Israele – Giordania on the road 2009

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Stavolta la destinazione è stata scelta quasi per caso, un’offerta Swiss da non perdere, una zona da sempre interessante ed eccomi in volo con Pingo destinazione Tel Aviv.
Le procedure alla dogana sono veloci, qualche domanda sul perché veniamo in Israele e alle 4 di mattina di sabato 14 novembre siamo fuori l’aeroporto. Cerchiamo un treno o un bus, ho visto su internet che anche di notte i servizi sono attivi, ma sembra non funzioni nulla. Vado a chiedere all’ufficio informazioni e mi sento rispondere con un sorriso, ‘tutto è fermo, è lo Shabbat’, il sabato ebraico.
Sapevo che molte cose sarebbero state chiuse e che gli spostamenti sarebbero stati difficili, ma non avrei mai immaginato che non ci sarebbero stati neppure i treni o gli autobus navetta dall’aeroporto per la città. Costretti ad un taxi arriviamo veloci all’ostello prenotato e non se ne parla nemmeno di entrare in camera fino a mezzogiorno, se vogliamo entrare paghiamo l’intera notte, altrimenti aspettiamo nella hall. A nulla valgono le richieste di sconto, cifra piena anche dalle 5 alle 12 di mattina oppure restiamo fuori. Visto che siamo stanchi morti paghiamo i 16 euro richiesti e ci sistemiamo in una camera spoglia e decisamente sudicia con due letti e bagno in comune. Il tempo di mettere la sveglia alle 11 e il sonno mi prende.
Tel Aviv è una città moderna ma oggi tutto è chiuso, peggio che a ferragosto in una qualche città industriale italiana venti anni fa perché neppure i mezzi pubblici si muovono. Sul lungomare però c’è vita, cammino sulla sabbia con le onde che frangono e tanta gente attorno, molte belle ragazze in costumi succinti fanno dimenticare di essere in medio oriente. La città non è granché ma la sosta era praticamente obbligatoria per via dello Shabbat. Passeggiamo in un centro desolato che solo la sera riprende un po’ di vita. Entriamo per la prima vota in contatto con i rigidi controlli israeliani, anche solo per entrare in un bar devi aprire lo zaino e ogni centro commerciale è dotato di metal detector e guardie di sicurezza.
Il bus per Ber Sheva fa abbastanza impressione, dei circa 50 occupanti 45 sono giovani militari di cui la metà sono ragazze ventenni sedute con sulle ginocchia mitra più grossi di loro. Invece che con specchietti e cipria qua tra le mani tengono armi e caricatori pieni di proiettili. All’ autostazione di Ber Sheva la situazione è la stessa, soldati armati ovunque. Ci mettiamo in coda e saliamo su quello diretto a Mitzpe Ramon, nel bel mezzo del deserto del Negev.
Pingo mi fa notare un po’ sadicamente come questo bus sia un bersaglio perfetto per i terroristi, in effetti sembriamo più su un mezzo militare che dà un passaggio a un paio di turisti raccattati per la strada che su un bus di linea, e guardare il paesaggio non aiuta, ovunque ci sono indicazioni di pericolo causa esercitazioni di soldati, esplosioni, proiettili vaganti, anche se per fortuna ogni tanto un cartello ‘cammello pericoloso’ mi fa sorridere.
Ogni tanto facciamo deviazioni per fermate presso zone militari, pare che qua non ci siano altro che installazioni belliche e campi di addestramento, finalmente arriviamo a Mitzpe Ramon una piccola cittadina messa sul bordo di un cratere-canyon colorato in mezzo al deserto.
La vista è bella ma in mezzora concludiamo la visita e ci informiamo per il bus per Eilat, e sarà un problema perché nel pomeriggio ci sono solo tre bus e questi pare saranno pieni zeppi di soldati (ci spiegano che gli autobus sono tutti pieni di militari perché questi la domenica tornano ‘al lavoro’ nelle caserme dopo avere passato lo Shabbat a casa).
Scendiamo fino alla fermata del bus e ci mettiamo in attesa. Dopo dieci minuti passa il primo ma neppure si ferma, l’autista ci fa cenno eloquente con le mani che non ha posto. Dovremo aspettare 2 ore per il seguente. Arriva una ragazza israeliana, anche lei deve arrivare a Eilat, le spieghiamo il problema e si preoccupa, deve andarci assolutamente e ci dice che se non c’era posto nel bus delle 13 è assai improbabile che ci potrà essere nei due successivi, in genere più affollati. La vediamo chiamare qualcuno al telefono, dire frasi per noi incomprensibili e andarsene. Dopo un po’ arrivano due olandesi un po’ attempate, anche loro hanno la nostra destinazione. Parlottiamo un po’ e nell’attesa proviamo con l’autostop, tentiamo separatamente sia alla stazione di servizio che per strada ma non c’è verso. Nessuno si ferma né ci aiuta.
E questo mi stupisce perché ok per me e Pingo che potremmo incutere terrore nei passanti, ma mi sembra strano che nessuno voglia prendersi il rischio di far salire in macchina due donnine cinquant’anni con zaino in spalla. Dalle macchine veniamo totalmente ignorati e alla stazione di servizio non potendo fingere di non vederci riceviamo risposte che vanno dal ‘non posso aiutarvi’ fino al ‘non è un problema mio’. Capisco comunque il loro atteggiamento, deve essere esasperante vivere in Israele ossessionati dai continui controlli di sicurezza e per la massiccia presenza di armi ben visibili da ogni parte, in strada, sui mezzi pubblici, nei ristoranti, nei negozi. Ogni persona che vedono deve sembrar loro un potenziale assassino e non vogliono prendersi il minimo rischio.
Mi dice comunque Pingo che non è assolutamente impossibile ricevere passaggi qua, infatti due sue amiche lettoni, bionde e giovani, hanno girato facilmente tutto Israele in autostop, anche qua alla fine è solo una questione di requisiti e certe qualità fanno dimenticare rapidamente ogni pericolo pure ai più sospettosi.
Dopo due ore di attesa, sicuri ormai di restare lì e ripartire la mattina seguente, passa il bus che per fortuna ha cinque posti disponibili. Saliamo tutti e quattro, la ragazza israeliana non è tornata, avrà trovato un’altra soluzione. Scorriamo lungo il deserto e di tanto in tanto ci infiliamo in qualche stradella laterale che ci conduce a centri di addestramento militari e caserme. Il paesaggio è abbastanza piatto e non c’è altro se non installazioni dell’esercito. Ai bordi delle strade vediamo frequentemente soldati in esercitazione e carroarmati in movimento. In una di queste fermate sale l’israeliana che aspettava con noi a Mitzpe Ramon, si siede accanto a me e mi dice che si è fatta portare lì da un carro militare, pure lei infatti è un soldato, ma è in ferie, sta andando a trovare il fidanzato al mare. Mentre mi racconta riceve una telefonata, pare che litighi pesantemente con qualcuno, mette giù la comunicazione e rifiuta le chiamate almeno trenta volte di fila, ha una faccia arrabbiatissima che pare esplodere. Poi si mette muta a guardare avanti e, pur sapendo che la sua borsetta è troppo piccola per tenere un mitra, penso che sia meglio lasciarla tranquilla e non fare altre domande, e mi dispiace perché ero curioso di sapere un po’ di più della vita di caserma degli israeliani.
Finalmente arriviamo a Eilat trovando posto nel primo alberghetto economico che ci capita sotto tiro. Passiamo tutto il giorno seguente a Eilat, è mar Rosso ma non è granché e pure la città pare smorta.
Il martedì mattina ci alziamo presto per attraversare il confine con la Giordania.
Temendo la coda alle 7 siamo già in frontiera, e l’intento di evitare l’affollamento in dogana riesce al meglio, siamo solo noi due. Paghiamo la tassa di uscita da Israele e a piedi lentamente superiamo quel pezzetto di terra di nessuno che separa i due stati. Alla dogana giordana pare che tutti dormano, dobbiamo bussare alla porta per far venire qualcuno a scarabocchiarci qualcosa sul passaporto a valere come visto. Subito dopo un altro arrivato appositamente per noi mette svogliatamenente un timbro e siamo dentro il paese. Speravamo di condividere un taxi con qualcuno ma essendo da soli non ci rimane che trattare in solitaria con uno che pare il manager di tre autisti per farci portare a Wadi Rum.
Loro hanno poca voglia di trattare e noi poche scelte, fatto sta che dopo 10 minuti di contrattazioni poco fruttuose ci accordiamo e saliamo su un taxi. Andiamo diretti verso Aqaba e qua attraverso una serie di viuzze arriviamo ad una casa dove affianchiamo un auto, ‘cambio macchina’ dice l’autista. Scende un uomo molto simpatico che prima di partire ci fa conoscere mezza sua famiglia. Il figlio maggiore monta con noi, lo accompagneremo a scuola. Il paesaggio qua è più bello, i monti rendono molto affascinante il deserto. L’autista ci chiede quando tempo trascorreremo a Wadi Rum e si stupisce nel sentire che rimarremo fino al giorno seguente.
‘E’ solo deserto, due ore bastano e avanzano’ ci dice.
