di là del muro, in “occidente”, possono rientrare a casa solo dopo aver superato i controlli, più approfonditi per loro, di una frontiera di una nazione che grida di esistere ma che in realtà è vittima delle sue stesse contraddizioni.
Il centro di Betlemme è il tipico bazaar mediorientale con ricercata mercanzia di ogni tipo, dai pezzi di ricambio per la doccia, ai mobili, ai vestiti, alla frutta. Tantissima roba inutile in vendita ma che risulta pratica per ogni tipo di esigenza. Come a Baku, come a Shahrisabz, come ad Istanbul, come a Pristina, come a Lungo Crati negli anni ’80: se hai un problema, non butti niente o ricompri l’ oggetto nuovo.
No, in questi mercati acquisti il pezzo che devi riparare, qualsiasi esso sia e l’ oggetto ritorna in vita.
E’ tempo di cambiare aria.
Betlemme è il luogo dove nacque Gesù, è meta di pellegrinaggi, è Palestina, è stata colpita dall’ occupazione israeliana, ci accedi sfondando un muro: contrasti che stridono tra di loro.
Discendiamo verso il sud del paese. Il paesaggio brullo di questi Territori ci ricorda, per certi aspetti, la campagna greca. La nostra prossima tappa è Hebron, la città occupata e divisa; la novella Berlino Est per i palestinesi e la novella Berlino Ovest per gli israeliani, essendo proprio quest’ ultima, in fondo, la vera enclave in territorio avverso.
Hebron ci accoglie con la tipica fisiognomicità di una città mediorientale con grandi e caotici vialoni di accesso finchè non raggiungiamo il centro storico. Qui la situazione cambia diametralmente. L’ architettura è simile a quella di Betlemme ma non ha la sua stessa vivacità, anzi.
Ci facciamo accompagnare da un paio di giovanotti locali per le stradine del centro storico. Il contatto con la comunità locale è indispensabile per apprendere la drammaticità in cui versa questo luogo e, per esteso, tutta la Palestina.
Non c’è giorno che passa, che una notizia, grave o più lieve che sia, sulla questione israelo – palestinese fa capolino su giornali, televisioni, blog su internet. E’ una questione così nota che oramai la maggior parte di notizie riguardanti quel fronte viene presa anche con scarsa considerazione dal cittadino medio. Si è quasi assuefatti dalla considerazione che qualsiasi problema che affligge il Medio Oriente e che si protrae poi sulla politica, sull’ economia, sui giochi di poteri mondiali non derivi altro che dall’ epocale situazione di scontro che divide due popoli, più religioni, varie etnie, milioni di persone che lottano per una striscia di terra racchiusa tra il Mediterraneo ed il deserto.
Ma solo visitando personalmente i posti si intuisce meglio quanto superficialmente filtra dalle notizie che vengono trasmesse e che tutti pensano di comprendere.
Nel corso del tempo, nonostante Hebron si trovi all’ interno dei Territori Palestinesi, il governo israeliano ha ordinato militarmente l’ occupazione e lo sgombero di vari palazzi del centro storico della città.
La tecnica è semplice e ben fruttuosa se accompagnata, ovviamente, dall’ uso delle armi: si sfollano gli abitanti di intere palazzine considerate strategiche e ci si installano soldati e coloni ebrei, si saldando le porte dei negozi e dei magazzini sulle strade e si costringono così i palestinesi a lasciare i propri appartamenti e le proprie attività e trasferirsi altrove.
Il cuore del centro storico, una di quelle che era tra le strade principali, è completamente occupato militarmente dagli israeliani: una enclave
nell’ enclave. Hebron nel mezzo della Palestina ai palestinesi, il centro del centro storico della città, invece, agli israeliani che sono autoghettizzati. Vivono in questo fazzoletto di costruzioni non facendo assolutamente niente se non esser pagati profumatamente dal loro governo. Il loro lavoro è vivere in quei pochi metri quadrati giusto per tenere la posizione, una bandierina alla Risiko: come lavoro fanno… i segnaposto.
