IL PRESENTE ARTICOLO ESPRIME ESCLUSIVAMENTE L’OPINIONE DEL REDATTORE
E NON QUELLA DEI SINGOLI MEMBRI DELL’ASSOCIAZIONE
Questa foto è stata scattata il 2 gennaio 2008.
Da Medyka attraversavo a piedi i circa 300 metri che la separano dal villaggio di Shegini.
350 metri ed un’ora di differenza di fuso orario dividono Polonia ed Ucraina.
Il territorio storico della Galizia, che per centinaia di anni ha fatto parte dello stesso Regno, in queste ore sta tornando unito tramite la solidarietà e la comunità di intenti che accomunano la popolazione locale di entrambi i paesi in cui oggi è divisa l’antica regione, Polonia ed Ucraina appunto.
La foto in questione è uno scatto per me assunto da subito a simbolo del viaggio per come lo intento io, dello “sfondamento di frontiere”, come sono solito dire, dello sforzo di infiltrarsi nella realtà delle cose ed indagare tra le opinioni della gente. Di viaggiare per combattere ogni pregiudizio avverso numerosi luoghi della terra e poter vedere e cercare di capire con i propri occhi.
Non avrei mai potuto pensare che quella foto, quell’attraversamento di frontiera, quel luogo rimasto nella mia storia di viaggiatore potesse esser un giorno protagonista ed emblema di un conflitto assurdo e carico di dramma umano. Lo stesso carico che si portano dietro tutte le guerre, anche le numerose ancora attive in diversi angoli del mondo.
Quella stessa frontiera che attraversai per la prima volta tredici anni fa, la seconda fu il 1 gennaio del 2014, in questi giorni è diventata l’icona del conflitto che sta imperversando in Europa orientale ufficialmente tra due paesi che io da sempre ho considerato fratelli e per me amici. Una seconda casa. Non per motivi politici ma per empatia di storia, culture, tradizioni, lingue, cibo, gente.
Grande dolore e rabbia ho vissuto quando, dal finire del 2013, ho assistito anche in prima persona, ritornando in Ucraina in tre distinti momenti nel corso del 2014, al disfacimento del legame fino ad allora quasi indissolubile tra il popolo ucraino e quello russo.
A L’viv assistetti ai prodromi del vento che soffiava. La palese crisi economica portava la gente a cogliere, convinti di un processo di integrazione e di benefici immediati, i germogli unio-europeisti che le folate d’oltrecortina trasportavano. Ambizioni comprensive. Ma forse le raffiche che fischiavano erano solo strumentali al momento storico. Al di qua del muro non tutti erano convinti di accogliere nuova gente. Tanto più che il procedimento prevede comunque diversi passaggi e tempo che scorre.
A Kiev ed a Kharkhov invece presi parte a due differenti missioni di osservazione delle elezioni, quelle presidenziali ed in seguito quelle parlamentari. Volevo capire meglio e tramite esperienza diretta, non riportata.
Tre viaggi in tre aree diverse. Tre diverse intensità di problematiche.
Mi trovai in una Ucraina diversa da quella che fino ad allora avevo visto e conosciuto.
E vidi in prima persona come famiglie, amici, vicini di casa diventarono ad un tratto nemici.
Come avvenne in un certo senso in Libano negli anni ’70 e di certo in Jugoslavia nei ’90, la storia ebbe una ripetizione anche in Ucraina nel 2014.
Soprattutto dopo i fatti di Odessa del maggio di quel 2014, quando la foga e la rabbia della divisione portò una cinquantina di persone a morire bruciate vive nel Palazzo dei Sindacati. La cosa più grave della faccenda fu forse il fatto che le istituzioni locali “lasciarono fare”, metodologia spesso utilizzata in diverse vicende storiche, italiche comprese, e che immediatamente si provò a minimizzare l’accaduto. Ancora oggi in molti consessi l’argomento è tabù. La vicenda segnò, per l’odio che da poco aveva iniziato a serpeggiare tra le diverse etnie, il punto di non ritorno.
Nel 2016 ritornai anche in Crimea, penisola passata alla Russia nel 2014 e nella quale ero già stato.