Lui guida velocissimo, per fortuna il tragitto per arrivare è breve, non avrei sopportato troppo a lungo il tachimetro fisso su 140km orari in una strada con continui cartelli con il limite a 50. Arriviamo al visitor center di Wadi Rum e telefono a Mohammed con il quale avevo prenotato un’escursione in jeep per tutto il giorno e poi la notte nel deserto nel suo campo. Ci viene a prendere un ragazzo e ci porta all’abitazione del suo capo. Mohammed ha una bella tunica e la kefiah e ci accoglie con ampi sorrisi in una sala spaziosa facendoci accomodare su dei cuscini con spalliera a fare da comodi divani bassi posti direttamente sul pavimento lungo tutte le pareti. Accanto a lui c’è la sua segretaria moglie amante, un’americana arrivata lì in vacanza e probabilmente rapita dal fascino beduino. Ci offrono il tè, una coppia di francesi è nella stanza, ci accordiamo per dividere le spese del giro in jeep con loro. Il deserto mi piace sempre, e anche questo giordano non mi delude, è molto vario e il bel colore rosso della sabbia si alterna spesso a toni più chiari. Montagne rocciose incorniciano le valli, un deserto principalmente di pietre e sassi con isolate e basse dune. Il tempo purtroppo non è dei migliori, il sole si alterna alle nubi, talvolta cadono gocce di pioggia.
Arriviamo al campo un’ora prima del tramonto e abbiamo tempo per passeggiare nei dintorni. Le tende occupano una posizione molto bella, sotto una duna e circondate da montagne, c’è silenzio, solo il vento fa sentire la sua voce. Davanti al fuoco beduino conosciamo una ragazza di Torino in viaggio con la madre, lei studia arabo a Damasco e la donna è venuta a trovarla.
Ci dice che viaggiare qua è molto facile, specialmente in autostop, tutti si fermano per farti salire. Le domando della sicurezza ma lei è certa che non ci siano problemi, ma resto con i miei dubbi soprattutto quando mi dice che molti tassisti e autisti l’hanno invitata ad andare in hotel con loro, comunque non le è mai successo niente e fino a prova contraria ha ragione lei. E sul fatto che sia facile trovare qualcuno che ti dia un passaggio in Giordania vale il discorso fatto per Israele, l’essere una bella ragazza aiuta.
La notte il cielo si rimette, verso l’una esco dalla tenda a fare due passi in solitaria e pila frontale cammino un po’ nella sabbia spengendo di tanto in tanto la luce e facendomi venire le vertigini scrutando allo zenith il buio nero illuminato da migliaia di stelle.
Sto fuori quasi un’ora e poi torno a dormire, ma prima delle cinque sono di nuovo all’aperto, c’è luce sufficiente per camminare e mi dirigo verso un’altura rocciosa ad aspettare l’alba.
Purtroppo a est ci sono nubi e del sole scorgo solo il chiarore, allora scendo dalla parte opposta del campo, vagando per oltre un’ora tra sabbia e rocce, in totale silenzio e solitudine.
Ogni tanto mi siedo a guardare la mie orme sulla sabbia rossa e a pensare a quanto bello sia stare qua a respirare quel senso di libertà e vuoto che solo il deserto sa darmi.
Un bussino ci porta a Wadi Musa, prendiamo una stanza nell’albergaccio prenotato per sette euro e ci dirigiamo a piedi verso Petra.
Fa freddo e c’è una pioggerella leggera. Il clima è bruttino ma il percorso nel sik e l’uscita di fronte al tesoro sono un’esperienza indimenticabile. Camminiamo per un paio d’ore ammirando le rovine e poi chiediamo informazioni per andare al Monastero e a Piccola Petra.
Un ragazzo con due muli e un braccio ingessato mi indica la via e mi dice che dal Monastero si può andare direttamente a Piccola Petra per un percorso poco battuto. Trattando assai sul prezzo ci facciamo accompagnare da lui.
I muli salgono per il sentiero ripido e io come sempre mi sento a disagio sulla sella, piano piano prendo comunque confidenza e salgo facile senza rischiare di cadere ad ogni movimento brusco.
Il Monastero è davvero suggestivo, di certo la struttura più bella tra quelle viste a Petra. Facciamo una breve sosta e poi andiamo oltre, per una via che si fa sempre più isolata e scoscesa. Credo pochi passino di qua, ci sono precipizi e passaggi non molto semplici e dobbiamo scendere ripetutamente dal mulo per fare a piedi i tratti più impegnativi. La vista è splendida tra rocce e deserto.
Il ragazzo che ci accompagna si chiama Mohammed (pure lui!) è sposato con cinque figli e ha 32 anni, e appena lo scopro lo grido a Pingo, sciagurati me e lui che s’ha 34 anni e si scappa sempre da queste responsabilità. Pingo placidamente mi fa notare che Mohammed ha sì 32 anni però a guardarlo bene ne dimostra di più e quindi è come se fosse più vecchio di noi. Allora lo osservo con attenzione e in effetti il mio amico ha ragione, alla nostra guida di anni gliene avrei dati almeno 35!
Mohammed mi dice poi di essersi fatto male alla spalla cadendo per questi sentieri e di abitare in un villaggio beduino non troppo distante da Petra. Impieghiamo quasi due ore per completare il percorso e arrivare in una strada sterrata dove una fuoristrada ci aspetta per fare l’ultimo pezzo fino a Piccola Petra. Nota curiosa: prima di salire in auto Mohammed lega i muli e con un urlo li spedisce a casa da soli.
La mattina seguente il cielo è completamente sgombro da nubi e decidiamo di ripercorrere presto il sik fino al Tesoro per rivederlo con il sole.
Non abbiamo molto tempo a disposizione perché dobbiamo tornare all’albergaccio per le dieci, il proprietario ci ha infatti organizzato un trasferimento in macchina con autista fino a Karak e poi lungo il Mar Morto fino al confine israeliano di King Hussein / Allenby bridge.
Rimaniamo così fino ad oltre le nove a guardare il Tesoro illuminato e poi per recuperare tempo ci facciamo portare da un taxi fino all’albergaccio, posizionato in alto a Wadi Musa. Il tassista si stupisce vedendoci venire via così preso da Petra, quando tutti arrivano, e quando gli diciamo che abbiamo appuntamento con un autista che ci porterà al confine con Israele lui sbotta ‘Male avete fatto a organizzarvi con il proprietario di quell’hotel! Di sicuro qualcosa andrà storto, sceglie sempre autisti inaffidabili, sperate non vi succeda niente e che non vi fermi la polizia!’.
Un po’ condizionato dalle sue parole guardo un po’ storto il buffo autista che in giacca e cravatta ci attende. Mi dà poca fiducia, ma forse è la suggestione per ciò che ho sentito poco prima. La suggestione però si rafforza mentre lo guardo guidare malissimo, tagliando tutte le curve e passando più tempo nella corsia di sinistra che in quella giusta. Poi finalmente, dopo un’ora, la suggestione prende la forma netta di un denso fumo bianco che esce dal motore e la macchina si ferma. Il conducente bestemmia in arabo (presumo) e ci dice che il contenitore dell’acqua del radiatore è andato perso e per questo si è surriscaldato tutto. Non so come, ma l’autista staccando viti, annodando tubicini e versando un bel po’ di acqua minerale mette a posto tutto e ripartiamo.
Ma passa mezzora e lo stesso problema si ripresenta, stavolta però una mezza esplosione di vapore colpisce il povero autista chino a riparare il danno e la scena è fortuitamente immortalata da una mia foto scattata mentre cercavo semplicemente di documentare una semplice riparazione. Adesso siamo fermi. L’autista rinuncia definitivamente e chiama un suo amico in sostituzione, dovremo aspettare un’ora. Invece di attendere in macchina decidiamo di incamminarci verso il villaggio poco lontano, magari c’è qualcosa di interessante da fare.
Scorgiamo una moschea e ci avviciniamo. Un signore di circa trent’anni barbuto in kefiah bianca a quadretti neri è fuori la porta e ci guarda incuriosito, lo salutiamo, lui parla inglese e ci chiede cosa ci facciamo in quel posto. Gli spieghiamo dell’auto e lui, che si chiama ovviamente Mohammed, si offre subito di aiutarci. Visto che non ce n’è bisogno gli diciamo di non disturbarsi per quello ma gli chiediamo se possiamo visitare la moschea anche se non siamo musulmani.
Certo che possiamo, è lui l’Imam e ci autorizza a stare dentro pure durante la preghiera. Entriamo e ci mettiamo silenziosi in un angolino guardandoli pregare. Fanno un quarto d’ora di pausa e tutti vengono a parlare con noi, sono incuriositi e ci fanno un bel po’ di domande, uno di loro dice di essere stato a Roma mentre era nell’esercito, ma mi sembra di capire che la sua visita si sia limitata all’aeroporto di Fiumicino.