La tristezza sta nel vedere come le strade perimetrali della zona occupata sono vuote, essendo gli abitanti stati “sfrattati” e controllate da potenti sistemi di videosorveglianza. La cosa che colpisce di più è il sistema di reti metalliche poste come una tettoia tra un palazzo e l’ altro che fungono da protezione per le pietre, la spazzatura, la robaccia che viene spesso lanciata dagli ultimi piani dei palazzi storici abitati dai segnaposto israeliani. Infatti, i piani bassi delle abitazioni sono disabitati e gli accessi al palazzo saldati, le bandierine viventi di Risiko entrano nei palazzi dalla strada parallela, nella zona da loro occupata.
Ed eccola la zona occupata di Hebron dove solo una decina di famiglie palestinesi continua a vivere al prezzo di entrare ed uscire da una sorta di frontiera in mezzo la strada. Un simil vagone ferroviario posto di traverso a chiudere la viabilità in cui entri dalla Palestina e riesci in Israele o viceversa pur essendo sempre nello stesso posto, sottoponendoti sistematicamente al controllo documenti, agli eventuali sberleffi dei soldati anche solo per andare a fare la spesa o per andare a scuola.
Attraversiamo anche noi questa “frontiera” e ci troviamo un una località deserta, una città fantasma, dove il nostro giovane accompagnatore deve percorrere una strada differente dalla nostra in quanto a lui come palestinese è vietato transitare.
Affrontiamo i circa 2 chilometri di strada deserta sotto gli occhi dei militari israeliani e di qualche auto di colini che circola nel vuoto. Riusciamo nella Hebron libera da un altro check point armato e ci ricongiungiamo al nostro giovanotto locale.
Una leggera vena esagerata la notiamo, per la verità, anche nelle parole dei nostri accompagnatori locali. Tutto vero quello che dicono e mai come questa volta lo tocchiamo con mano ma si avverte una maggiore enfasi quando ci raccontano che gli occupanti israeliani civili si prodigano ad ogni occasione in lanci di pietre verso gli abitanti e le finestre delle case palestinesi e quando ci mostra sul cellulare ultimo modello una foto di un arresto di un bambino palestinese da parte dell’ esercito israeliano per supportare con maggior forza le loro parole. Riconosciamo subito la foto di un vecchio articolo giornalistico nonostante ci venga spacciata per reale.
Abbiamo anche l’ impressione che alcuni dei giovani soldati israeliani, quelli posti ai due check point, siano lì per lavoro, nel senso che se potessero forse non ottempererebbero a questi doveri sporchi come quello di controllare i residenti palestinesi in entrata ed uscita. Tanto più che dopo molto tempo e vari turni di lavoro, i soldati israeliani ed i cittadini palestinesi, iniziano anche a conoscersi tra di loro.
Forse per questi giovanissimi dell’ esercito, inviati lì dal loro governo, è più una questione politica che di affinità con i conterranei palestinesi. Un po come ci dissero le persone con cui parlammo in Georgia durante la guerra con la Russia del 2008: “Georgiani e russi sono decenni che conviviamo, questa guerra è solo politica. E’ tra i governi”.
Visitiamo la tomba del Patriarca Abramo, o almeno quella considerata tale dalla tradizione musulmana e cambiamo aria.
Si torna in Israele per attraccare sulle sponde del Mar Morto.
Per rientrare in Israele, ovviamente, tocca transitare da una nuova frontiera.
Il passaggio doganale fa riflettere su come la Palestina è considerata dai suoi stessi abitanti uno stato a se stante ma poi le frontiere sono controllate dall’ esercito israeliano. Di fatto, quindi, la Palestina, più che uno stato è un vasto territorio “contenitore” con numerosi enclavi israeliane a macchie di leopardo come avremo modo di constatare nel prosieguo del nostro tour.