Prima del cambio di bandiera l’economia locale non era sui livelli di altre aree dell’Ucraina e soprattutto di altri paesi stranieri di conseguenza il popolo crimeano, la maggior parte di etnia russa, aspirava ad una sicurezza economica maggiore.
Anche loro come gli ucraini dell’ovest. In Crimea però si guardava ad est, alla “madrepatria Russia”.
Per questo, per quasi tutti il passaggio è stato visto come una opportunità, una seconda chance.
Per molti non è cambiato niente e magari appartenere giuridicamente all’ Ucraina o alla Russia ha spostato di poco la convenienza, Per alcuni è cambiato qualcosa appartenendo ad una etnia diversa, per moltissimi altri invece è stato un ritorno alle loro origini russe.
Tornai in Crimea nel 2018. Una Crimea dove le infrastrutture erano già completamente cambiate e modernizzate. In attesa comunque ancora di sostanziosi benefici diretti per popolo.
Da quel 2014, drammatico anno di spartiacque tra due popoli che avevano convissuto in pace per circa settanta anni, la regione del Donbass, la parte più orientale del paese ha convissuto con una guerra non troppo latente. Le due repubbliche de facto di Donetsk e Lugansk, sorte sulle ceneri della vecchia fratellanza tra i popoli oramai incenerita, sono divenute linea del fronte. Le frontiere mal definite e tracciate dalla situazione sul campo sono diventate terreno di battaglia anche dopo il formale cessate il fuoco e la stabilizzazione sulla carta dello status quo.
Ero a Donetsk nel 2019. La notte avvertivo le esplosioni in vicinanza, alla periferia della città.
Nessuna differenza di suoni con un’altra città teatro di guerra. Come a Donetsk anche a Damasco nel 2020 venivamo svegliati dalle esplosioni della contraerea. La differenza risiede però nel fatto che l’atroce conflitto Siria è sempre rimasto sotta la luce dei riflettori, il drammatico conflitto nel cuore dell’Europa, invece, una guerra dimenticata.
La brace fumante di quella guerra è stata sepolta sotto il tappeto dell’oblio.
Anche in questo caso è stato ritenuto opportuno “lasciar fare”. In fondo mantenere delle aree geografiche in costante crisi può convenire. Come anche esasperare la situazione fino ad un ulteriore punto di non ritorno. Che puntualmente si è verificato, deprecabile quando si vuole, in questi giorni di inizio 2022.
Una guerra, questa in Ucraina, che nasce da lontano e che va valutata in ambito geopolitico sulla base di diversi elementi, ma che per il resto non può essere giustificata.
Ero profondamente colpito da quella divisione, da quella separazione che si andava accentuando nel corso di quel 2014 tra due paesi per me familiari e mai mi sarei aspettato di assistere addirittura ad un conflitto su larga scala.
Otto anni di noncuranza internazionale sono serviti solamente a portare il livello dello scontro nell’ambito della contrapposizione tra potenze militari ed economiche che da secoli contraddistingue il nostro pianeta. Non è bastato il discioglimento dell’Unione Sovietica o l’allargamento dell’Unione Europea.
La guerra in Ucraina ha scalato tutti i piani di criticità.
Afghanistan, Yemen, Siria, Libia sono stati e continuano ad essere campi da gioco bellico tragici e violenti ma considerati lontani e mediaticamente attenuati.
Anche il recente conflitto tra Azerbaijan ed Armenia è stato sottovalutato e mal interpretato ma l’onda lunga è ora arrivata.
Con la paura della guerra che ci tocca personalmente.
Ma la guerra in Europa era già in atto da otto anni. Sul campo, a Donetsk e Lugansk, sul piano economico, sul piano politico, sul piano delle relazioni internazionali, sul piano degli accordi non trovati o disattesi.
“Lasciar fare” a volte cambia il corso della storia. In Italia avvenne nel 1978 con il sequestro e l’assassinio del presidente della DC Aldo Moro. In Europa tra il 2013 ed il 2022 con le relazioni Russia – Ucraina che nascondono una antitesi ben più complessa tra centri di poteri.
Ed alla fine come sempre accade ci rimette la gente, i singoli cittadini. Ancora una volta è il popolo che ci perde. E l’amicizia tra i popoli si trasforma in odio e forse utopia.
LUCA PINGITORE
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