Ricominciano a pregare e noi sempre muti ad osservarli. Poi la preghiera finisce e l’Imam viene di nuovo da noi per invitarci ad un tè nella sua abitazione. La sua casa è grande e ci fa accomodare in una bella stanza, simile a quella dell’altro Mohammed, beduino del Wadi Rum, ma molto più pulita. Ci mostra orgoglioso il figlioletto appena nato e poi il figlio maggiore, si aggiungono presto anche il fratello e il nipote. Beviamo il tè e parliamo. Poi arrivata l’ora ci monta in auto e ci dà un passaggio fino a ritrovare il nostro autista buffo cui se n’è aggiunto uno nuovo. Rapidi facciamo il cambio di auto, salutiamo il vecchio conducente che si scusa tante volte per l’inconveniente non sapendo che questa sosta imprevista è stata davvero divertente e infine ringraziamo calorosamente l’Imam, è stato davvero piacevole incontrarlo.
Il nuovo autista è giovane, sembra che abbia litigato con la fidanzata perché la chiama di continuo, lei risponde e poi gli riattacca il telefono in faccia, e questo di continuo, per tutto il viaggio. Stando sempre al telefono e non conoscendo per nulla la strada ci perdiamo spesso, non sa mai dove andare e chiede ripetutamente informazioni. Impieghiamo due ore per arrivare a Karak ma siamo in forte ritardo, non c’è tempo per una sosta alla fortezza e scendiamo giù rapidi per la strada lungo il mar morto, attraverso un bel paesaggio colorato e arido, con il blu del lago che si contrasta bellissimo contro il deserto.
Una sosta per il bagno di rito è d’obbligo, ma solo mezzora che dobbiamo arrivare presto alla frontiera, alle 18 chiude.

Verso le 17 arriviamo alla frontiera, entriamo nell’ufficio delle partenze e l’addetto ci chiude letteralmente in faccia la porta mandandoci agli arrivi, il suo turno è finito. Qua un doganiere baffuto guarda svogliatamente i passaporti, scrive qualcosa sul terminale e poi timbra dei foglietti a parte. Arrivato il mio turno gli dico che per me può tranquillamente timbrare il passaporto tanto sul mio c’è già quello di Israele. Lui mi guarda storto e mi dice che in quel posto di frontiera non mettono timbri. (Il motivo è che i Giordani non accettano di buon grado quella dogana perché per loro il confine reale è molti chilometri più in là e, considerando tutto quel territorio occupato dagli israeliani ancora parte del loro stato, si rifiutano di mettere un timbro di uscita dal paese visto che in realtà si rimane nei confini nazionali, farlo sarebbe come ammettere che quei territori sono ormai definitivamente persi.)
Ci fanno montare su un bus e ci dicono di attendere. Dopo quasi un’ora siamo ancora fermi ed è divertente domandare all’autista l’ora della partenza perché risponde sempre ‘Tra un minuto’. Finalmente arriva il minuto giusto e ci muoviamo, non prima però di avere sborsato quasi 5 euro a testa per i tre chilometri fino al controllo israeliano, e per fortuna c’erano rimasti i dinari necessari. Per due volte, una ogni chilometro, ci fermiamo, devono controllare se abbiamo pagato la tassa di uscita (altri 5 euro).
Alla frontiera israeliana ci mettiamo in fila, ci sono pochi turisti e molti palestinesi, la coda scorre lenta, un’israeliana si fa riconoscere come tale e viene accompagnata in un altro ingresso, essendo residente ha la precedenza. Accanto a noi c’è una ragazza italiana di Bologna. Lavora per le nazioni unite ed è a Gerusalemme da quasi tre anni, è insieme al suo fidanzato, un aitante spagnolo che fa il giornalista. Parliamo un po’, le chiedo se i controlli sono lunghi e lei mi dice che dipende molto dalla faccia e da quanti visti strani ci sono sul passaporto, e mi rassegno all’inevitabile. Aggiunge che hanno vita dura pure le ragazze che viaggiano da sole, gli israeliani infatti temono che queste possano cedere (o peggio che lo abbiano già fatto) al fascino beduino di certi palestinesi e diventare quindi un pericolo, sia come semplice vettore di informazioni parziali, che come mezzo attraverso cui i terroristi possono penetrare e colpire più facilmente Israele. E visto che fanno controlli così serrati non devono essere poche le donne che si perdono nel fascino degli uomini mediorientali.
Arriva il mio turno. Consegno lo zaino per il controllo ai raggi X e poi vado al primo posto di ispezione, un paio di domande, uno sguardo alla mia faccia, ai visti sul mio passaporto e come previsto mi viene detto di accomodarmi e aspettare che devono controllarmi meglio. Pingo fa finta di non conoscermi e passa senza problemi. Mentre attendo seduto su una sedia vedo sfilare diversi palestinesi che onestamente non mi paiono meno sospetti di me ma mi limito a pensarlo. Poi mi chiamano, aprono il mio zainetto e strofinano una bacchetta con in punta un piccolo telo bianco su ogni oggetto, mettono quindi il telo bianco sotto una macchinetta e aspettano il test. E’ negativo, significa che non ci sono tracce di esplosivo. Mi restituiscono il documento e ho il via libera.
Arrivo al controllo passaporti. Pingo è sotto interrogatorio, ma pare se la stia cavando bene. Io sono in un altra fila e c’è solo una persona di fronte a me che passa appena arrivo. Consegno il documento alla ragazza nel gabbiotto oltre il vetro, lei mi guarda e mi chiede il nome, poi qualche domanda svogliata sul perché sono in Israele, dove starò e per quanto tempo rimarrò. Quindi sfoglia il passaporto e probabilmente vede troppi visti per essere stato emesso poco più di un anno prima. Quelli che meno le piacciono paiono essere del Nepal e della Mongolia, mi dice di aspettare e se ne va con il mio documento in un stanzina, credo a parlare con un suo superiore. Poi ritorna e rifà un’altra serie di domande, controlla con attenzione la pagina con il visto Mongolo, prende il telefono e chiama qualcuno, alcune parole incomprensibili, quindi mi comunica quasi dispiaciuta che devono fare ulteriori controlli e che mi devo accomodare sulle sedie che vedo di lato.
Mi siedo e sono l’unico in questa sala di attesa, gli altri scorrono, Pingo è già oltre da un bel po’. Arriva un uomo dalla ragazza, insieme se ne vanno con il mio passaporto ed entrano di nuovo nella stanzetta. Io attendo, sicuro che quella stanzina mi accoglierà tra breve, e invece la ragazza esce facendomi cenno di andare verso il suo gabbiotto, si scusa per l’attesa, apre il passaporto, mi chiede se può timbrare e poi mi fa passare oltre con il mio nuovo timbro ‘Allenby bridge’. Subito dopo però un’altra ragazza mi blocca, devo mostrare nuovamente il documento e si ricomincia con la solita serie di domande, poi d’improvviso si ferma, come se avesse avuto un’illuminazione, mi chiede se viaggio con qualcuno, e io, indicando Pingo che mi aspetta a circa venti metri da dove mi trovo passeggiando di fronte ai nostri zaini, prontamente rispondo ‘Sì, con quel tipo laggiù!’, e allora la ragazza con un sorriso ‘Ah! Ok! Have fun!’.
Montiamo su di un minibus che in circa quaranta minuti ci porta in città, dopo pochi chilometri ci fermiamo al posto di blocco di ingresso a Gerusalemme, il passaggio è semplice, rapido sguardo a noi e ai bagagli, occhiata ai documenti e andiamo.
Abbiamo un ostello in una bella posizione vicino la chiesa del Santo Sepolcro, lasciamo gli zaini e andiamo a cena. La fame si fa sentire. La città vecchia è deserta e ci dirigiamo in centro, nella parte ovest, quella israeliana. C’è tantissima gente a giro, è pieno di locali e ristoranti, noi ne scegliamo uno di livello medio alto e non ci possiamo lamentare, pure il vino locale non ci delude.
Per sms fissiamo per il giorno seguente con Irina, una ragazza israeliana di Couchsurfing, ci vedremo con lei alle 11 all’ostello.
