Il 17 febbraio 2008, da Lubiana dove io ed altri due compagni di viaggio ci trovavamo quel giorno, venimmo a conoscenza dalla radio slovena della proclamazione unilaterale d’indipendenza del Kosovo e Metochia dalla Serbia. Dal nord di un paese che comunque da una ventina di anni non esisteva già più, apprendemmo quindi dello sgretolamento definitivo di quella che era stata la Federazione Jugoslava.
Avevamo girovagato in diverse occasioni gli stati che erano sorti da quello smembramento, di conseguenza sentimmo subito l’impulso di recarci in visita nell’ultimo lembo di terra che sostanzialmente se ne andava e che ancora non conoscevamo da vicino.
Non trascorsero quindi neanche un paio di mesi che eravamo già in quello che in seguito ad un drammatico percorso storico caratterizzato da una cruenta guerra era oramai diventato Kosovo.
Un processo di indipendenza che risulta tuttavia ancora oggi incompleto a causa del non riconoscimento, dalla Serbia ovviamente ma anche da una parte della comunità internazionale, della sua separazione che mantiene giocoforza la situazione nell’area ancora molto calda. Sia per le gravi contrapposizioni etniche tra i due popoli presenti sia per gli ovvi giochi geopolitici di diversi attori anche e forse soprattutto esterni.
Nei giorni del quel nostro primo viaggio il paese era comunque ancora amministrato dalla missione UNMIK dell’Onu tanto che come timbro d’ingresso fu apposto sui nostri passaporti la sigla della missione stessa.
Non c’erano turisti, l’energia elettrica saltava di continuo venendo così messi in funzione dove possibile i generatori, per le strade si incontravano plotoni o squadre di militari armati di varie nazionalità, diversi erano i check point sparsi per il paese ed a guardia dei monasteri ortodossi, in giro ci imbattevamo in camionette dei carabinieri, notavamo simpaticamente carri armati agli autolavaggi.
Questa era la situazione che si presentò ai nostri occhi. Con la drammatica tensione tra albanesi e serbi più che palpabile.
I primi sconsigliavano veementemente di recarsi nelle aree ancora abitate dai secondi per non mettere a rischio la nostra incolumità. I secondi eliminavano o occultavano dalle loro auto qualsiasi simbolo (targhe, insegne taxi, ciondoli) che potesse tradire la propria appartenenza etnica e con riluttanza si spingevano fino ai margini territoriali di propria influenza salvo scappare poi via nel minor tempo possibile.
A metà del ponte sul fiume Ibar che separa la stessa città in due parti, Mitrovice lato albanese, Kosovska Mitrovica lato serbo, i soldati francesi addetti al controllo ci accolsero con grosso stupore misto a sospetto. Prima di lasciarci oltrepassare quel confine in un territorio già di frontiera ci pensarono alcuni minuti ma poi vollero credere al motivo dichiarato della nostra presenza. “Tourists… why not?…” e titubanti ci fecero transitare verso il lato serbo.
Attraversata la seconda metà del ponte ci recammo diretti nel bar ubicato sullo slargo prospiciente. I tavolini del “Dolce Vita” erano, e lo sono tutt’ora, un ottimo punto d’ osservazione sul fiume e sul ponte.
Ai tempi, secondo le nostre informazioni, il locale era una sorta di copertura, una “zona neutra”, un centro franco internazionale di incontri e affari. Respirammo quindi una atmosfera da Berlino divisa tra DDR e RDT durante gli anni della “guerra fredda”. Ci gustammo quello storico cappuccino con calma balcanica e riprendemmo poi il nostro peregrinare.
Eravamo tra i primissimi viaggiatori nell’area e di conseguenza guardati spesso con incertezza.
Era il 2008, era da poco Kosovo ma era ancora UNMIK.
E’ il 2024. Il bus partito da Tirana attraversa la frontiera con il Kosovo dopo aver effettuato un unico controllo passaporti. Dalla “Terra delle Aquile” si transita nella “Piana dei Merli” praticamente senza soluzione di continuità. Per molti aspetti l’idea della Grande Albania che prevede l’unione del Kosovo all’Albania è già in atto. Ma questo lo si naturalmente evince dalla presenza etnica albanese nella quasi totalità del territorio, dalla lingua comune, dalle usanze uniche, dalle bandiere albanesi che quasi ovunque accompagnano quelle kosovare. Una bandiera, quella del Kosovo, molto simile a quella dell’altro stato balcanico assemblato sulla carta dalle ceneri di una guerra e che presenta diverse analogie in comune: la Bosnia Herzegovina. Entrambe le bandiere, decise anche queste a tavolino, nelle intenzioni simboleggerebbero le etnie presenti all’interno di un ideale europeista.
