Kazakhstan 2010. Da Almaty agli Altai

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“Bisogna vederli i posti, prima di giudicare”.
E noi, infatti, li visitiamo ed esprimiamo giudizi. Il più delle volte positivi.
Il Kazakhstan, immensa distesa di terra sperduta nella cosiddetta Asia centrale, stato indipendente vasto quasi come l’intera Europa, oggetto dei più semplici pregiudizi da parte della schiera di gente che ama la presunta sicurezza delle mete di viaggio classiche e che emette sentenze ed anatemi senza quasi mai muoversi da casa, è oggetto della nostra ultima missione esplorativa che insegue l’utopia di viaggiare a macchia d’olio per “ritornare in Europa passando da est”.

Dopo anni e decine di viaggi effettuati in coppia col fido Jena, alla stregua di Cochi&Renato, Boldi&De Sica, Al Bano&Romina Power, decidiamo di tentare, per una volta, la carriera solista ed organizzare due differenti viaggi, seppur con la stessa destinazione ma in tempi leggermente diversi, con distinti programmi ed una diversa compagnia.
A differenza della guerra dei “cinepanettoni”, però, nessuno dei due viaggi deve decretare il successo mediatico del’uno o dell’altro. Si tratta solo di provare esperienze diverse e vedere lo stesso luogo da due punti di vista differenti. Magari si avrà un ritratto più completo della meta in questione.
La missione che mi vede partecipe, è prodotta dal nostro Andrea S., viaggiatore di lungo corso in giro per il mondo ed annovera con noi il sempreverde Pingo, già più volte attore dei viaggi in coppia con Jena e non solo.
La meta, come rivelato, è la Repubblica del Kazakhstan, una delle ex quindici Repubbliche Socialiste Sovietiche oramai divenute autonome ed indipendenti.
I piani di viaggio prevedono un ampio giro della parte centro-orientale del paese, concordando soste nelle città e tappe in campagna che dovranno culminare in una estrema camminata sulle pendici dei monti Altai, verso la sommità del monte Beluha, la cima più alta della Siberia, ubicata giusto sul confine tra quattro stati: Kazakhstan, Rossija, Mongolia e Cina.
Per me e Pingo, il monte Beluha, fa il paio col monte Elbrus, situato nel Caucaso e considerata la vetta più alta d’Europa, sul quale abbiamo passeggiato giusto un anno fa.

Proprio sulla traversata del Kazakhstan, da sud (Almaty) a nord-est (monte Beluha) e durata ben quattro giorni, si concentrano le più alte emozioni del viaggio che mi appresto a tentare di esprimere in questo brano diviso in più parti.

Alle 18:30 di domenica 12 settembre 2010 è prevista la nostra partenza dalla città di Almaty, vecchia capitale della Repubblica del Kazakhstan fino al 1997, per raggiungere la regione dei monti Altai a circa 1500km di distanza da essa.
Con un normale bus cittadino copriamo il lungo percorso che dalla nostra gostinitsa (albergo) intercorre fino alla voksal (stazione ferroviaria) di Almaty 1, terminale dei treni in partenza per qualsiasi angolo remoto dello stato ed ubicata in periferia. La stazione 1 è più moderna e nuova rispetto alla 2, ubicata in pieno centro città e relegata oramai ad un ruolo più marginale. La zona circostante è tutto un via vai di gente con pesanti bagagli di ogni sorta, automobili, taxi, bus.Il traffico la fa da padrone.
Abbiamo ancora uno scarto di tempo prima che il nostro treno salpi e lo dedichiamo allo shopping culinario che dovrà alleviare il nostro lungo viaggio il quale, come prima tappa, prevede circa quindici ore. Una delle prime cose che ci salta agli occhi è quella che nessuno dei numerosi magazin (negozi alimentari) intorno la stazione vende delle birre in confezione da viaggio cioè in bottiglie di plastica, come è tradizione nelle varie repubbliche sovietiche. Soprattutto Pingo comincia ad andare in escandescenze e svariona in numerosi ed affrettati paragoni con la Madrepatria Russia esaltandola in fattore di civiltà. Solo in seguito apprenderemo che in Kazakhstan è vietato bere in pubblico, come in strade o sui treni, a causa della lotta all’alcoolismo perpetrata dal governo.
Mi perdo a perlustrare la zona antistante la stazione e a scattare qualche fotografia allontanandomi per qualche minuto dai miei due compagni di viaggio. Li cerco all’interno della stazione e… li intercetto al centro di un drappello di poliziotti kazakhi che li hanno fatti prigionieri e li scortano nei meandri segreti della stazione stessa.
Memore di esperienze passate negli stadi di tutta Italia ed in viaggi in altre repubbliche ex sovietiche, mi guardo bene dal costituirmi e seguo il drappello a debita distanza.
E’ buona norma che almeno uno della spedizione non incappi nella prigionia, in modo così da tessere una strategia per la liberazione degli altri e comunque per dirigere le operazioni stesse.
I due, insieme a tutto il corpo della milizia, spariscono dietro una porta.
I minuti trascorrono tra i timori di quello che potrebbe stare accadendo in quelle stanze segrete e la tensione di essere scoperto io stesso tramite un qualche particolare che potrebbe tradire anche la mia presenza.
Di solito, quando la milizia ferma per strada, se è tutto regolare lascia subito andare i prigionieri, altrimenti, se è in cerca di facile denaro, li trattiene ma evita di portarli in postazioni ufficiali in quanto essi stesso in torto con la “giustizia”. Questa volta, però, essendo stati deportati direttamente in un ufficio regolare, i dubbi e le ansie aumentano.
