La Repubblica del Kazakhstan, è una delle ex quindici Repubbliche Socialiste Sovietiche, facenti parte dell’URSS, ed oramai divenute autonome ed indipendenti. Lo stato in questione è un’immensa distesa di terra sperduta nella cosiddetta Asia centrale, stato indipendente vasto quasi come l’intera Europa che si estende dal mar Caspio sino alla Cina. La nostra esplorazione prevede un ampio giro della parte centro-orientale del paese, concordando soste nelle città e tappe in campagna che dovranno culminare in una estrema camminata sulle pendici dei monti Altai, verso la sommità del monte Beluha, la cima più alta della Siberia, ubicata giusto sul confine tra quattro stati: Kazakhstan, Russia, Mongolia e Cina.
La prima tappa del nostro viaggio comincia inevitabilmente dalla sua capitale Almaty, o meglio, ex capitale.
Nel 1997, infatti, il presidentissimo Nazarbayev, in carica sin dal 1990, decide di approvare un mastodontico progetto architettonico che porterà alla graduale costruzione di una nuova capitale, ubicata nel cuore dello stato: Astana.
La terra viene estirpata al deserto ed imponenti e futuristiche costruzioni iniziano a sorgere, sulla base di piani ed idee affidati ad i più grandi architetti mondiali, tra i quali l’inglese Norman Foster, i quali prestano la loro opera d’ingegno alla realizzazione di una clamorosa cattedrale nel deserto, la città fantasma di Astana, appunto.
Le imponenti costruzioni che compongono la nuova città, sulla falsariga di Dubai, Brasilia, Las Vegas richiamano tutte a simboli della tradizione kazakha e musulmana. Palazzi ministeriali, uffici, moderne residenze e poi altisonanti centri commerciali con piste di pattinaggio ed attrazioni varie nei suoi interni, il gigantesco Palazzo Presidenziale, sorvegliato dall’esercito armato tramite un sottile canale di mimetizzazioni e videocamere, l’enorme Viale con i monumenti che richiamano all’Islam ed ai miti delle prime tribù kazakhe, Le Porte dell’Oriente, i ponti in stile San Francisco che collegano le varie sponde dei canali deviati dal letto originario del fiume Ishim, la futuristica Università eretta a forma di anfiteatro, la Piramide sede della Casa Mondiale delle Religioni, tutto emana fascino e lusso.
Anche il Bayterek, la Torre che si staglia imperiosa per 105 metri nel centro città, ed assunto a simbolo dell’intero Kazakhstan emana un fascino particolare. Più lo osservi, più ti senti catturato da una forza misteriosa che te lo fa apprezzare di giorno e di notte quando un gioco di luci lo ricopre dei colori dell’arcobaleno. Sarà la sua inutilità, sarà l’energia che promana dal calco della mano del Presidente Nazarbayev, la cui leggenda vuole regali desideri e vigore a colui poggi la propria di mano nel solco tracciato ma l’effetto è ipnotico.
Passeggiando per questa sintesi di modernità assoluta nel cuore dell’Asia Centrale, ci si accorge ben presto che i lustrini e le faraoniche costruzioni in realtà, ben poco custodiscono al suo interno. Sembra di trovarsi in una località apocalittica, dove rare sono le forme di vita ma dove ancora sono conservati gli sfarzi materiali di un tempo oramai passato. Tutta la nuova Astana esula completamente dalla vecchia Astana, città di concezione socialista con le sue utopie e contraddizioni ma soprattutto risulta altamente in contrasto con il resto del paese asiatico dove mancano quasi per intero le infrastrutture nonostante la città sia presentata come fiore all’occhiello e rappresentante di un benessere generale della Repubblica che spesso resta solo espresso sulla carta o sulle fotografie turistiche della sua capitale.
Astana rappresenta per noi, per il nostro giro, la tappa finale di un viaggio che resterà per sempre indelebile nelle nostre memorie.
L’affabilità della gente, mossa dalla curiosità verso noi rarissimi turisti, le continue espressioni di amicizia, gli inviti benevoli a bere della vodka, a danzare con ottuagenarie signore nei ristoranti tradizionali, a colloquiare per strada con gentili fanciulle dai tratti somatici finemente piacevoli, le attenzioni alla nostra sicurezza da parte di solerti agenti della milizia che, in barba alle tradizioni di altri paesi di area ex Urss, si mostrano in tutta la loro gentilezza, rendono l’atmosfera di questi luoghi indimenticabile.
Come le note di Toto Cutugno, di Adriano Celentano o i frammenti video del Commissario Cattani che lotta contra la Piovra e ci sono da tutti ricordati non appena viene tradita la nostra italianità.
Il nostro viaggio comincia da Alma-Ata, dicevamo.
Il tempo ed il mutare della situazione politica del paese ha mutato molte cose ma non tutte. Anzi, forse l’unica cosa davvero differente, oltre all’inevitabile ondata di modernità che ovviamente è soffiato fin quaggiù, è il nome della città, trasposto in un più kazako Almaty, considerato la linea politica e culturale di far diventare la Repubblica sempre meno russofona e sempre più in linea con le antiche origini kazake. Il passo sarà molto lungo e si spera indolore.