Viriamo verso la città di Arad a maggioranza russofona , avendone la certezza quando proviamo a chiedere informazioni per strada e proseguiamo verso la fortezza della Masada pensando, erroneamente, di riuscire così a sfondare sulla costa.
Niente di più errato. Circa 25 chilometri nel deserto montagnoso in notturna non fanno altro che affascinarci ma ci portano diritto alla fine della strada sbarrata da un cancello. Siamo si alla Masada, sul suo versante ovest ma da lì la strada non prosegue verso il lago, eppure sarebbero neanche 10 chilometri in linea d’ aria. Tocca ritornare sui nostri passi e ripassare da Arad.
Finalmente, transitati per la strada giusta, planiamo sulla costa dell’ enorme lago o mare che dir si voglia, anche se il buio non ci fa godere dello spettacolo delle sue acque.
Attraversiamo Ein Bokek, una clamorosa cattedrale nel deserto nel vero senso della parola, considerato come è costruita sulle sponde desertiche del mar Morto. Ein Bokek è la Dubai israeliana, una sorta di Astana, la recente capitale del Kazakhstan anch’ essa edificata su terreni strappati al deserto, una Sharm el-Sheikh lacustre. Enormi hotel, moderni supermercati, un McDonald’s, eleganti gallerie commerciali e niente più, solo questo. Ein Bokek è una località turistica per clienti danarosi di una certa età ma non solo. Personali contatti russi mi confermano che è una meta rinomata per la cura delle pelle effettuata tramite la presunta miracolosità delle acque del mar Morto, ad alta concentrazione salina.
Siamo in cerca di un alloggio e seppur consapevoli che il luogo non faccia al caso nostro ci proviamo: prezzi talmente clamorosi che ci vorrebbero, per noi, i celeberrimi “chili di cambiali” di fantozziana memoria per saldare l’ eventuale conto.
E’ il far della sera inoltrato, proseguiamo la nostra strada costeggiando il lago salato. Puntiamo alla “Rimini del mar Morto”, come ci era sembrato di capire circa la località di Ein Gedi qualche chilometro più a nord.
Ein Gedi, Ein Gedi, ridente cittadina sulle sponde dell’ immenso lago che separa, in questo punto, Israele e Giordania dove ti trovi?
L’ unica pompa di benzina esistente tra Arad a Jericho sarà giusto la periferia della ridente località. Come il parcheggio retrostante ed il chioschetto di generi alimentari che tira l’ apertura fino a tardi.
Ed invece ci sbagliamo. Ein Gedi beach è tutta racchiusa in quei pochi metri: una pompa di benzina, un parcheggio, un chioschetto e (lo vedremo la mattina dopo) una sorta di stabilimento balneare.
Questa amena località ci ospiterà per gran parte della serata, utilizzandola come pit stop e sosta ristoro.
E’ sempre più tardi e dobbiamo trovare ancora un alloggio per la notte. Anche la benzina della nostra auto sta per terminare ma il distributore funziona solamente con uno strano metodo sul quale ci ravvederemo solamente l’ indomani: eroga il rifornimento esclusivamente dopo aver inserito il numero di targa della vettura. Il perché, supponiamo, è dato dal fatto che il primo distributore più vicino si trova nei dintorni di Jericho, svariati chilometri più a nord e col metodo dell’ inserimento della targa la benzina è così centellinata auto per auto.
Proviamo un paio di resort per giovani sulle pendici della collina sovrastante ma è tutto occupato. Sono le nostre tipiche colonie marine sorte dagli anni ‘ 50 in poi e sono riservate a grupponi di fanciulli.
Il buio imperversa sempre di più e ci inoltriamo seguendo il cartello “Ein Gedi (kibbutz)” senza carpirne appieno il significato. Che ci viene svelato una volta terminata la strada davanti ad un cancello dove una solerte guardia privata ci lascia passare. Siamo ad Ein Gedi centro, ubicata sulla collina, che si rivela non altro che un famigerato kibbutz.