Trascorrono circa trenta lenti minuti per chi attende fuori, con l’ulteriore incombenza dell’imminente partenza del nostro treno.
Mi decido per un’azione estrema: contattare l’ambasciata italiana ad Astana. Il funzionario di turno mi afferma che l’unica azione possibile è quella che egli dialoghi con gli ufficiali tramite telefono. Ciò significherebbe però costituirmi io stesso.
Il tempo di decidere il da farsi e la porta si riapre.
I miei due compagni di viaggio vengono liberati.
Sono stati oggetto di una lunga perquisizione personale e di bagaglio ma alla fine rilasciati con tutti i soldi nel portafoglio.
Le stazione ferroviarie o le autostazioni di queste repubbliche sono note come ricettacolo di miliziani e per questo occorre sostarci il meno possibile e fare comunque sempre la massima attenzione. Spesse volte si è vittima di controlli inappropriati con come unico obiettivo accaparrarsi qualche spicciolo.
In Kazakhstan però, ci ricrederemo prestissimo, la milizia locale ci apparirà totalmente sotto un’altra veste, tale da non farci più quasi attenzione ma senza mai abbassare la guardia ovviamente.
Muoviamo verso il nostro vagone e ci appropriamo dei nostri posti. Viaggeremo in platskart, la classe meglio conosciuta come “ostello viaggiante”, costituita da pancacci in pelle su cui adagiarsi per la notte in un unico grande scompartimento costituito dal vagone stesso. Una sorta di open-space ferroviario: se uno scorreggia a monte la pernacchia è sentita a valle da colui il quale emana la puzza dei piedi che si è diffusa nell’aria di quello che sta vivacemente russando.
Avevo già provato questa emozione in Bielorussia.
I nostri vicini di posto più prossimi sono due vecchie callarone di qualche centinaio di chili ciascuna che cercano di abbordarci, curiose della nostra presenza e della nostra provenienza, aggangiandoci in russo stretto. In pochi minuti tutto il vagone ci conosce e le citazioni a Toto Cutugno, Adriano Celentano ed al commissario Cattani si sprecano tra i kazakhi.
Perviene l’orario della cena, tiriamo fuori i nostri poveri tozzi di pane mentre il resto del vagone banchetta con zuppe, salami, pesci secchi, insalate, yogurt vari.
Gli odori dei cibi caldi che si mischiano in maniera nauseabonda ai profumi umani che fuoriescono da ogni singolo personaggio del vagone costituiscono l’ebbrezza tipica del viaggio in questa classe.
Il konduktor, uno dei più potenti ruoli che si possa ricoprire a queste latitudini, cerca di effettuare l’affare con noi stranieri. Ad un prezzo per lui esiguo, cerca di affittarci il suo stanzino da uno come stanza privata da tre. Traffica con materassi, sgabelli, tavolacci di legno e ci offre la sua mercanzia: un letto matrimoniale per metà adagiato su una sorta di rete metallica tramite una specie di tavolo ed un lettino singolo, in alto, adattato dallo scompartimento per il bagaglio. Dopo una lunga trattativa non cediamo alle sue avances e ci accomodiamo nei nostri più comodi loculi di pelle.
Passa la milizia per controlli. Per un fortuito caso me la scampo anche questa volta ma i miliziani si dimostrano gentili e sorpresi di trovare degli stranieri su questo tragitto e su questo treno. Toto Cutugno, Adriano Celentano ed il commissario Cattani sono le uniche parole d’italiano che conoscono. Addirittura, durante la notte, ripassano più volte per assicurare la serenità del viaggio e, notando un vuoto al posto della valigia di Andrea, si allarmano pensando ad un furto. Andrea l’aveva semplicemente spostata.
Sulle rotaie traballanti da far sobbalzare di continuo il treno come ad una giostra di un luna park, emozione già vissuta in Azerbaijan, riusciamo grosso modo a dormire se non fosse per un clamoroso rumore di una mototrebbiatrice che segue il nostro convoglio ferroviario a breve distanza.
Ridestatomi, penso a Pingo quale emanatore di un così forte ronzio metallico e chiedo ad Andrea di redarguirlo per evitare che al risveglio del vagone, gli interi occupanti, lancino dei rimproveri verso noi rumorosi italiani.
“Ma quale Pingo?”, Mi risponde Andrea.
“E’ la callarona di fianco che sta gracchiando in maniera abominevole…”.
Pettinatici negli eleganti bagni, puliti e di pura porcellana finissima di cui il vagone è dotato, siamo pronti a scendere alla nostra prima destinazione designata: Ayagoz.
Dopo circa quindici ore di viaggio essendo intorno le 09:00 di mattina di lunedi 13 settembre 2010.
La città di Ayagoz si trova circa 500km a nord di Almaty.
In fase preparatoria del viaggio, Andrea è stato nominato all’unanimità Direttore degli Itinerari e, in veste di questa sua carica, ha personalmente stabilito il tragitto che ci condurrà direttamente e senza problemi sul monte Beluha. Notizie su come raggiungere gli Altai non ne sono state trovate molte in fase organizzativa, anzi praticamente niente. Solo qualche sporadico richiamo a raggiungere la città di Ust-Kamegorsk e poi da lì arrangiarsi in qualche modo.
Il nostro Direttore decide, quindi, di optare per strade alternative e tutt’altro che verificate.