Ed il Kosovo si trova già nello status di candidato all’ingresso nell’Unione Europea e con l’utilizzo sin da subito dell’euro come moneta in corso ma la sua ammissione resta una questione ovviamente ancora molto lunga e tortuosa nonostante comunque l’UE sia già presente con vari uffici tra i quali spiccano quelli dell’EULEX.
D’altronde, sotto molti aspetti, è ancora una zona sostanzialmente in stato di guerra e per questo anche la presenza delle Nazione Unite è molto attiva tramite diversi progetti non ultimo quello che mantiene aperta in ambito militare la già citata missione UNMIK, seppur in maniera più ridotta rispetto a quella che fu.
La presenza militare più consistente resta in ogni modo la missione KFOR della NATO. Patto Atlantico che ebbe un ruolo da protagonista nel cosiddetto “processo di balcanizzazione della Jugoslavia”. Sono tre le sue basi in Kosovo: Camp Film City ubicato alla periferia di Prishtina, Camp RC-West ed il “Villaggio Italia” per militari e carabinieri italiani situati nei pressi di Peje / Pec ed il più noto Camp Bondsteel collocato nelle vicinanze di Ferizaj / Uroshevaz. Soprattutto da questo ultimo, in coordinamento con le installazioni presenti nella vicina Macedonia del Nord, vengono gestite le operazioni nei Balcani e spesso anche in altre aree del Mediterraneo.
In un contesto quindi dove operano diverse sigle ed organizzazioni internazionali ne consegue che migliaia sono i civili ed i militari stranieri che ruotano in Kosovo, centro nevralgico della geopolitica europea.
A partire dalle organizzazioni statunitensi, dai Peace Corps all’American Hospital, per finire, al vertice del Triangolo, con la ultra-ramificata Usaid. l’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale onnipresente appunto dai Balcani ai paesi della cosiddetta “ex Europa dell’est” passando per il Medio Oriente fino al Caucaso, solo per limitarsi a citare personali testimonianze oculari.
Ma se gli States e l’UE sono operativi a livello sociale, politico e militare, paesi come la Turchia sono invece attivi in campo religioso. Sono turchi infatti molti finanziamenti rivolti alla costruzione, ricostruzione ed al mantenimento di numerose moschee. Un altro dettaglio questo in comune con la Bosnia.
Il braccio armato dell’ideale di indipendenza del Kosovo dalla Jugoslavia prima e dalla Serbia poi e della anelata unione con l’Albania è stata l’organizzazione paramilitare conosciuta con l’acronimo di UCK, formazione ancora oggi non realmente scioltasi, acquietatasi “in sonno” ma nonostante tutto sempre in posizione predominante nel contesto politico e sociale locale ed in molti casi ancora punto di forza del potere seppur non in forma ufficiale. Nel frattempo, dal termine delle operazioni belliche vere e proprie, alcuni suoi squadroni si sono trasferiti a combattere in Siria e nel Vicino Oriente al fianco delle varie organizzazioni pro Califfato. Una sorta di scambio di favori considerato che negli anni ’90 in molti dal Medio Oriente accorsero a dare manforte, con motivazioni magari differenti ma in realtà con molti punti di contatto, alle spinte in atto tra Kosovo e Bosnia.
Un esercito di guerriglieri quello dell’UCK nel quale, nel tempo, sono confluiti appunto uomini, mezzi e finanziamenti internazionali di diversa origine, provenienza ed estrazione: istituzionale, fondamentalista, criminale.
Già inserita nelle liste delle organizzazioni cosiddette terroristiche mondiali con molti dei suoi dirigenti ancora oggi sotto processo per crimini vari, tra i quali spicca l’ex Primo Ministro, poi Ministro degli Esteri ed infine ex Presidente Hashim Thaci, fu ammessa da Stati Uniti e Gran Bretagna come parte in causa al tavolo degli Accordi di Rambouillet nel 1999. Accordi che sancirono l’amministrazione controllata del Kosovo da parte della Nato e che ebbero come conseguenza il violento bombardamento di alcune zone della Serbia e della capitale Belgrado in particolare. Tutto sotto l’egida dell’ “Operazione Allied Force” alla quale anche l’Italia partecipò con la concessione dell’utilizzo del proprio spazio aereo, dando quindi libertà d’azione agli aerei delle basi statunitensi in chiave Nato presenti sulla penisola. Il placet italiano prevedeva, a quanto pare, anche l’utilizzo di siti sconosciuti alla maggior parte della popolazione e di conseguenza alcune operazioni restarono quindi sostanzialmente celate all’opinione pubblica. Attive alla causa quindi risulterebbero la piccola e nascosta da occhi indiscreti “Pista Mattei” di Pisticci dalla quale sembrerebbe transitassero aerei leggeri della CIA o l’aviosuperficie ubicata nei dintorni di Salerno già comunque regolarmente votata ad uso militare.