La parola kibbutz, per come ci era stata inculcata, prevedeva una sorta di grande fattoria, un kolkoz sovietico, una specie di comune, un qualcosa comunque molto legato al lavoro della terra. In realtà, ci accorgiamo, il kibbutz è una cosa un po diversa: è un villaggio chiuso. Chi ci vive sì, lavora la terra o nei settori che servono per tenere in vita il villaggio ma il kibbutz un’ immagine diversa di se. Un agglomerato di casette, con vialetti, aiuole, un negozio per il rifornimento dei viveri, campi da tennis ed un posto di guardia. Insomma, più che una azienda agricola ricorda, per architettura e per il fatto che è racchiuso da muretti e cancelli, un villaggio turistico anche se, di vacanziero, presenta ben poco.
Ci imbatteremo in numerosi altri kibbutz nel prosieguo del nostro viaggio, soprattutto sulle alture del Golan dove ci troveremo con la strada sbarrata dai cancelli d’ ingresso di questi villaggi collettivi.
Soddisfatti per aver svelato a noi stessi il significato di un termine e di un metodo di vita appreso sin dai tempi della scuola (alla faccia di Fantozzi che ha sempre inteso il kibbutz come un “termine dialettale abruzzese”) ma delusi per non aver ancora trovato un giaciglio per la notte, optiamo per proseguire ancora verso nord nonostante l’ ora tarda ed il rischio di restare a secco di carburante.
Sfondiamo un check point al buio quasi senza vederlo. I militari col mitra in mano ci guardano sospetti ma ci lasciano transitare,imbocchiamo la strada che sale verso la collina ed iniziamo a salire per una strada deserta e desertica. La strada da queste parti, come oramai abbiamo imparato, finisce all’ improvviso davanti un nuovo cancello. Si capisce poco, sembra una colonia come quelle viste prima dalle parti di Ein Gedi ma allo stesso tempo presenta una grande antenna, torrette ed all’ improvviso un clamoroso movimento di uomini armati e mezzi militari. Una sentinella armata di tutto punto si precipita verso di noi ad un lato del cancello. Siamo nervosi. Potrebbe esserci un fraintendimento a quell’ ora tarda, alla luce di un riflettore, su quella collina sabbiosa, con idiomi che non comprendiamo, in un territorio che vive sull’ allerta di attentati ed attacchi a postazioni militari. I pochi minuti di tensione svaniscono presto. L’ incomprensione è chiarita. Ci troviamo davvero dinanzi una base militare israeliana utilizzata come campo base per il check point incontrato sulla strada a valle. Siamo sulla frontiera tra Israele e Palestina ma la località è anche sede di conosciuto sito alloggiativo per turisti estremi del mar Morto ed escursionisti delle colline desertiche circostanti: siamo a Metzoke Dragot.