Sveglia presto e alle 7 siamo già a giro, ci dirigiamo alla chiesa del Santo Sepolcro, tra viuzze ci perdiamo un po’ e finiamo in via Dolorosa dove mi scopro a scuotere la testa osservando una comitiva di Filippini che ripercorrono la Via Crucis, tutti cantano e pregano con gli occhi al cielo e un paio di loro si portano faticosamente sulle spalle un’enorme croce di legno. Pingo ironicamente si chiede se quella croce se la siano portata da casa oppure c’è un ‘noleggio croci’ da qualche parte e questa domanda mi frulla per un po’ in testa. Poi troviamo il Santo Sepolcro, la chiesa onestamente non è nulla di particolare ma è davvero interessante osservare le persone che si vedono qua dentro. Ci sono persone di ogni etnia e colore, soprattutto però, visto che siamo nel centro religioso più importante dei Cristiani Ortodossi, fanno bella mostra di sé molte ragazze russe con vestiti e veli colorati, a fasciare e coprire i capelli, ma concedendo libertà totale a sguardi intensi d’occhi color cielo e lasciando poco immaginare gambe lunghissime. Visto che questo è posto da pensieri casti, prima di venir fulminati dall’alto e non solo da questi sguardi, decidiamo di uscire per dare un’occhiata al muro del pianto. L’ingresso al muro è come previsto ben controllato, passano la nostra roba ai raggi X e noi al metal detector. Entriamo in una specie di piazza con in fondo un muro fatto di grosse pietre bianche e con decine di persone vestite in maniera buffa che si inchinano e pregano vicine verso di esso. Le persone vestite strane sono gli ebrei ortodossi ed è sorprendente vedere il modo in cui, mentre pregano, si inchinano ripetutamente e velocissimi in direzione della parete. Ci sono due accessi separati che portano a due sezioni adiacenti del muro, una grande per gli uomini, una molto più piccola per le donne. Alcuni uomini hanno un mitra, quasi tutti hanno sulla fronte una sorta di scatolina nera legata con un filo dietro alla testa, mi chiedo cosa sia, Pingo ipotizza sia una specie di protezione di gomma per le volte che questi, inchinandosi troppo vicino al muro, ci battono il capo contro, e visto che entrambi crediamo che potrebbe pure essere, sentendo di poter essere fulminati pure in questo secondo luogo sacro di Gerusalemme, anche se stavolta per un motivo differente e da un diverso Dio (anche se magari è lo stesso), decidiamo che è meglio andare a mangiare qualcosa. Io vado per un divino (culinariamente parlando) felafel dentro una pita, Pingo opta per un paio di pezzi dolci onestamente molto più terreni.
Incontriamo Irina al nostro Ostello, è di origine russa, ha vissuto fino all’adolescenza in Siberia e si è trasferita a Gerusalemme nel 1992, subito dopo il crollo dell’URSS. Ci dice che suo nonno era ebreo ma lei in realtà prima di venire qua era cattolica, a Gerusalemme però non può far altro che essere ebrea e comportarsi da ebrea, altrimenti avrebbe tutte le porte chiuse e vivere in Israele sarebbe molto più difficile. Le chiedo del ‘noleggio croci’ che ancora mi frulla per la testa e lei dice che le agenzie turistiche offrono pacchetti ‘calvario completo’, comprensivo di croce della dimensione prescelta, rosari e testi delle preghiere. Quindi le domando cosa sia il quadratino nero che si legano in fronte gli ebrei ortodossi mentre pregano, ‘E’ una scatolina che contiene le preghiere!’ e scoppio a ridere pensando alla scampata fulminazione per averlo immaginato un paraurti. Vorrebbe portarci al Santo Sepolcro e al Muro, ma ci siamo già stati e preferiremmo andare alla grande Moschea, ma si rifiuta, se vogliamo ci andiamo da soli, per lei è pericoloso entrarci. ‘Pericoloso per cosa?’ le chiedo, mi risponde che anche la città vecchia è rischiosa, pochi ebrei hanno il coraggio di entrarci e chi lo fa spesso è seguito da guardie del corpo. Mi prega anche di non parlare di queste cose dentro la città vecchia, la gente ascolta ed è imprudente. Questa sua paranoia non mi piace molto ma siamo suoi ospiti e faccio come dice. Percorriamo un paio di strade nella parte est della città ma si vede che non è a suo agio e così in breve ci troviamo nella zona ovest, la parte israeliana. Ci racconta che i palestinesi che abitano nella parte orientale di Gerusalemme hanno una sorta di carta di identità che consente loro solo di abitare lì legalmente, non possono però andare nella città vecchia né tantomeno ad ovest, se lo fanno rischiano di passare una giornata in prigione, ci fa comunque capire che nessuno rispetta questa regola e anche la polizia spesso lascia correre queste infrazioni. Aggiunge anche che in fondo i palestinesi che abitano Gerusalemme est sono i più fortunati (escludendo quelli con passaporto straniero), la maggioranza di quelli che vivono in Cisgiordania e ancora di più a Gaza non hanno infatti documenti riconosciuti e non possono praticamente spostarsi, anche se vogliono andare nella città santa riescono a farlo solo con permessi speciali.
Mangiamo un ottimo ed economico hummus e passeggiamo per la zona residenziale. Poi Irina ci saluta, ci vedremo la sera successiva per cena.
Visto che è venerdì e si sta avvicinando il tramonto ci dirigiamo nuovamente verso il Muro del Pianto, vogliamo vedere gli ebrei in preghiera per l’inizio dello Shabbat. Stavolta le scene che si vedono sono ancora più singolari con centinaia di buffi soggetti vestiti con strani frac e cappelli a bombetta di stoffa nera o a ruota di pelliccia, quasi tutti con una barba a punta molto curata e molti di loro abbelliti da una treccina laterale sopra l’orecchio ad adornare una testa quasi rasata, che corrono per le strette vie della città vecchia per arrivare in tempo al Muro. In tempo per che cosa non lo so visto che correvano alle 17 poco prima della calata del sole e continuavano a correre verso il luogo più sacro pure alle 19 a notte inoltrata (Pingo ha ipotizzato che avessero dei turni di preghiera, ma questa cosa mi sono scordato di chiederla a Irina il giorno seguente e sono rimasto con il dubbio, credo comunque che volessero solo arrivare il prima possibile, compatibilmente con i loro impegni).
Passiamo i controlli e entriamo nella stessa piazza della mattina, ma adesso ci sono centinaia di persone nei pressi del muro, da una parte gli uomini, ad occupare oltre l’ottanta per cento dello spazio, dall’altra, come la mattina, rilegate in un angolino nascosto, le donne. Questa a dire il vero è una cosa che non mi piace, le religioni che dividono uomini da donne mi infastidiscono per principio (pure le altre a dire il vero non mi convincono del tutto), e vedere le donne ghettizzate in quella zona chiusa a pregare per conto loro non mi fa una bella impressione. Ci mettiamo in testa il copricapo e entriamo nella zona della preghiera, senza fotografare oggi che è proibito. Attorno a noi tutti pregano e soprattutto si inchinano con movimenti oscillatori velocissimi, incuriosito mi diverto a contare le oscillazioni di un giovane barbuto con treccina e frac che riesce a tenere una media di 90 inchini al minuto, ma ce ne sono altri che vanno pure più veloce e non mi spiego come non possa non girar loro la testa a muoverla su e giù così rapida. Poi arrivano alcuni soldati, posano le armi e si mettono nel mezzo a fare il girotondo e a cantare alleluia, altri in frac si uniscono a loro con il girotondo che cresce, diventa a due file, poi tre, cento persone girano intorno abbracciate saltando, ridendo e cantando, sembra che si divertano davvero. Intanto le donne chiuse nell’angolino sono impegnate in attività simili, ma molte di loro sono in piedi sulle sedie aggrappate alla staccionata divisoria a guardare gli uomini, si vedono solo le facce oltre il legno, e danno un effetto brutto, come una serie macabra di teste mozzate appoggiate su una staccionata, chissà cosa pensano e pagherei per sapere i loro veri pensieri.
Pensiamo di aver passato anche troppo tempo circondati da uomini danzanti attorno a noi e andiamo a cena. Stavolta abbiamo appuntamento con Inna, anche lei di Couchsurfing. Mi manda un sms dicendomi che possiamo vederci da qualunque parte purché non in centro né nella parte est, sembra proprio che da buona ebrea non voglia correre rischi e non ci rimane che fissare nel centro turistico israeliano.
C’è gente a giro, ma assai meno che ieri. Inna ci attende sulla via principale e ci viene incontro sorridendo. Pure lei è di origine russa, è nata a Kazan e a me sta simpatica, a Pingo invece non troppo anche perché alla fine parliamo quasi esclusivamente di viaggi sui monti del Nepal e della Patagonia e poco di Israele. Alla fine io comunque credo che la sua antipatia di lui per lei trovasse inconscia origine nel fatto che la ragazza avesse pubblicamente rinnegato le sue origini russe, ci ha infatti detto chiaramente che con la Russia non vuole più avere a che fare e che ha rinunciato ad avere anche il doppio passaporto. E per un amante della Russia come Pingo questa è una posizione insostenibile!
La mattina seguente ci svegliamo presto per andare a Nablus. Pare ci sia poco da vedere oltre al suk, ma vogliamo visitare questa città palestinese famosa per la sua resistenza ad Israele. A dire il vero c’è anche un altro motivo che ci spinge fino là, più prosaico questo ma non meno importante per noi, cioè i kunafeh, i dolcetti al formaggio fresco di capra, sembra infatti che i migliori del mondo li facciano proprio a Nablus e non possiamo non assaggiare tale prelibatezza decantata pure dagli israeliani.
Non c’è servizio diretto da Gerusalemme, prendiamo quindi un minibus per Ramallah alla porta di Damasco, poi dovremo cambiare.
Il passaggio al posto di controllo sotto l’osceno muro è rapidissimo, uno sguardo all’autista e neppure ci fermiamo. Di là invece, in direzione Gerusalemme c’è una coda enorme. Giungiamo alla piccola e sudicia autostazione e il conducente saputo la nostra destinazione ci indica il giusto bus, scassettato e fermo sulla pensilina. Montiamo ma sopra non c’è ancora nessuno e dobbiamo aspettare che si riempia per partire.