Io e Pingo lo assecondiamo entusiasti perché l’operazione ci potrebbe condurre a raggiungere gli Altai per strade mai battute da un qualsiasi viaggiatore. Si tratterebbe in pratica di attraversare piccoli villaggi mal collegati tra di loro, guadare l’immenso lago Zaysan, inerpicarsi per gli altipiani al confine con la Cina. L’unico limite che ci poniamo è il tempo, visto che i nostri piani prevedono la visita anche di altre località del Kazakhstan centro-orientale.
Scesi dal treno ad Ayagoz, intuiamo che è tutto diverso da come avevamo previsto.
Ayaguz non è altro che una sorta di villaggio in mezzo al niente e non la cittadina che pensavamo.
I soliti nullafacenti tassisti abusivi in compagnia dei loro colleghi regolari ci assalgono come le cavallette facendosi la guerra tra di loro e cercando di spuntare un noleggio da parte nostra.
Cerchiamo di evitarli e fuoriusciamo dalla piccola stazione per cercare di mettere in ordine le idee. Anche perché non abbiamo una meta precisa ma solo un’idea di quello che vogliamo fare.
Nel polveroso spazio che si apre fuori la stazione, numerose Moskvitch, le vecchie automobili sovietiche del tutto simili a degli antichi modelli di Fiat, si caricano all’inverosimile di persone e bagagli e sgommano via lasciando una folta coltre di nebbia.
Con una mappa del Kazakhstan, acquistata ad un’edicola di Almaty, cerchiamo di far comprendere ai tassisti e ai nullafacenti le nostre intenzioni.
In molti si ritirano, intuendo la caducità del nostro itinerario.
Ripariamo nella dirimpettaia stazione dei bus per cercare di trovare un appiglio alle nostre teorie su come raggiungere gli Altai. Nessun bus parte per qualcuno dei villaggi che abbiamo preso in considerazione.
Un paio di tassisti perseguono nei loro tentativi ma alla fine anche essi desistono: il nostro piano è inattuabile anche a cifre spropositate.
Ci rendiamo conto del nostro errore di valutazione o comunque che inabissandoci per quella direzione da noi scelta, ci sarebbe voluta almeno una settimana se non più con il rischio di dover dormire eventualmente anche all’aperto e cambiamo i nostri piani al volo.
In soccorso ci viene il bus che, partito da Almaty, viaggia alla volta di Ust-Kamenogorsk.
Saliamo al volo e ci imbarchiamo in questo lungo viaggio di altri circa 500km su strade inesistenti.
Il pullman appare molto migliore rispetto a quelli da noi utilizzati in giro per il Caucaso russo la volta scorsa.
Ci accomodiamo sul nostro pullmanaccio di origine danese intorno le 10:00am.
Attraversiamo Ayagoz. Le strade non esistono, solo terra battuta e polverosa. Vecchie case di concezione sovietica a tre piani si alternano a case di legno con piccoli giardini. Le mucche ruminano la polvere libere come in India. I cavalli selvaggi galoppano verso l’infinito.
Usciamo fuori dal paese ma lo scenario non cambia. Anzi, si.
Non c’è una costruzione, una persona, un qualche segno di passaggio umano per chilometri a perdita d’occhio. Solo steppa e sterpaglie. Ogni tanto qualche collina all’orizzonte.
Il bus prosegue sempre diritto verso il nulla. Se non fosse per l’erba secca sembrerebbe una strada che scorre in mezzo al deserto.
Strada? Quale strada? In Kazakhstan, o almeno nella parte centro-orientale da Astana alla Cina, non esistono.
Anche l’Albania, paese con un sistema viario non altamente sviluppato, può fregiarsi di avere vie di comunicazione migliori del Kazakhstan.
Molti anni fa è stata asfaltata una striscia di terra e non è più mai stata risistemata. Il grigio scolorito dei vecchi tratti di asfalto si confonde col giallognolo- marrone della steppa. Procedere sulla “retta via” o lateralmente fuori pista non è differente, tant’è che alcuni mezzi trovano migliore incamminarsi all’esterno ed aprire nuove rotte.
In Italia come in molti altri posti siamo abituati a vedere qualcosa ai lati di una strada, una recinzione, una casa, una proprietà privata.
Qui, invece, regna la libertà assoluta. Perdersi con la vista in quegli enormi spazi aperti e sconfinati fa respirare l’ebbrezza della libertà. Osservare i cavalli sbizzarrirsi senza legami, provare l’idea di poter fare qualsiasi cose in quelle lande, correre all’impazzata, cavalcare, giocare a calcio, respirare la solitudine.
All’orizzonte vedo la nube di una possente cavalcata infinita dei cosacchi o degli eserciti mongoli. E’ un’allucinazione che mi apre le porte oniriche.
Mi risveglio nel bel mezzo di un autogrill.
Una casa in mattoni con un prolungamento adattato da un vecchio vagone ferroviario. La cucina sforna prelibatezze fatte in casa: Mahnti, Plov, Shashlik.
I bagni, come ad ogni autogrill da queste parti, sono all’esterno. Una piccola baracca con due vani monopersona su disegno delle cabine balneari dove ci si cambiava negli anni ’50 sulla spiaggia, dotate di un buco al centro. Sotto il buco una fossa contenente tutti gli escrementi solidi, semisolidi e liquidi da decenni a questa parte. Il forte odore di ammoniaca misto a merda ti attanaglia la gola. Mi immagino se mai dovesse cadere il telefono, il portafogli o qualcos’altro di valore in quella buca. Sarebbe dura scegliere se recuperare la merce o lasciarla in quella melma putriforme.