Lasciamo sfilare i mezzi militari e riusciamo, finalmente, a conquistare un alloggio per quel che resta della notte. Una situazione davvero spartana ma ci godiamo la brezza estiva, i fumi salati del lago che salgono fin quassù ed il buio interrotto dal riflettore della torretta delle guardie dell’ accampamento militare in condivisione con la nostra accomodazione. Una sensazione strana, nuova, emozionante ma al tempo stesso rilassante ci avvolge su una panchina fuoristante la nostra stanzaccia. E’ l’ alba, il gallo qui non canta ma viene sostituito dal sibilo degli stambecchi che pascolano placidamente davanti la nostra baracca. Il sole alto ci saluta. L’ accampamento militare è sempre di fronte a noi, il mar Morto è sotto. Ci sono tutte le condizioni per goderci una giornata estiva degli ultimi giorni di ottobre. Ridiscendiamo da Metzoke Dragot esaltandoci per il terreno collinoso e color avana che ci regala la sabbia. Simil vallate, alture, tornanti. Un paesaggio eccellente. Risvoltiamo al check point che delimita la frontiera più fasulla del mondo, questa di Metzoke Dragot e rientriamo in Israele. Alcuni facinorosi, (saranno i nudisti di cui qualcuno in seguito ci ha parlato esser soliti sciacquarsi da queste parti?) viòlano il divieto e si bagnano nelle acque del lago, dove non si potrebbe. Davanti lo sguardo inerme dei soldati. Viriamo nuovamente verso sud. Nei nostri programmi c’è la visita della Masada, la fortezza dove gli ultimi resistenti ebraici diedero filo da torcere all’ assedio da parte dei Romani. La sera prima giungemmo alla Masada, sbagliando strada, dal lato sbagliato. Questa volta ci gustiamo la salita in funivia dalla quale godiamo di un panorama clamoroso sullo strapiombo della rupe desertica e sul mar Morto sottostante.
Il caldo è asfissiante ma la visita risulta tutt’ altro che fastidiosa.
Terminata la visita, facciamo ritorno sui nostri passi e rientriamo “alla base”; al chioschetto di Ein Gedi. E’ giunta l’ ora di effettuare la nostra abluzione nelle acque del lago più salato del mondo: il mar Morto appunto.
Oltre il parcheggio, come detto, si estende uno stabilimento balneare con elementi tipici dei primi lidi calabresi anni ’80 e quelli sovietici sul mar Nero della zona di Anapa. Ombrelloni di plastica a fungo di un rosso scolorito adatti a riparare dall’ ombra gruppi interi di persone e docce dove l’ acqua scende in seguito al tiraggio manuale di una sorta di maniglia attaccata ad una grossa catinella da cesso. Con una mano tiri giù l’ acqua, con l’ altra ti sciacquetti. Dai racconti ascoltati in precedenza, ci saremmo aspettati una spiaggia. Ein Gedi, invece, è l’ unico posto su tutta la costa israeliana e palestinese del mare salato che non presenta una spiaggia o qualcosa che le somigli ma è geomorfologicamente un terreno a picco sull’ acqua. Proviamo anche noi l’ ebbrezza di sguazzare galleggiando a causa dell’ alto tasso di sale nelle acque. E’ impossibile affondare, se non a causa di una imprevista bevuta. L’ acqua la senti pesante, le pietre sono ricoperte di strati di sale, grossi condensati di sale li trovi ovunque.
Galleggiamo e ci strichiamo ben bene in queste acque a sentir dire miracolose per la pelle e dopo un ulteriore rifornimento al chioschetto soprastante, da dove stazioniamo oramai ininterrottamente da quasi un giorno, rimettiamo in moto i motori e sghisciamo nuovamente verso nord.
Con classe risfondiamo la solita frontiera di Metzoke Dragot e rientriamo in Palestina. Costeggiamo il mare per tutta la sua estensione del lato ovest. A sinistra la colline, a destra le acque, oltre quelle la terra di Giordania e le sue case all’ orizzonte. Il paesaggio e l’ aria salubre che si respira ci inebriano. Raggiungiamo Jericho, una delle città più antiche del mondo. E’ tempo di buttarci nella volgarità che solo un posto del genere può regalarci. Rispetto ad altri posti troviamo meno confusione ma i negozi pieni di arrabbattaglie, gli autisti dei bus in attesa sulla strada seduti su divani portati da casa, donne cariche della spesa, bambini al pascolo. Ci concediamo una sosta in città, già sapendo di dover saltare, purtroppo, la vicinissima frontiera con la Giordania dove si arriva guadando il ponte Allenby che oltrepassa il fiume Giordano, frontiera naturale tra Palestina e lo stato della capitale Amman. Ma è solo un rimando ad un prossimo viaggio.
CONTINUA…
LUCA PINGITORE
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