Il bus ha tre posti per fila, uno a destra e due a sinistra, io mi siedo al finestrino dietro l’autista, Pingo va nel posto singolo al finestrino dall’altra parte. Salgono persone, accanto a me prende posto un ragazzo ben vestito e molto educato, parla pochissimo inglese ma si sforza per conversare con me, è cordiale, mi dice di insegnare all’università di Nablus lingua araba, mi chiede come mai siamo in Cisgiordania. Proviamo a parlare ma è davvero troppo difficile e dopo un po’ desisto dispiaciuto perché sarebbe stato molto interessante dialogare con lui.
Il paesaggio si alterna tra verde e desertico attraversando dolci colline, poi un cartello che farebbe la felicità del nostro amico Carletto ci segnala l’arrivo a Nablus.
Il professore di arabo ci dice di scendere con lui e ci accompagna al suk, ma deve scappare presto, ha lezione ed è in forte ritardo. E’ sabato mattina e sembra che il mercato sia al culmine, tanta gente che corre, sporcizia ovunque, le persone ci guardano strane, soprattutto i bambini, non è posto da turisti questo, non c’è nulla da vedere e non capiscono cosa ci facciano due stranieri con le macchine fotografiche al collo a giro per queste viuzze affollate. Teste di pecora e di vitello fanno bella mostra sui banchi di macelleria insieme a interiora e pezzi di carne punteggiati da mosche, l’odore è penetrante, misto di spezie e sangue. Sui muri decine di manifesti scoloriti inneggianti ai kamikaze, la foto del martire e il mitra ad esaltare il gesto, la trasformazione in eroi, quasi la beatificazione di questi pazzi assassini mi disturba e sconcerta, e per principio non scatto fotografie che includano queste icone folli, farlo sarebbe quasi come accettare in qualche modo i loro gesti che non hanno alcun tipo di giustificazione.
Camminiamo persi nel suk finché affamati troviamo un localino dove assaggiamo i migliori felafel di tutto il viaggio. Pingo vista l’inattesa qualità delle polpettine di ceci vorrebbe provare anche l’hummus ma io non ho fame e desiste, da solo non ce la farebbe a finire l’enorme porzione che vediamo mettere nei piatti, lo vedo però uscire dal locale non troppo convinto della sua rinuncia. Andiamo alla ricerca del kunafeh e li troviamo in una bancarella, l’aspetto è invitante e il sapore sublime, dolce al punto giusto con il formaggio delicatissimo che si scioglie in bocca.
Non c’è altro da fare e decidiamo di comprare un paio di kefiah prima di tornare verso Ramallah. Pare impossibile ma a Nablus trovare delle kefiah è impresa ardua, in tutto il suk pochi le vendono e tutte sono care e di qualità molto bassa. Chiediamo in giro e ci indirizzano verso un negozio decentrato, una sorta di merceria che vende biancheria, camice, pigliami e tante belle kefiah. Il venditore è un buffo palestinese che mette subito in chiaro che da lui non si tratta, se ci va bene il prezzo compriamo, altrimenti andiamo altrove. Ci chiede se vogliamo quelle normali palestinesi, quelle dei comunisti, quelle di Hamas o quelle associata a un’altra sfilza di partiti il cui nome ovviamente si perde prima di entrarmi in testa. Visto che non abbiamo intenti politici ma solo estetici diciamo che vogliamo vedere quelle bianche a quadretti neri e quelle bianche a quadretti rossi, e lui: ‘Ah, bianche e rosse, siete comunisti allora!’.
Ce ne fa vedere di tutti i prezzi, entrambi ne prendiamo una classica bianca e nera stile Arafat e una da comunisti, e lui pare molto contento di questa nostra seconda scelta.
Cerchiamo il bus per Ramallah, i palestinesi sono molto gentili e prodighi di informazioni ed è facile trovarlo. In circa un’ora e mezzo arriviamo e visto che è presto decidiamo di fare due passi per il centro. La città è molto caotica e sporca, incredibilmente affollata, faccio un po’ di foto a giro, e pure qua sembra che di turisti ne passino pochi perché molti ci chiedono da dove veniamo e cosa facciamo lì. Per fortuna non vedo manifesti a glorificare i kamikaze, molti invece sono quelli che ritraggono una più simbolicamente innocua effige di Arafat.
Verso le quattro decidiamo di tornare a Gerusalemme. C’è troppa gente alla fermata del bus e pur sgomitando non riusciamo a salire sul primo. L’ultima a trovare posto è una biondina minuta, evidentemente straniera, e mi chiedo cosa ci faccia lì da sola mentre le porte si chiudono dietro i suoi capelli a caschetto. Dopo circa venti minuti arriva un altro bus e stavolta saliamo. Accanto a noi un ragazzo palestinese che ha studiato in Spagna e da poco è tornato a casa a Ramallah, sta andando a Gerusalemme a trovare la sua ragazza.
C’è coda, scendiamo dal bus e andiamo alla frontiera a piedi camminando per circa dieci minuti a fianco del muro tirato su dagli israeliani. Questo divisorio di cemento sovrastato da torrette di guardia, che infastidisce già per il solo fatto di ricordarne un altro fortunatamente crollato, è contestato molto perché prende più spazio di quanto siglato dagli accordi del 1967 che definivano una sorta di confine dei territori palestinesi, la Linea Verde, e talvolta questa fredda barriera grigia si insinua per chilometri in Cisgiordania spezzando villaggi e città. Una ragazza israeliana ci ha detto che il muro ha tagliato di netto la cittadina palestinese dove abita un suo amico arabo e ora lui per andare a trovare i genitori deve attraversare un posto di blocco posto assai distante, prima in cinque minuti a piedi andava a trovare la madre, adesso ci mette delle ore facendo un giro lunghissimo e controlli estenuanti. Lei comunque è certa che questa storia non durerà molti anni perché le abitazioni che si trovano di qua dal muro, verso Israele sono destinate inevitabilmente a essere sgomberate o abbattute, e i suoi occhi si intristiscono mentre lo dice.
Ci immettiamo in un corridoio che conduce in una stanza ampia illuminata da forti luci al neon, qua ci troviamo di fronte a una cancellata fatta di aste metalliche verticali e a una porta girevole con le sbarre di acciaio poste in orizzontale. In alto c’è una luce verde accesa e di fianco una luce rossa spenta. Il passaggio è stretto e gli spicchi di porta ampi circa sessanta gradi consentono l’accesso ad una sola persona alla volta. Poso le mani sul freddo metallo, spingo e con uno sgradevole cigolio la porta gira ruotando sul suo asse e facendomi passare.
Entriamo in un largo locale rettangolare, pareti di cemento lo delimitano ai lati, davanti e dietro sbarre d’acciaio dal pavimento fino al soffitto. Gli spazi vuoti fanno riecheggiare forte i suoni, sento colpi metallici, grida acute, gente che mormora, poi di tanto in tanto il suono di un forte beep, come una sirena smorzata, un carcere di massima sicurezza l’ho sempre immaginato in questo modo. La cancellata frontale è ampia circa venti metri e ci sono cinque uscite, tutte con le porte girevoli e separate da pannelli divisori lunghi circa otto metri anch’essi fatti di sbarre di metallo. E’ tutto acciaio e cemento.
Non vedo guardie o doganieri, solo circa trecento palestinesi a premere contro due delle cinque uscite. Gli israeliani devono essere più in là, nascosti da qualche parte, ne sento però le grida secche attraverso gli altoparlanti, come a dare ordini. Le due uscite dove la gente è ammassata, la numero Quattro e la numero Cinque, hanno accesa la luce rossa, ogni tanto questa si spenge e con un forte beep si accende simultaneamente la luce verde a fianco, segue il rumore metallico di sblocco, il cigolio dovuto alla rotazione e qualcuno passa oltre, le uscite Uno, Due e Tre hanno tutte le luci spente.
Ci mettiamo in coda alla numero Quattro, la fila bene o male scorre. Scorgo in mezzo la biondina che aveva preso il bus prima di noi, piccola, è pressata tra i corpi, avvolta da donne con il velo, uomini con kefiah e da molti altri vestiti all’occidentale. Il ragazzo spagnolo-palestinese è di fianco a noi e ci dice che dovremo avere pazienza perché passeranno delle ore. Mi stupisco perché la fila fluisce abbastanza veloce, in trenta minuti siamo già quasi a metà. Poi un annuncio che non capisco, vedo la luce rossa sopra la porta numero Quattro spengersi senza il beep e senza che la verde si accenda e tutti che corrono lasciando quella fila catapultandosi sgomitando in una delle tre che erano rimaste chiuse, la numero Due, adesso è quella ad avere la luce rossa accesa. La biondina era quasi all’uscita, fissa la luce spenta incredula e seguendo gli altri si mette ultima in coda. Anche noi siamo in fondo adesso, ma per poco perché pure la numero Cinque viene chiusa e tutti quelli che erano là si mettono dietro di noi.