In realtà durante la guerra scoppiata nella oramai ex Jugoslavia sin dal 1991, furono numerosi i casi inerenti traffici aerei ma anche marittimi di armi per i quali fu utilizzata l’Italia come base di partenza verso i paesi nati dalla dissoluzione in atto nei Balcani, quali la Croazia, la solita Bosnia od il nascente Kosovo appunto, a volte utilizzando triangolazioni di paesi terzi come la stessa Albania e spesso coinvolgendo in vario modo anche diversi stati medio orientali.
Tornando all’UCK, risulta singolare il fatto che il Tribunale dell’Aia abbia riconosciuto diversi misfatti perpetrati da suoi appartenenti ma la stessa organizzazione, dal congresso di Rambouillet in poi, non sia più paragonata ad organizzazione terroristica dai paesi della Nato e dai suoi alleati.
Ma d’altronde è consuetudine tacciare o meno di terrorismo le organizzazioni paramilitari sulla base di quale parte dello schieramento geopolitico esse facciano parte.
Ed in Kosovo l’UCK è celebrata ovunque. A partire dall’intitolazione dell’aeroporto della capitale Prishtina ad Adem Jashari, uno dei primissimi comandanti del gruppo paramilitare e la quale effigie si trova dovunque. Alla stregua del merchandising riproducente il volto del “Che”.
Ma non mancano in ogni città strade intitolate all’UCK, scritte inneggianti al gruppo, arbre magique nelle auto, calamite per i turisti, riproduzioni delle divise, magliette, memoriali in onore dei caduti e dei comandanti del battaglione sul modello di quelli che si trovano disseminati nei paesi dell’ex Unione Sovietica in memoria dei caduti durante la II° Guerra Mondiale. Non da ultimo sventolano bandiere con il simbolo dell’organizzazione. Bandiere il più delle volte lasciate garrire al vento insieme a quelle degli Stati Uniti.
E se le bandiere giubilanti all’UCK potrebbero avere un senso di orgoglio nella popolazione locale di etnia albanese molto meno senso dovrebbero avere le bandiere ed i simboli statunitensi dei quali il Kosovo è pieno.
Già nel 2008 balzava ai nostri occhi l’enorme murales posizionato all’ingresso del centro di Prishtina proprio sul viale a lui dedicato raffigurante Bill Clinton in atto di salutare la popolazione albanese locale. Oltre allo storico murales ora campeggia anche una sua statua a figura intera. Come un Saddam Hussein nell’Iraq che fu o un Lenin nell’Urss di ieri o nella Russia di oggi. Non un paragone ma forse una contraddizione per chi da paladino combatterebbe regimi e culti della personalità.
I kosovari albanesi avvertono una forte gratitudine verso gli Stati Uniti per l’aiuto più che concreto fornito loro nella lotta verso la, seppur ad ora ancora zoppa, indipendenza. Appoggio per il quale il prezzo in corso di pagamento presenta però la faccia non tanto nascosta di una forte influenza ed intensi vincoli di affidamento.
D’altronde le istituzioni kosovare fanno ricorrere l’inizio del processo d’indipendenza alla visita del senatore statunitense Bob Dole a Prishtina alla fine di agosto del 1990. Il politico durante il suo discorso sentenziò: “La libertà sta arrivando, la democrazia sta arrivando”. Meno di un anno dopo la guerra iniziò a dilaniare la Jugoslavia giungendo poi più direttamente in Kosovo nel 1998.
Sia Dole che la sua storica visita sono ricordati nella piccola capitale balcanica con monumenti, strade a lui intitolate e riproduzioni di foto storiche.
Monumenti, bandiere, ringraziamenti. E’ l’ambiente locale stesso che qui ha trasformato in hard power la dottrina del soft power prevedente l’utilizzo di organizzazioni governative e paragovernative con succursali locali.
Lo schema di operatività è classico: finanziare, aprire e seguire progetti in numerosi ambiti in modo da influenzare l’ambiente politico-sociale.
Ed il Kosovo è uno dei territori dove si attesta una forte concentrazione di interessi internazionali.