Per lavarsi le mani, se non si vuole adoperare il lavandino nella casa, sono disponibili una serie di bottiglie di plastica agganciate a testa in giù, riempiete dal fondo e stappate al bisogno facendo fuoriuscire l’acqua alla stregua di un rubinetto.
Questa sorta di autogrill in mezzo al nulla sono tipici del Kazakhstan ma qualcosa di simile si trovano anche in Armenia, nel Caucaso russo, nei Balcani. La cucina che propongono è ottima ed è un sacrilegio non approfittarne ad ogni sosta.
Il nostro viaggio nel nulla prosegue per circa sette ore, fermandoci di tanto in tanto in qualche sperduto villaggio che si materializza all’improvviso.
Alle 17:00 circa siamo nell’autostazione di Ust-Kamegorsk, conosciuta tra la popolazione di etnia kazakha come Oskemen.
Ventiquattro ore di viaggio da Almaty.
Il nostro Direttore attiva un suo canale internazionale il quale ci vende ad una coppia di giovanotti locali.
I due giovini, vengono a recuperarci alla stazione personalmente e ci conducono nella dimora di quello con il look alla Ivan Drago. L’altro, dai lineamenti tipicamente kazakhi, invece, si dimostra interessato a noi ed è sempre prodigo di domande e curiosità nei nostri confronti. Non ha mai visto degli italiani ed è allegramente esaltato. Il padrone di casa invece, si dimostra silenzioso e strano nella sua buona dimora cosparsa di Bibbie, foglietti con i Salmi, massime religiose in ogni angolo: dalla tazza del cesso al lavandino della cucina.
Per alcuni di noi trattasi di un pretino, per altri semplicemente di un ragazzo dai gusti sessuali particolari.
Per ricambiare l’ospitalità e per assecondare la fame di sapere del giovane kazakho, Andrea e Pingo si propongono di cucinare italiano.
Veloce spesa con ingredienti di fortuna al magazin sotto casa e via di pasta annaffiata da ottima birra locale.
Con nostra grossa sorpresa, i due si offrono, nonostante sia un anonimo lunedi sera ad Ust, di portarci in giro per la città in notturna. Il giro si dimostra molto deludente in quanto il duo non dimostra ampie conoscenze della città in cui vivono e, su nostre insistenze, ci conducono in una sorta di multisala con cinema, teatro, self service, caffè, unico locale aperto a loro dire ma completamente deserto. Al ritorno dagli Altai, qualche giorno dopo, mi fregerò di essere titolare della membership card di questo luogo esclusivo nel nord del Kazakhstan.
I ragazzi ci introducono una loro amica e dopo qualche chiacchierata soporifera, attraverso una lunga camminata in cui abbiamo un’idea più precisa della città, rientriamo a casa.
A votazione, io e Pingo ci accaparriamo lo strettissimo divano matrimoniale in una stanza appartata solo per noi due mentre il nostro Andrea vince un posto in camera con il pretino e non si saprà mai cosa accadrà nelle rispettive stanze.

Come da copione dei nostri viaggi, al canto del gallo, ci solleviamo dai nostri giacigli notturni, pronti a recarci all’autostazione, per poter salpare da Ust e veleggiare verso i monti Altai. Uno sguardo mattiniero dalla finestra. Il cielo è terso, il grigiore di una delle ultime albe estive irradia il condominio di classica architettura sovietica in cui alloggiamo. Il cortile sottostante adibito per metà a parcheggio, per metà a giardino per bambini, attende il nostro passaggio. Ma non è il solo ad attenderci. Un poliziotto fuma una sigaretta, passeggiando avanti e indietro, in attesa di qualcuno giusto davanti il nostro portone. L’atmosfera composta dal cielo, dall’architettura, dalla fine nebbiolina, dal silenzio dell’orario, ci cala immediatamente nella realtà di Bucarest governata dalla Securitate.
E’ chiaro, nella nostra illusione deviata, che il poliziotto attende noi. Di sicuro qualche condòmino attiguo al pretino ha tradito ed ha denunciato la presenza di stranieri in quell’appartamento. Ci accomiatiamo dal pretino dalle tendenze piuttosto spiccate e, con grande circospezione, ci buttiamo giù dalle scale cercando di sgattaiolare da una uscita secondaria ed evitare il posto di blocco. Fuoriusciti all’aria aperta, notiamo l’assenza del poliziotto e, con essa, lo svanire del nostro sogno. Quella del miliziano era giusto una nostra allucinazione o la sua presenza, per motivi totalmente differenti da quelli da noi supposti, era stata reale?
All’autostazione il torpedone con cui muoveremo in direzione delle “quattro frontiere” ci attende. E con esso tutto il suo carico di personaggi locali quali studenti, vecchie, callarone, uomini provati da decenni di fatiche, campagnoli, bagagli di tela, bustoni da far invidia al Professionista, scatoloni, cestini della spese, frutta, verdura, ortaggi. Uno sopra l’altro ma riusciamo ad occupare qualche centimetro di spazio tutto per noi. Lasciamo la polverosa stazione di Ust e scarrozziamo verso l’estremo oriente del Kazakhstan, in direzione dell’ultimo centro abitato collegato da una via di comunicazione, se così può definirsi, con il resto del paese: Katon-Karagaj.
Da ora in poi sarà l’ignoto per noi. Non sappiamo assolutamente cosa troveremo, se troveremo ed in che modo troveremo qualcosa, mossi solo dall’avido desiderio di raggiungere la nostra meta agognata: il monte Beluha al confine tra Kazakhstan, Russia, Mongolia e Cina.