Ancora beep e cigolii fastidiosi, ma li attendiamo con gioia perché indicano che si scorre, in pochi minuti passano rapide una decina di persone, poi si spengono le luci anche sulla porta Due, adesso tutti i passaggi hanno la luce spenta. Trascorrono alcuni secondi in cui non capisco cosa succede, poi un annuncio e si accendono le luci rosse sopra le uscite Uno e Tre, quelle che finora non erano state utilizzate, e di nuovo a correre e sgomitare per arrivare primi. Comincia ad essere abbastanza evidente che di là si stano divertendo, si spostano e aprono le porte in maniera alternata ed è impossibile sapere quale si aprirà e per quanto tempo rimarrà aperta. Stavolta non ci mettiamo in coda con gi altri, ci sembra inutile visto che le aperture sono brevi, ma aspettiamo alla numero Due, magari la riaprono. Mi aggrappo alla porta mentre comincio ad innervosirmi, mi viene quasi la voglia di prendere il passaporto e metterlo sotto la telecamera che mi fissa, per far vedere che non ci sono solo palestinesi là dentro e che dovrebbero smetterla di giocare con le persone abusando del loro potere.
Alcuni istanti di silenzio e poi di nuovo il beep, la luce verde, il suono secco di sblocco e il cigolio della porta che gira ci segnalano che nelle uscite Uno e Tre si scorre. Noi guardiamo in attesa dell’inevitabile, e infatti dopo pochi minuti le luci di tutte le uscite sono di nuovo spente, segue un annuncio che ovviamente non capiamo ma non deve essere bello visto che la gente attorno a noi rumoreggia e fa gesti di stizza, chiediamo al ragazzo spagnolo-palestinese che ci dice che hanno chiuso il posto di controllo. Come chiuso? Perché? Per quanto rimarrà chiuso? Lui non ne ha idea potrebbero essere cinque minuti, un ora, un giorno. Tutti aspettano, noi siamo fermi in mezzo alla sala adesso e non sappiamo davvero cosa fare. Un ragazzo inizia a battere qualcosa di metallico contro le sbarre di acciaio, ma immediatamente grida incazzate e acute di donna attraverso l’altoparlante lo fanno smettere. Passano dieci minuti e si riaccende la luce rossa dell’uscita numero Tre e tutti di nuovo a correre per arrivare primi, stavolta ci uniamo al gruppo in cerca di fuga. Scorgo la biondina, è ferma ad una porta girevole, la numero Due, quella dove ero io prima, aggrappata alle sbarre in prima posizione non si muove da lì adesso, non ha certo voglia di correre e trovarsi di nuovo in fondo alla coda, spera che prima poi la sua porta si apra e la lasci passare, è come paralizzata.
Scorriamo lenti per una ventina di minuti dal passaggio numero Tre. Un ragazzo palestinese si aggrappa alla cancellata e grida qualcosa, ma subito uno strillo di donna, metallico e fortissimo, rimbomba nelle orecchie dagli altoparlanti, lui protesta, ma un nuovo urlo ancora più forte lo fa desistere anche perché gli altri in coda gli dicono qualcosa minacciosi, probabilmente temono che il suo gesto possa avere effetti negativi su tutti. Forse hanno ragione perché dopo un attimo la luce rossa si spenge e di nuovo l’annuncio, il posto di controllo è chiuso. La gente ora rumoreggia e anche io e Pingo non ne possiamo più, un palestinese mi guarda e mi grida ‘You see Jewish! You see Jewish!’. In effetti non so più cosa pensare, o fuori è successo qualcosa di grave oppure i militari israeliani si divertono con noi, aprendo e chiudendo le porte senza regola e facendo così saltare ogni coda in modo da esasperare i palestinesi, tenendoli sempre in allerta e provocando una sorta di competizione tra questa povera gente che vuole semplicemente passare un posto di controllo (tra l’altro a loro imposto), magari solo per andare a lavoro o per incontrare la fidanzata. In questo gioco se sei fortunato puoi passare dopo dieci minuti, se hai sfortuna e scegli sempre la fila sbagliata puoi passarci una giornata qua dentro. Magari sei il primo della coda e dopo un minuto ti ritrovi ultimo dietro a duecento persone sempre più arrabbiate e a quel punto è naturale che chi può si faccia forte e cerchi di passare avanti agli altri.
Dopo mezz’ora di attesa con le porte serrate iniziamo a preoccuparci, potrebbe essere successo qualcosa di grave a Gerusalemme, in quel caso il check point potrebbe rimanere chiuso anche giorni. C’è un nuovo annuncio incomprensibile, molti a questo punto iniziano ad andare via dal dietro, per tornare a Ramallah. Rimangono non più di 50 persone, tra cui noi che non sapendo davvero cosa fare ci affidiamo al ragazzo spagnolo-palestinese che si è allontanato un po’ ma ci fa cenno di non uscire e la biondina sempre aggrappata alla sua porta, adesso ha le lacrime agli occhi, la guardo e le sorrido cercando di farle coraggio con lei che si limita a scuotere la testa fissando nel vuoto. D’improvviso un suono metallico, la luce rossa della porta numero Tre si è riaccesa, tutti corriamo per essere più avanti possibile. I Palestinesi usciti verso Ramallah provano a rientrare ma non possono, gli israeliani hanno chiuso le porte esterne adesso, dentro si scorre ma loro sono fuori e non possono fare altro che sbattere contro le sbarre e guardarci fluire verso Gerusalemme. Adesso non ci sono molte persone davanti a me e Pingo, lo spagnolo-palestinese è vicino a noi e ci dice che quasi ogni giorno è così ‘They play with us’. La biondina non si è mossa, è sempre ferma alla sua porta numero Due e fissa le sue luci spente. Sei persone passano dalla porta numero Tre, poi un annuncio e di nuovo tutto si ferma, inizia a venir voglia di prendere a manate quelli di là. La biondina si stacca dalla sua porta e si allontana pochi metri, e beffarda la luce della porta numero Due si accende, tutti corrono, pure lei, ma ormai ha perso la sua posizione. Io e Pingosgomitiamo e ci troviamo molto avanti stavolta, circa quindici persone prima di noi, la biondina è appena davanti a me, vedo che ha il passaporto irlandese, ha gli occhi rossi e lacrime le segnano le guance, le sorrido, ma guarda come nel vuoto, è terrorizzata, e pure io non sono tanto tranquillo.
Beep, luce verde e il primo passa, e si riaprono pure le porte esterne, dalla parte di Ramallah con almeno duecento palestinesi che rientrano correndo e ci premono da dietro. Voci di donna acute gridano ancora negli altoparlanti, ma si perdono sotto le grida dei palestinesi. Scorriamo, uno per volta. Io lotto nella massa disordinata davanti a me per arrivare alla porta prima possibile, facendomi spazio a forza di braccia perché anche una posizione può essere decisiva, potrebbe non essere solo un minuto in più come accade in qualunque frontiera normale, ma potrebbe pure essere un’ora o un giorno.
Noto con sorpresa che i controlli sono molto blandi, bagaglio ai raggi x, metal detector e verifica del documento oltre il vetro, come in un normale aeroporto italiano. La biondina irlandese finalmente passa. Subito dopo di lei un giovane palestinese, e io mi infilo nella porta girevole, solo in due davanti a me. Il palestinese fa l’arrogante, gli fanno mettere l’enorme valigia per tre volte nei raggi x, qualcosa non li convince, ma alla fine lo lasciano andare senza fargliela aprire. Ancora un paio di beep e tocca a me, spingo la porta girevole e metto lo zainetto sul nastro. Oltre il cristallo spesso al di là dal metal detector vedo una ragazza bionda molto carina che vedendo il passaporto italiano mi sorride e mi dice di appoggiare la pagina con la foto e quella con i timbri di ingresso in Israele contro il vetro. Posso passare oltre. Pingo è dietro di me e subito dopo c’è il ragazzo spagnolo palestinese. Quasi tre ore per uscire.
Rivedo la biondina irlandese all’esterno seduta su uno scorrimano, ha ancora gli occhi gonfi, mi avvicino e le chiedo se tutto va bene, ora sorride e mi dice ‘Now yes!’

La cena è con Irina, le raccontiamo cosa è successo e ci dice che è normale che gli i militari facciano così in quel posto di controllo, rinomatamente un po’ caldo, il sabato poi è la giornata peggiore, perché gli Israeliani se la prendono anche più comoda volendo inculcare della testa dei palestinesi l’idea dello Shabbat, la giornata del riposo ebraico, quando non bisogna avere fretta e non si dovrebbe fare nulla. Più tardi ci raggiunge Elisa, appena arrivata dalla Giordania. E’ milanese ma vive in Danimarca, alla frontiera ha avuto più problemi di me, le hanno fatto moltissime domande. Le dico ciò che ci aveva detto la bolognese incontrata a quella stessa dogana, cioè che le ragazze sole destano sospetto, perché facile preda del fascino mediorientale con tutte le conseguenze del caso. Discutiamo un po’ di queste donne occidentali che cedono al sex appeal di alcuni arabi, soprattutto dei beduini del deserto, e alcune se li sposano pure. Lei ammette che alcuni di loro sono decisamente belli e pieni di charme, abbronzati e con gli occhi azzurri, spesso li vedi a cavallo avvolti da mantelli fiammeggianti e fanno sognare, ma da lì a pensare di sposarne uno ce ne corre. Alla fine concludiamo che queste ragazze che vanno a vivere o addirittura si sposano i beduini devono avere dei problemi in patria, magari sono deluse da precedenti relazioni e si perdono nella fantasia e nell’immaginazione di storie d’amore lunghe e infinite con questi uomini del deserto, da sogno soprattutto nella loro testa.