Puro nutrimento per il risentimento etnico.
Come nel 2008, l’anno di quel primo viaggio da queste parti, sono ancora sotto protezione armata da parte di militari appartenenti alle varie missioni internazionali gli antichi monasteri ortodossi di Decani, Pec e Gracanica. Oasi religiose ortodosse dove insieme ai relativi Pope lavorano i serbi dei villaggi del nord o alcuni dei pochi rimasti nei dintorni della capitale. In turni lavorativi di più giorni consecutivi accolgono i pellegrini provenienti, con le dovute precauzioni, soprattutto dal confinante Monte Negro o dalla stessa Serbia. Vivono un po’ rassegnati ma non di certo assuefatti alla situazione. La tensione infatti si riversa in incidenti, manifestazioni o rappresaglie al minimo segno d’insofferenza tra le parti. E’ anche vero però che al di fuori del nord serbo del paese la doppia lingua esiste solo sulla carta. Il nord è in pratica staccato dal resto del centrosud completamente albanese ed al di fuori dei villaggi di “confine” la convivenza è improponibile. Si nasce e si cresce con questa contrapposizione che sfocia nell’odio. Ne abbiamo la percezione, per citare un caso, a Prizren dove dei ragazzini, incuriositi dall’incrociare viaggiatori stranieri, si interessano a noi ed all’Italia ma, prima di proseguire in una conversazione più approfondita, ci chiedono se per caso fossimo sostenitori della Juventus. Squadra dove gioca il serbo Dusan Vlahovic, il giocatore che durante una partita mostrò una maglia raffigurante il Kosovo come regione integrante della Serbia e raffigurando in contemporanea con le dita il simbolo cetnico, espressione della più forte identità serba. Una situazione che avrebbe potuto magari sfociare in risvolti diversi data l’insistenza mostrata dai giovanissimi. Memore di esperienze passate in altre zone d’Europa dove il forte sentimento identitario, vero o inculcato che fosse, passò velocemente dalla cordialità al sospetto fino alla aggressività.
Per restare in ambito calcistico lo stesso campionato di calcio kosovaro è formato da formazioni albanesi e gli stessi supporters seguono, in alternativa alla decenne nazionale kosovara, quella albanese.
Ma c’è un giorno, una volta l’anno, il giorno del “Vidovdan” durante il quale si ricorda il martirio di San Vito che decine di serbi di Serbia e del Kosovo oltrepassano il fiume Ibar per raggiungere il Gazimenstan.
Il Gazimenstan, il monumento commemorativo, spomenik in lingua serba, che in questo caso ricorda la “Battaglia della Piana dei Merli”. La storica battaglia avvenuta nel 1389 poco fuori l’attuale città di Prishtina considerata sacra dal popolo serbo, nonostante la sconfitta subita, che vide l’esercito del Principe Lazar contrapporsi alle vittoriose forze ottomane di Murad I. Sia Lazar che Murad I perirono durante o nelle imminenze successive a quella battaglia. Ed è particolare come alcuni resti di Murad I siano conservati in un mausoleo a soli 2km di distanza dalla torre del Gazimenstan che ricorda anche la morte di Lazar custodendone, sembra, anche essa alcune sue reliquie. I due condottieri continuano quindi in questo luogo a “fronteggiarsi” da quel 28 giugno 1389.
Da allora la regione del Kosovo e Metochia è ritenuta per la maggior parte dei serbi il cuore della loro patria. Proprio qui durante le celebrazioni per il “Vidovdan”del 1989, Slobodan Milosevic, allora Presidente della Repubblica Socialista di Serbia all’interno della Federazione Jugoslava, pronunciò quello che passò alla storia come “discorso del Gazimenstan” nel quale affermava l’importanza della regione per il popolo serbo.
E’ quindi anche e soprattutto questa una delle forti ragioni che non permette alla Serbia di riconoscere che la Piana dei Merli venga nuovamente persa e passi sotto un popolo che, per certi aspetti soprattutto religiosi, è considerato come uno degli eredi di quegli ottomani che i propri antenati cercarono di fermare nell’avanzata verso il cuore dell’Europa.
Ma forse una gran parte delle motivazioni dell’inizio di questa situazione vanno cercate anche altrove.
Tra coloro a cui piace giocare per i propri interessi soffiando sulle debolezze dei popoli ed esulando dalle reali circostanze e contesti.
Luca Pingitore
* Articolo redatto per il CeSEM Centro Studi Eurasia-Mediterraneo pubblicato il 27/05/24
Kosovo: il caro prezzo dell’indipendenza
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