Leviamo le ancore alle 8:30 di martedi 14 settembre 2010.
La strada, cosiddetta, scorre verso est, inerpicandosi per le montagne, costeggiando un ramo estremo del lago Zaysan, perdendosi tra le campagne, attraversando la steppa solitaria, rallentando alla vista di mandrie di bovini, greggi di capre, branchi di liberi cavalli selvaggi.
La sosta all’autogrill, la masticata tipica, la pisciata nella cabina all’aperto, l’accogliere nuovi passeggeri e pacchi durante il cammino, l’abbandonare alcuni degli stessi nel nulla, la splendida natura circostante, completano il nostro lungo viaggio. Otto ore e mezza per circa trecentocinquanta chilometri. Intorno le 17:00, con gli ultimi passeggeri e l’ultima paccottiglia rimasta a bordo, veniamo scaricati dall’autista e dalla giovane bigliettara all’autostazione di Katon-Karagaj.
Lo scenario che si presenta davanti ai nostri occhi è volgare ma di una volgarità mai vista prima, non per intensità come i mercati di Skopje, i vicoli di T’bilisi, il centro di Armavir ma volgare per qualità. Una volgarità densamente di campagna, avendone respirato qualcosa di simile tra le lande del Kosovo o in terra d’Albania.
L’autostazione è una bassa e piccola casa che si affaccia su una strada male asfaltata. Le rare costruzioni nei dintorni sono case di legno. Mucche transitano per la strada. Nullafacenti pseudo tassisti perdono il loro tempo nelle adiacenze. Un rigagnolo alpestre taglia la strada. Le montagne imperiose si stagliano su di noi, sul piccolo paese, sui suoi abitanti,nascondendo le ultime luci della sera e regalando una nostalgica atmosfera alla situazione in cui ci troviamo. Fin dalla partenza del torpedone, ad Ust, nessuno parla inglese o parola diversa dal russo o dal kazako.
Cerchiamo di informarci attraverso la bigliettara di un albergo o di una qualsiasi accomodazione in zona. La bigliettara del torpedone ci vende ad una vecchia la quale inizia a disquisire neanche in russo ma direttamente in dialetto autoctono. Questa volta capiamo davvero poco di cosa ci vogliono dire la vecchia, la bigliettara del torpedone ed una schiera di curiosi che si sono radunati per l’occasione intorno a noi. Un turista straniero, da queste parti, se lo ricorda forse solo il più vecchio del villaggio.
A fatica riusciamo a carpire che da qui non c’è nessun collegamento diretto per qualsiasi altro posto, Ust a parte, e per questa ragione i villani ci parlano di un fantomatico villaggio di nome Berel a circa un’ora di distanza da qui. Forse lì troveremo accoglienza e saremo comunque sulla via per il monte Beluha. Un loro conoscente, tassista per l’occasione, si offre di accompagnarci a Berel per una cifra oscena. Siamo ad un bivio essendo praticamente bloccati nell’estremo est kazako: fidarci dei paesani e rischiare di arrivare in notturna a Berel con i rischi che ne conseguono o restare a Katon con gli altrettanti rischi che ne conseguono visto che, a quanto intuiamo, non esistono alloggi per stranieri?
Andrea, il nostro Direttore degli Itinerari, opta per rischiare la carta Katon. Io e Pingo già ci vediamo ospiti per la notte di qualche coppia di buoi in una stalla locale. Inermi in mezzo al paese con le nostre valigie muoviamo a compassione i tassisti abusivi che, in gran segreto, ci indicano la retta via: un qualcosa di simile ad un albergaccio si trova nelle nostre adiacenze, anche perché la località in cui ci troviamo non è poi così grande.
Ci immergiamo tra lo sterrato stercato in mezzo a delle baracche che ospitano il bazaar del paese. La stessa architettura con cui si presentò ai nostri occhi il mercatino di Cheget, a Terskol sulle pendici del monte Elbrus. Attraversiamo un campo e ci presentiamo all’albergo. Come L’Ippopotamo di fantozziana memoria, così l’hotel non annovera ospiti forse dal lontano 1989. La stanza che ci viene offerta è a cifre impensabili a queste latitudini. Io e Pingo stiamo per capitolare, Andrea diniega il visto. La sua proposta è quella di cercare di installarci, dietro compenso, in casa di qualche paesanotto.
Al calar del sole, in uno slargo polveroso, traccheggiamo in cerca di qualche buon samaritano. I primi tentativi vanno a vuoto. La lingua, soprattutto, diventa un ostacolo. Non è facile farsi capire da tutti col nostro livello infimo di russo. La Dea Bendata, però, ci arride ben presto nelle figure di una giovane signora e di suo figlio. A stento mostriamo le nostre intenzioni e la signora sembra approvare conducendoci dinanzi l’unica palazzina in cemento ed a tre piani dell’intero paese. Madre e figlio ci consigliano di attendere e spariscono in casa. Le cime sempre innevate delle montagne nascondono gli ultimi raggi di un tiepido sole, un padre accompagna il figlio a fare la spesa a cavallo, lascia il figlio in sella a badare all’animale ed entra in uno dei rari magazin, una mucca rumina beata a pochi passi da noi, il freddo inizia a pungere, la signora si affaccia fuori il palazzo e ci concede il pass per l’abitazione. Ad una cifra esigua, un’amica della signora, ci offre spazio nella sua dimora. Non riusciremo a provare l’ebbrezza di accomodarci in una stalla ma la supposizione di Andrea era esatta, risparmieremo denari ed entreremo in stretto contatto con la popolazione locale.