Donne deboli e problematiche è il giudizio finale, mio, di Pingo e di Elisa.
‘E tu che ne pensi?’ chiediamo a Irina rimasta quasi estranea alla discussione, e lei un po’ imbarazzata ‘Io in realtà sono stata sposata per un anno con un beduino del deserto… Un anno e mezzo insieme e poi il matrimonio!’.
Ovvio per qualche secondo cade il gelo per la figura barbina fatta da questi tre italiani sparasentenze in vacanza, ma l’imbarazzo non ci frena, vogliamo conoscere meglio la sua storia e facciamo domande. Ci dice di averlo conosciuto durante un viaggio nel Sinai e di essere stata colpita dai sui modi gentili, dal suo suonare e cantare sotto le stelle, e poi, dopo una pausa trasognata, ammette di essere stata letteralmente travolta dalla sua prestanza fisica adeguatamente accompagnata da notevoli capacità amatorie. Si erano sposati con rito tribale e patto di sangue (non abbiamo avuto il coraggio di chiederle in cosa consistesse), ma tutto era finito quando lei si era accorta che la vita in tenda nel deserto non era proprio il massimo e oltre al piacere fisico e alle stelle c’era poco altro, quasi era arrivata a rimpiangere la gioventù siberiana sovietica. Adesso la storia era conclusa, ma ancora lei sentiva qualcosa, soprattutto un forte legame fisico, di sensi, e mentre dice queste parole è evidente nei suoi occhi il desiderio che si riaccende. E mi viene quasi da gridare: PINGOOOOO!!!! LEI NON HA RINNEGATO IL SUO PASSAPORTO RUSSO!!!!!
La mattina seguente prendiamo il minibus per Betlemme, andremo nuovamente in Cisgiordania sperando che stavolta l’uscita non ci creerà i problemi del giorno prima. Scendiamo sotto al muro e a piedi andiamo al posto di controllo, l’ambiente è molto simile a quello di Ramallah, e pure qua il passaggio verso l’esterno è rapidissimo, ci vedono e semplicemente ci accompagnano al di là della barriera. All’uscita alcuni taxi aspettano, ci accordiamo con un autista che per due euro accetta di portarci in centro. Saliamo e lui fa ‘Ma siete turisti voi? Ahhhh! Io pensavo che voi foste palestinesi!’. Questa sua esternazione subito mi indispone perché intuisco che vuol fare il furbo, due palestinesi che trattano in inglese con tassisti arabi non credo si siano mai visti e poi magari io potrei pure sembrare un locale ma Pingo proprio no. Infatti invece che in centro andiamo in una piazzola dove ci offre la lista dei sui servigi dicendoci che ci porterà qui, là, su e giù. Gli dico gentilmente che non ci interessa e che ci porti solo in piazza a Betlemme che vogliamo vedere la chiesa, e lui in risposta ‘Alla chiesa vi porto dopo, adesso la chiesa è chiusa!’. Certo, di domenica mattina alla nove! Gli dico che o ci porta in piazza lui o scendiamo e ci andiamo da soli camminando visto che sono quindici minuti a piedi. Insiste ancora un po’ ma poi cede accompagnandoci in piazza e continuando a dirci che la cattedrale la troveremo chiusa. Si offre di aspettarci, gli faccio capire che non è necessario, lui insiste e allora per levarmelo di torno gli dico che faccia come vuole ma che nessuno è vincolato a nessuno.
La chiesa è ovviamente aperta e pure qua, come al Santo Sepolcro, assai maggiore è il valore simbolico del posto rispetto alla bellezza del luogo, non essendoci però alcun gruppo di giovani russe ortodosse in pellegrinaggio religioso a colorare un po’ l’ambiente, l’interesse per il luogo scema rapidamente e dopo 3 minuti scarsi la visita della basilica ha termine. Facciamo un giretto per il paese, sembra molto turistico, la maggior parte delle bancarelle è ancora chiusa però, è ancora presto. Decidiamo di fare un salto al monte Erodus che da lontano pare bello, a forma di cono vulcanico e di certo molto panoramico. Trattiamo con un taxi che ci chiede uno sproposito per portarci in quel luogo distante non più di dieci minuti. Quando sparano cifre davvero esose facendole passare come prezzo di favore io nemmeno rispondo e poi, allontanandomi, neppure mi volto facendo finta di non sentire i tassisti che mi gridano dietro prezzi tre quattro volte inferiori di quello oltre il quale non si poteva scendere, detto magari con aria schifata a intendere ‘Ma senti questo pezzente che vorrebbe farmi lavorare per nulla!’ (per completezza di informazione avevano chiesto 40 euro per il tragitto).
Alla fine sbuca lo stesso tassista di prima e ci facciamo convincere per circa 9 euro (50 shekel) per andare al monte comprensivi di breve attesa e del ritorno fino al posto di controllo, cifra alta in effetti, ma non ho voglia di trattare e un paio di euro in più o in meno non ci cambiano certo la vita. Non facciamo in tempo a salire in auto che lui inizia a dire che il prezzo che ci ha fatto è basso e che dobbiamo dargli di più, gli dico di lasciar perdere e che l’importo è giusto, lui accosta a dei poliziotti, vuole che io vada chiedere a loro se la cifra è adeguata o troppo bassa. Mi sta facendo arrabbiare questo tizio, ‘Non voglio chiedere a nessuno! Ci siamo messi d’accordo per quel prezzo, se ti va bene ok, altrimenti scendiamo e andiamo con un altro!’. E lui se ne esce con un teatrale ‘Devi guardare nel tuo cuore e capire se 50 shekel sono un prezzo giusto, se guardi bene vedrai che me ne dovresti dare almeno cento’. Questo minchione sta esagerando penso e glielo dico in faccia, e allora lui prosegue ‘Io pensavo che gli Italiani fossero diversi, invece siete come gli ebrei, avete il cuore di pietra, un cuore come un sasso, non avete sentimenti!’. Ma vaffanculo coglione, gli dico che mi sono definitivamente rotto di sentire le sue cazzate e gli grido di fermarsi che voglio scendere immediatamente. Intanto dietro Pingo sembra sbellicarsi dalle risate. Il tassista invece di frenare accelera e non sente ragioni, e mi viene quasi voglia di denunciarlo visto che è un taxi ufficiale con tanto di numero e tesserino di riconoscimento e in pratica ci sta sequestrando. Nel frattempo lui continua a guidare ma vedendomi assai arrabbiato ha cambiato atteggiamento ed è diventato più conciliante, ora dice che gli Italiani sono meglio degli Ebrei, come se tra l’altro a me importasse qualcosa di sentire questi discorsi razzisti. Visto che non lo posso obbligare a fermarsi picchiandolo, lascio perdere e pure mi scuso per avere alzato troppo la voce. Arriviamo al monte Erodus in non più di cinque minuti complessivi e non facciamo in tempo a scendere dall’auto che lui riprende dicendo che ci metteremo oltre un’ora ad andare e tornare, e che cinquanta shekel sono davvero pochi. Lo ignoro e andiamo su. Dopo dieci minuti completiamo la visita e siamo di nuovo sul taxi diretti al posto di controllo per tornare a Gerusalemme.
Sulla strada si materializza la visione di un cartello impossibile da non dedicare a Carletko. Ci dobbiamo fermare per un paio di scatti. Mentre Pingo è in posa, una donna ci viene incontro e, strofinando pollice e medio, ci fa segno che dobbiamo pagarla perché abbiamo fatto delle foto. Ma che vada in culo pure lei che vuole soldi per aver fotografato un cartello stradale, e poi dicono che sono gli ebrei ad essere attaccati al denaro! In realtà lei pensava stessimo fotografando il suo asino legato a pochi metri dal cartello stradale, ma in ogni caso, non essendo l’asino di nostro interesse e neppure finito per sbaglio nelle nostre foto, montiamo in macchina senza darle niente con lei che ci grida contro insulti palestinesi (immagino non fossero auguri ). Sul taxi scopriamo un’altro uomo adesso, il nipote del tassista salito su mentre eravamo a fare le foto, lo dobbiamo accompagnare a casa. Fossi in un altro paese potrei pensare anche a qualcosa di poco chiaro visti i rapporti non proprio gentili con l’autista e il suo essere così venale, ma qua nonostante ciò che si dice i turisti sono sicuri. Tutti in questo paese hanno gli occhi del mondo puntati addosso e gli stranieri sono protetti.