Almaty si presenta come una trafficata e caotica città a metà tra il socialismo che fu ed il moderno che incombe. Classici condomini uniformi si alternano a nuovi grattacieli creando, osservata dall’alto della collina panoramica, una sorta di effetto misto. Le chiese ortodosse, l’immancabile Memoriale ai caduti della Grande Guerra riportano alla cultura russa ed alla tradizione sovietica. L’enorme distesa in cui si dipana il mercato, invece, richiama alla classica confusione asiatica mista alla solita volgarità popolare che è presente comunque anche nelle campagne dell’Est Europa in generale. Lo struscio pomeridiano sull’Arbat, la via pedonale, ed il tour nelle decine di locali notturni, aperti a tutte le ore, per giovani e meno giovani, è il chiaro esempio che ci troviamo assolutamente in una località in linea con le tendenze europee.
Nel nostro itinerario verso gli Altai, dopo un lungo viaggio notturno in treno, giungiamo alla stazione di Ayagoz una sorta di villaggio in mezzo al niente e non la cittadina che pensavamo. Nel polveroso spazio che si apre fuori la stazione, numerose Moskvitch, le vecchie automobili sovietiche del tutto simili a degli antichi modelli di Fiat, si caricano all’inverosimile di persone e bagagli e sgommano via lasciando una folta coltre di nebbia. Prendiamo un bus che, partito da Almaty, viaggia alla volta di Ust-Kamenogorsk.
Le strade non esistono, solo terra battuta e polverosa. Vecchie case di concezione sovietica a tre piani si alternano a case di legno con piccoli giardini. Le mucche ruminano la polvere liberamente. I cavalli selvaggi galoppano verso l’infinito. Non c’è una costruzione, una persona, un qualche segno di passaggio umano per chilometri a perdita d’occhio. Solo steppa e sterpaglie. Ogni tanto qualche collina all’orizzonte. Il bus prosegue sempre diritto verso il nulla. Se non fosse per l’erba secca sembrerebbe una strada che scorre in mezzo al deserto. Regna la libertà assoluta. Perdersi con la vista in quegli enormi spazi aperti e sconfinati fa respirare l’ebbrezza della libertà. Osservare i cavalli sbizzarrirsi senza legami, fa provare l’idea di poter fare qualsiasi cose in quelle lande, correre all’impazzata, cavalcare,respirare la solitudine.
Sosta all’autogrill.
Una casa in mattoni con un prolungamento adattato da un vecchio vagone ferroviario. La cucina sforna prelibatezze fatte in casa: Mahnti, Plov, Shashlik. La cucina che propongono è ottima ed è un sacrilegio non approfittarne ad ogni sosta. I bagni, come ad ogni autogrill da queste parti, sono all’esterno. Una piccola baracca con due vani monopersona su disegno delle cabine balneari dove ci si cambiava negli anni ’50 sulla spiaggia, dotate di un buco al centro. Per lavarsi le mani, se non si vuole adoperare il lavandino nella casa, sono disponibili una serie di bottiglie di plastica agganciate a testa in giù, riempiete dal fondo e stappate al bisogno facendo fuoriuscire l’acqua alla stregua di un rubinetto.
Da Ust Kamenogorsk, costeggiando un ramo estremo del lago Zaysan, giungiamo a Katon-Karagaj. Da ora in poi sarà l’ignoto per noi. Non sappiamo assolutamente cosa troveremo, se troveremo ed in che modo troveremo qualcosa, mossi solo dall’avido desiderio di raggiungere la nostra meta agognata: il monte Beluha al confine tra Kazakhstan, Russia, Mongolia e Cina.
Le cime sempre innevate delle montagne nascondono gli ultimi raggi di un tiepido sole, un padre accompagna il figlio a fare la spesa a cavallo, lascia il figlio in sella a badare all’animale ed entra in uno dei rari magazin, una mucca rumina beata a pochi passi da noi, il freddo inizia a pungere. Ci aggiriamo tra le baracche che ospitano il bazaar del paese.
Muoviamo in direzione monte Beluha. La strada, cosiddetta, scorre verso l’estremo est, inerpicandosi per le montagne, perdendosi tra le campagne, attraversando la steppa solitaria, rallentando alla vista di mandrie di bovini, greggi di capre, branchi di liberi cavalli selvaggi.
Le strade non esistono, le case sono capanne di legno, mucche, capre, cavalli, bambini sguazzano all’unisono, la gente si muove in sella ai cavalli o a piedi, inermi zappatori si riposano dalle prime fatiche odierne. Persino il termine “volgarità” qui limita il suo significato fino ad un certo punto.
Ci inerpichiamo arrancando su per il sentiero di montagna, tortuoso, denso di voragini, massi, arbusti, sobbalzando sul sedile per gli scossoni e sbattendo le nostre teste sulla capotte del vecchio ma possente mezzo che ci trasporta, superando blocco militare, il posto di frontiera dei “quattro stati” ubicato dove il mondo viene fatto convenzionalmente finire, qui all’inizio della salita verso la vetta. Mitragliatori in mano, i miliziani ci controllano i documenti. Ricomincia la salita off road. Giungiamo finalmente a Rahmanovskie Kluchi, estremo villaggio con qualche forma di vita e sede di un famoso sanatorium, già in voga ai tempi dell’Urss, dove venire a svecchiare a e rilassarsi fuori dal mondo.
Il sanatorium si presenta moderno con le sue dacie indipendenti, la sua pulizia, il suo bellissimo lago che si estende cristallino tra le cime delle montagne. L’aria pura e fresca, ci fa rendere conto che siamo lontani dal mondo, siamo un altro mondo, un mondo totalmente differente da quello cui siamo abituati quotidianamente. La sensazione di benessere ci pervade, molte ore di viaggio in condizioni estreme ma restiamo appagati dalle emozioni forti e dalle montagne spettacolari che attraversiamo. E dalla vista dell’imperiosa cima del monte Beluha.
LUCA PINGITORE & ANDREA SABATINI
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