L’offerta comprende anche una lauta cena su di una tavola altamente imbandita di cibarie ed innaffiata dalla solita vodka.
La signora della strada, riesce pure ad organizzarci l’escursione sul monte Beluha per l’indomani con un’auto privata.
Prima di partire non sapevamo a cosa saremmo andati incontro, avevamo il profondo ignoto dinanzi. Ora, invece, tutto volge per il meglio.
Anche l’incontro con uno pseudo maestro di inglese di circa vent’anni, convocato dai nostri ospiti ed intervenuto direttamente dai campi che si trascina dietro uno stuolo di giovanotti curiosi, i suoi alunni li definisce, e che parla un inglese ai livelli del nostro russo. Dopo alcuni minuti, intuìto che è più facile comunicare in lingua slava, ci accomiatiamo dal giovanotto.
E’ mercoledi 15 settembre 2010.
Le greggi sono già uscite al pascolo e giunge il tempo di levarci in piedi. L’agognato monte Beluha ci attende. Giù per strada incontriamo la nostra signora mentore e la seguiamo nel silenzio mattutino tra le stradine del paese. Raggiungiamo una caserma. Per ataviche ragioni, diffido dell’operazione e resto guardingo. Un piccolo ufficio con due impiegate ed il Superiore della caserma ci accolgono. Intuiamo trattarsi di una qualche istituzione equipollente alla nostra Guardia Forestale. Le solerti e giovani impiegate ci fanno compilare dei moduli, si fanno pagare una minima tassa e ci lasciano firmare il registro delle presenze. L’ultimo turista precedente la nostra visita risale a giugno, circa tre mesi prima, ed a vista i nomi segnati sull’intero registro sono comunque tutti di origine russa o kazaka. Espletate le formalità di rito, la nostra signora intercede presso il suo amico Superiore forestale e costui ci apre le porte del piccolo museo di montagna. Poster, animali impagliati, rami secchi riempiono la stanza adibita ad esposizione.
Una jeep, un vecchio fuoristrada Uaz color verde militare strombazza all’esterno. E’ il nostro autista, Rogi un giovanissimo kazako di Neanderthal, che attende galvanizzato la giornata fuori dall’ordinario che andremo a vivere. Siamo pronti a salpare, noi tre dietro, Rogi alla guida, nientemeno che il Superiore a latere.
Sgasiamo tra le stradacce del paese verso l’infinito. Ci lasciamo il polveroso abitato alle spalle e corriamo verso le cime delle montagne. La strada corre nel nulla tra buche, steppa, animali ed il rumore del motore sotto sforzo. Lunghi minuti di silenzio accompagnano il nostro viaggio.Trascorre un’ora circa attraverso la natura semi incontaminata, Rogi accosta in una sorta di piazzola e carica il mezzo sopra un piedistallo di cemento. Lui ed il Superiore annaffiano di acqua il radiatore ed innescano le marce da off road. Ci chiediamo il perché ma la risposta non si farà attendere. La guida riprende e dopo pochi minuti ci imbattiamo in un passaggio a livello, dopo il quale la strada o quello che le assomiglia, termina improvvisamente. Sostiamo davanti il passaggio al livello che si rivela in realtà un posto di blocco militare, è il posto di frontiera dei “quattro stati”.
Da questo punto in poi la strada ed il mondo civile sono solo un lontano ricordo e, essendoci l’impossibilità oggettiva di organizzare un punto di dogana sulla cima delle montagne, il mondo viene fatto convenzionalmente finire qui all’inizio della salita. Mitragliatori in mano, i miliziani ci controllano i documenti ma è pura formalità visto l’alto spessore della personalità che ci accompagna. La sbarra si alza, l’Uaz sgomma verso il camel trophy a cui sin da bambino sognavo di partecipare. Sullo sterrato affrontiamo i pochi chilometri che ci separano dal fantomatico villaggio di Berel. Le zone rurali dell’Albania o della Romania sono un miraggio a confronto. Le strade non esistono, le case sono capanne di legno, mucche, capre, cavalli, bambini sguazzano all’unisono, la gente si muove in sella ai cavalli o a piedi, inermi zappatori si riposano dalle prime fatiche odierne. Persino il termine “volgarità” qui limita il suo significato fino ad un certo punto.
Le nostre due guide fanno rifornimento di vodka nell’unico magazin del villaggio e siamo pronti a ripartire. E pensare che la sera precedente, a Katon, c’era chi insisteva per farci trascorrere la notte qui a Berel. Ma dove? Le stalle sarebbero state un lusso.
Annaspando ci fermiamo in mezzo al nulla, giusto una mandria di cavalli si sollazza nelle adiacenze ed un toro ci osserva da qualche metro.
Le nostre due guide ci iniziano alla vodka alle 10:00 di mattina. E’ sconvenevole non accettare. I fumi dell’alcool sgomberano le timidezze ed anche gli ostacoli delle lingue differenti. In pochi minuti, tra brindisi e risate, il clima diviene altamente amichevole. Tanto che i due nostri anfitrioni ci preparano una sorpresa.
Sconquassiamo tra la foresta, viriamo a sinistra fuori dal sentiero maestro, guadiamo un fiume su un pontaccio amatoriale di assi di legno e ci imbattiamo in cinque, contate, case di legno ubicate nel posto più sperduto dell’intero pianeta. Almeno per le nostre esperienze.