In poco tempo siamo nuovamente a Betlemme, il nipote scende, altre due minuti e, costeggiando il muro pieno di grafiti, arriviamo al posto di controllo. Diamo i cinquanta shekel al tassista e lui rivolto a me ‘Solo cinquanta? Mi avevi detto me ne avreste dati cento’, nemmeno lo guardo o lo saluto, semplicemente me ne vado con Pingo che se la ride e l’autista a dirci cose che nemmeno mi sforzo di ascoltare. Entriamo al controllo, è simile al posto di Ramallah, ma stavolta c’è una sola coda ordinata e un’unica porta, si passa veloci, ci sono circa quaranta persone davanti a noi ma la fila scorre regolare. Anche qua c’è comunque lo stesso ambiente freddo fatto di sbarre di metallo, luci rosse e verdi che si accendono e spengono, il beep e il cigolio della porta che gira. Arriva il mio turno, metto lo zainetto ai raggi x, poi vado al gabbiotto per i documenti, davanti a me c’è un palestinese che mostra un foglio alla ragazza oltre il vetro e mette la mano su di un sensore per il rilevamento delle impronte digitali, io non devo fare niente, appena lei vede il passaporto italiano mi fa cenno di passare, senza neppure farmelo aprire. Dopo 10 secondi anche Pingo è fuori. Facciamo alcune foto al muro e prendiamo un minibus per il centro.
Andiamo a visitare la grande Moschea e ci sorprende constatare che il Muro del Pianto non è altro che una parete di sostegno per il colle dove è posta la Moschea, situata più in alto. L’ingresso è dalla piazza sottostante al Muro, quella piena di ebrei ortodossi, e si va su tramite un ponte di legno chiuso a tubo che arriva in cima alla parete aprendosi in una piazza. Qua i controlli sono serratissimi, e lo capisco, si esce proprio sulla verticale del Muro del Pianto. Prima di me viene fermato un ragazzo con uno zaino enorme, dentro ha un coltellaccio e tre lattine di birra (qua sono vietate pure quelle essendo un luogo sacro mussulmano), se vuole proseguire deve lasciare tutto ai militari e tornare a riprenderlo in seguito. Arriva il mio turno, passo lo zainetto e qualcosa del contenuto insospettisce. Mi chiedono informazioni su di una bottiglietta. Abituato agli aeroporti tiro fuori quella con l’acqua, ma non è lì il problema, sono interessati ad un’altra. Poi capisco, è quella piccola, con la mia medicina preferita. Mi chiedono se contenga alcol, io nego e si accontentano della mia risposta senza verificare. Arrivati di fronte alla Moschea mi viene però il dubbio, la prendo in mano e per la prima volta leggo attentamente l’etichetta, in basso a destra c’è scritto ‘grado alcolico 60°’, e finalmente capisco perché tutte le mattine prendo così volentieri le mie cinquanta gocce! Ma questo vuol dire che siamo a rischio fulminazione pure qua, anche nel terzo luogo più sacro di Gerusalemme, e non troppo velatamente soddisfatti per il tris involontario riuscito andiamo a fare acquisti.
Gironzoliamo l’intera giornata per la città vecchia, comprando cose inutili e assaggiando tutto quello che ci ispira. Prima di cena ci carichiamo gli zaini in spalla e gustato l’ultimo Hummus prendiamo un bus cittadino per l’autostazione centrale, dobbiamo andare all’aeroporto di Tel Aviv. Alla biglietteria ci fanno un doppio biglietto perché il bus extraurbano ci lascerà fuori dall’aeroporto, poi un mezzo locale ci porterà al terminal. Montiamo sul bus e chiediamo conferma della destinazione all’autista che annuisce e timbra uno dei due biglietti. Ci sistemiamo in fondo, è quasi vuoto, l’aeroporto è una fermata intermedia e probabilmente solo noi due siamo diretti là.
Dopo circa quaranta minuti sento l’autista dire qualcosa quasi sottovoce ma non ci faccio troppo caso, poi guardo a sinistra e vedo l’indicazione aeroporto, con noi che andiamo a destra. Sarà mica che quel grugnito stesse ad indicare che per l’aeroporto si dovesse scendere? Sia a me che a Pingo pare impossibile, siamo in dieci sul bus e l’autista sa che dobbiamo andare all’aeroporto, si sarebbe fermato. Per scrupolo comunque scorro il corridoio e vado a chiedere, e mi sento rispondere: ‘Per l’aeroporto dovevate scendere prima! Ve l’ho pure detto!’.
Scendiamo nella superstrada buia e a piedi ci avviamo all’aeroporto, ‘poco male’ dico io, ‘tanto il volo è domattina, abbiamo tempo, possiamo andare pure al terminal a piedi!’, ma Pingo, ‘Eh ma siamo in Israele, da qui al terminal ci saranno dieci controlli e arrivare a piedi dalla superstrada non farà certo una bella impressione, se poi la polizia ci vede camminare qua di sicuro ci ferma’. In effetti Pingo non ha torto e ci affrettiamo per andare verso la fermata del bus locale che avevamo intravisto prima del bivio.
Dopo pochi minuti il bus arriva, facciamo duecento metri e ci fermiamo per far salire un soldato che controlla ogni parte del veicolo, dietro i sedili e nei posti più nascosti. Nel frattempo un altro ispeziona l’esterno, soprattutto sotto e intorno alle ruote. Non si curano affatto di noi. Poi arriviamo al terminal e sorprendentemente non ci sono controlli per entrare, i metal detector e le macchine per i raggi x sono spente. Ci mettiamo in attesa, il volo è alle 5:30 e sono appena le 21. L’aeroporto è scomodissimo, sono pochi i posti dove sedersi, si vede che non vogliono gente a bivaccare. Un paio di birre e un pisolino seduti e arrivano le 2 di notte quando si apre la linea che porta al checkin del nostro volo, tra noi e i banchi vediamo una macchina per i raggi x e diversi tavoli per controlli più accurati sui bagagli.
Ci precedono circa dieci persone, un paio di ragazzi fanno domande, motivo della visita, se abbiamo conosciuto palestinesi, sfogliano i passaporti. Tocca a noi e non sembrano troppo contenti del fatto che siamo entrati nel paese dalla Giordania, chiamano un’altra persona, sembra più alta di grado, ci ripete le stesse domande e forniamo le stesse risposte. Poi chiede se siamo stati in Cisgiordania, a Nablus per esempio. E noi ‘Ma no, niente Nablus!! Però siamo stati a Betlemme!’ una mezza ammissione andava fatta. ‘Betlemme? E perché mai?’ ci guarda sospettoso. ‘Turismo religioso, siamo cristiani in pellegrinaggio e siamo andati a vedere la chiesa della natività di Gesù!’ rispondiamo tutti convinti. Ma non troppo convincenti forse, perché ci appiccica sul passaporto un tagliandino con su scritto un bel 5, che non è un bel numero. Qua infatti a seconda di quanto sembriamo sospetti assegnano dei numeri, 1 ad esempio è un rabbino con famiglia, 6 il fratello Bin Laden. Pingo sostiene che il 5 è colpa (o merito) mio e che abbiano fatto media, 3 a lui e 6+ a me, e che se invece che con lui fossi stato con il Geom.Calboni un bel 6 con annesso interrogatorio del Mossad non ce lo avrebbe levato nessuno!
Passiamo i bagagli ai raggi X e il nostro numero ci conduce al tavolo dove rovesciano l’interno di tutti i bagagli. Prima tocca a Pingo e la ragazza che si occupa di lui strofina il bastoncino per la verifica degli esplosivi dappertutto, anche sulla biancheria sporca, ma ogni cosa è in regola. Poi nota le sue Kefiah comprate a Nablus e diventa sospettosa, chiama un suo collega che inizia ‘Dove le hai prese?’ e Pingo mentendo spudoratamente, ‘A Gerusalemme in un negozio di souvenir!’ e l’israeliano ‘Sicuro che le hai comprate e che nessuno te le abbia regalate?’ ‘Sicuro!’ ‘Ok puoi rimettere la roba a posto!’. E’ il mio turno, stessa procedura con test degli esplosivi su tutto, mi viene chiesto se qualcuno mi ha regalato qualcosa e se quel che ho nello zaino è mio. Pare tutto in regola finchè trovano il mio vecchio asciugacapelli da viaggio, rotto anni prima per una caduta ma ancora funzionante nonostante i rattoppi fatti con il nastro adesivo. La ragazza va in allarme, mi chiede se la riparazione è opera mia, quando è stata fatta e se l’oggetto funziona. Ma non la convinco, chiama allora il suo collega che guarda con attenzione l’asciugacapelli pericoloso e verificato che non contenga una bomba me lo rende. Rovistando tra la mia roba trova il sacchettino nero contenente qualche minerale e delle spezie che ho comprato a Gerusalemme. ‘E questo cos’è?’ mi chiede, e io ‘Regali!’ ‘REGALI??? REGALI DI CHI? QUALCUNO TI HA FATTO REGALI?????’ ‘No no, regali per i miei amici!’ la rassicuro. Ripete comunque un accurato controllo esplosivo dentro e fuori il sacchetto e visto che il test dà ancora esito negativo mi dà il via libera.
Passiamo al checkin e poi ai controlli nell’area degli imbarchi dove il nostro numero 5 ci ributta nella fila dei sospetti, verifiche accurate a noi e al bagaglio a mano, stesse domande ormai imparate a memoria, e finalmente siamo al gate.

ANDREA SABATINI

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