Non c’è mappa o indicazione che identifichi la frazione. A parte un cartello che indica la scritta: Kara Ajryk. Si provi ad immettere il nome su internet, si veda cosa ne esce fuori.
La jeep accosta davanti lo steccato della prima baracca ed una giovane donna dai tratti tipicamente kazaki, esce sulla soglia della capanna.
Ci accoglie gentilmente nella sua umile dimora composta da due stanze: una cucina-soggiorno-sala da pranzo ed una cemeretta da letto.
Sui muri poster di paesi esotici ingannano la posizione geografica in cui siamo ubicati. Una stufa in muratura funzionante a legna riscalda il tè che ci viene offerto corretto con l’immancabile vodka. Davanti il letto, una console con numerosi prodotti femminili per la bellezza e la cura del corpo.
Vanità o lavoro? Il dubbio ci sorge quando, il Superiore, ci invita ad allontanarci da casa ed attenderlo per una mezz’ora circa.
Possibile che si tratti di una puttana a queste latitudini? Il dubbio persiste quando anche Rogi ci chiede se siamo interessati all’articolo.
Ci accomiatiamo dalla casa e ci incamminiamo in visita alle restanti quattro case.
Due donne fanno il bucato nel lavandino situato all’esterno dei loro tuguri visto che nessuna casetta possiede il bagno all’interno.
Ora è estate ma a -40° in inverno come si fa?
Alcuni bambini giocano sgomitando nell’erba mentre alcuni abitanti ci spiano dalla finestre chiedendosi chi mai saranno e da dove arrivano questi tre marziani catapultati in un simile scenario bucolico?
L’aria pura e fresca, mescolata alle fragranze tipicamente rurali delle vacche presenti sull’unico sentiero calpestabile ci fa rendere conto che siamo lontani dal mondo, siamo un altro mondo, un mondo totalmente differente da quello cui siamo abituati quotidianamente. La sensazione di benessere ci pervade, resterei fermo in questo posto isolato per un’altra settimana. Ed invece Rogi ed il Superiore strombazzano dal fuoristrada già in moto e ci riportano alla nostra gita. Ci inerpichiamo arrancando su per il sentiero di montagna, tortuoso, denso di voragini, massi, arbusti, sobbalzando sul sedile per gli scossoni e sbattendo le nostre teste sulla capotte del vecchio ma possente mezzo che ci trasporta.
Il Camel Trophy in terra kazaka resterà per sempre indelebile nei nostri ricordi. 100 chilometri, cinque ore di viaggio in condizioni estreme ma restiamo appagati dalle emozioni forti e dalle montagne spettacolari che attraversiamo.
Nelle prime ore del pomeriggio raggiungiamo finalmente Rahmanovskie Kluchi, estremo villaggio con qualche forma di vita e inspiegabilmente sede di un famoso sanatorium, già in voga ai tempi dell’Urss, dove venire a svecchiare a e rilassarsi fuori dal mondo. Il sanatorium si presenta moderno con le sue dacie indipendenti, la sua pulizia, il suo bellissimo lago che si estende cristallino tra le cime delle montagne. Il tutto si contrappone alle adiacenti pochissime casette di legno del villaggio che lo ospita e lascia esterrefatti su come da tutte le parti dell’Unione Sovietica ieri e dal Kazakhstan oggi, la gente riesca a raggiungere questo posto ai confini della realtà.
Salutiamo l’orso catturato nei boschi ed oramai mascotte del sanatorium e ridiscendiamo verso Katon Karagaj.
Altre cinque ore di Camel Trophy in discesa sterrata e col buio non ce le leva nessuno. Rogi è esaltato dalla vodka che continua a scolarsi dalla mattina e guida all’impazzata, dando quasi l’impressione di farlo ad occhi chiusi a volte. Evitiamo mucche, cavali, alberi, macigni, saltiamo su gradini di pietra, superiamo il bivio per la puttana, non incontriamo anima viva fino a Berel, anzi neanche lì visto che i pochi abitanti sono tutti chiusi in casa con le fioche luci, spolveriamo tra le bettole, non ci fermiamo neanche al posto di controllo della milizia, una chiamata con la radiotrasmittente e le sbarre si alzano a vista, sosta al volo sul piedistallo per togliere le marce da off road e via verso Katon.
Siamo sotto la nostra abitazione alle 20:00 circa di sera. Dodici ore dalle forti emozioni.
Il Superiore ci saluta e si accomiata dalla compagnia, Rogi è su di giri e ci invita a bere a casa sua. Non gli capiterà forse mai più di imbattersi in degli stranieri nel suo paesino. Accettiamo di buon grado l’invito ma prima dobbiamo avvisare la signora che ci ospita e che ci attende per la cena.
La tavola è già imbandita alacremente. “Dieci minuti e torniamo, padzjialusta”, la avvisiamo. Tanto Rogi, scopriamo, abita al piano di sotto.
Ci incamminiamo per le scale, un signore dai tratti tipici di questi luoghi ci incrocia in senso opposto, alza lo sguardo, ci osserva, resta sbigottito nel vederci uscire da quell’appartamento. Rogi ci aspetta e non facciamo tanto caso a questo incontro casuale.
In casa del nostro autista una bottiglia di vodka viene scolata, una marea di cazzate in italrusskij vengono sparate. Ma la signora ci aspetta.
Salutiamo calorosamente Rogi e risaliamo le scale. La porta è socchiusa. Entriamo. La tavola è stranamente dismessa e della nostra signora nessuna traccia. L’uomo kazako della scala si materializza davanti a noi con il viso completamente smosso dal nervosismo. La situazione è tesa, intuiamo il pericolo. L’uomo attacca in russo, facendoci accomodare allineati sul divano ed apre con una ramanzina dalla quale riusciamo ad estrapolarne l’essenza. Quella è casa sua, quella è sua moglie e noi chi cazzo siamo e soprattutto cosa facciamo lì?
Le nostre valigie devono essere pronte all’istante, egli stesso si premurerà di accompagnarci nell’unico albergo presente.
Il copione della serata però presenta numerosi colpi di scena.
Appare una donna che si rivela essere una poliziotta. Altro che stanza d’albergo, questa notte dormiremo in galera nel recondito villaggio di Katon Karagaj. Veniamo introdotti nella locale caserma e portati in uno stanzino. La situazione è calma ma potrebbe volgere al peggio. Ci vengono fatte domande e controllati i documenti mentre un via vai di poliziotti sfila a vedere gli animali da circo appena catturati. Nessuno di loro ha mai visto uno straniero.
La tensione si accumula ma, con un nuovo colpo di scena, DJ Smash la stempera. Dal cellulare di un poliziotto parte la suoneria di una delle mie canzoni russe preferite, la riconosco alla prima nota ed il miliziano, altamente stupito, inizia a guardarci con occhi benevoli.
Nonostante ciò siamo ancora trattenuti nella stanza senza un reale motivo. Ma un ulteriore colpo di scena è dietro l’angolo.
All’improvviso ecco apparire Rogi, il nostro autista. E’ stato prelevato direttamente a casa dai miliziani e, in una specie di confronto visivo, con la sua testimonianza non si sa su che cosa, ci scagiona. Rogi firma dei documenti e viene fatto sparire di nuovo. A questo punto anche noi siamo liberi ora ma per non avere ulteriori guai, la poliziotta ci ammonisce non di fare comunella con Rogi l’ubriacone. Per fortuna non sa che, insieme a lui, oggi abbiamo già dato…
Fuoriusciamo dalla stazione di polizia e nel buio ritroviamo il marito che, con i nostri bagagli nella sua auto, insiste per accompagnarci nell’albergo adiacente. Proviamo a rifiutare il passaggio, essendo oltretutto l’hotel a pochi metri ma intuiamo che è meglio soprassedere. Il marito, come supposto, inforca invece una strada scura e comincia a fare un discorso con una richiesta finale di danaro. Iniziamo a preoccuparci seriamente essendo suoi prigionieri in auto. Cerchiamo di confutare le sue richieste ma ci conduce in un campo aperto e senza luci. Solo il flebile chiarore della luna ci illumina. La situazione potrebbe evolversi in senso drammatico: in un campo isolato, di notte, senza luce, in culo al mondo, con un marito incazzato che potrebbe tirar fuori chissà quale arma. Schizziamo repentinamente fuori dall’auto e cerchiamo di riappropriarci dei nostri bagagli rinchiusi nel cofano. Ci riusciamo mentre il marito fruga nella sua auto alla ricerca di qualcosa, una pistola forse? Non trova quello che cerca ma prende in mano un possente bastone, “o la borsa o la vita”.
Gli attimi sono convulsi ma riusciamo a mantenere la calma. Iniziamo a scappare alla cieca nei campi, sul terreno sconnesso e tra gli arbusti, il buio è totale. Pingo cade in una fossa si rialza ma raggiunge una staccionata, lancia il bagaglio dall’altra parte e si inerpica sul muro di legno. Lo stesso fa Andrea ma i due si impigliano, il marito arriva.
Ma…il colpo di scena è dietro l’angolo.
Alcuni cani, sentiti i rumori, iniziano ad abbaiare e, dalla vicina gostinitsa, fuoriescono i guardiani che, non possono vederci ma sentono le voci. Il marito lancia via il bastone, ritorna sui suoi passi, e scappa via in auto. Noi riusciamo, finalmente, a superare la staccionata e a ritrovarci davanti il cancello laterale dell’hotel. Scavalchiamo anche quello con i guardiani che ci guardano esterrefatti. Temiamo una loro reazione verso tre “ladri” ma invece si limitano a chiederci: “Ma perché entrate in questo modo? L’ingresso è quello”. “Scusateci, non l’avevamo visto”, risponde un serafico Pingo.
Una risata liberatoria ci pervade.
E’ circa mezzanotte. Ci appropriamo della nostra stanza. Abbiamo vissuto una giornata dalle tinte forti: il Camel Trophy, la natura incontrastata, il confine dei “quattro stati”, il Superiore, l’autista ubriacone, la vodka, la puttana, la moglie, il marito incazzato,la sosta in caserma, l’inseguimento nei campo, i numerosi colpi di scena che si susseguono.
Tutto come un film. O forse davvero ci siamo immaginati tutto?
Sul tavolino della nostra stanza, una chiave ci riporta alla realtà. E’ la chiave di casa della signora. Nella confusione ce la siamo portata dietro.
E’ tutto vero quello che abbiamo vissuto.
L’indomani mattina, alle 6:00 di giovedi 16 settembre, ci imbarchiamo sul bus che ci riporta ad Ust.
Presa oramai confidenza, effettuiamo un giro più largo attraverso i campi per evitare la furia omicida del marito e per abbandonare la chiave della sua casa, che il nostro Direttore degli Itininerari, Andrea in persona, si premura di seppellire nella terra.
Addio Katon. Il luogo che ha regalato le più intense emozioni di qualsiasi altro mio viaggio.

LUCA PINGITORE

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