LE ISOLE LIBANESI. TRA TURISMO E TRAFFICI ILLEGALI
La vecchia imbarcazione, del tutto simile ad una feluca a motore, solca il mare che in questo angolo di Medio Oriente presenta acque limpide e cristalline. Gli sparuti passeggeri si sono portati dietro tavoli e sedie di plastica, ombrelloni, lettini da spiaggia, borse termiche con bevande e cibi vari ed alcuni di essi anche una cassa acustica preamplificata ed un piccolo barbecue. La mia presenza sul grande gozzo risulta subito impropria. Sono infatti l’unico straniero e sono l’unico a bordo che non si sta recando a trascorrere una giornata nel mezzo del mar Mediterraneo.
Il barcarolo bruciato dal sole in un misto di inglese e levantino mi lascia intendere che scaricherà anche me come gli altri in una delle isole che gli indicherò e poi mi verrà a riprendere dopo averlo chiamato al telefono. E’ piacevolmente sorpreso dalla mia presenza poiché gli ricordo l’Italia e quando, da giovane militare, vi si recò imbarcato su una nave come marinaio. Questo aneddoto mi incuriosisce e cerco di capire in quale occasione o per quale missione ciò sia accaduto ma il suo parlare in levantino inglesizzato non di certo aiuta a soddisfare la mia curiosità.
Ci troviamo di fronte il Libano e le piccole tredici isole situate al largo di El Mina, geograficamente collocate quasi come un ponte verso Cipro, sono una meta unica e per certi versi esclusiva. Quasi tutti gli isolotti non sono altro che enormi scogli piatti che, data la loro particolare conformazione geomorfologica, la gente sfrutta per andare a pescare; per posizionare i lettini da spiaggia e prendere il sole; per sistemare i tavolini da bar anni ’80 e mangiare, bere, fumare lo shisha [narghilè], giocare a carte; per accendere il barbecue e grigliare con musica in sottofondo. Ci si reca sulle isole per una tipica scampagnata ma in costume da bagno e con i piedi affondati fino alle caviglie nell’acqua salata del Mediterraneo. La voglia di scendere, tuffarsi nel verde marino, aggregarsi ad uno dei vari gruppetti di persone che trascorrono la giornata tra le isole si insinua forte in me ma non è questo il motivo del mio approdo nel remoto arcipelago libanese. Decido quindi di gustarmi l’intero giro del taxi marino e rientrare poi con esso al molo improvvisato dal quale siamo salpati dalla costa di Tripoli.
I primi passeggeri vengono abbandonati sull’isolotto di Bellane. L’attento timoniere, aiutato da un bagnante che blocca con le mani il natante in legno, ferma la barca a pochi centimetri dal levigato e naturale pavimento in pietra che si scorge sotto l’acqua trasparente e che circonda lo scoglio vero e proprio.
Il battello prosegue la sua navigazione per le successive masse rocciose incastonate nel Mediterraneo Orientale e considerato che sono l’unico passeggero che resterà a bordo per tutto il tragitto, il capitano della bagnarola mi consente delle brevi soste su un paio di isole di mio interesse in cambio di poter poi annoverare nel mio curriculum la qualifica di mozzo. Tocca a me quindi, in bilico sulla prua, aiutare il marinaio durante le manovre di abbordaggio ai vari spuntoni marini ed infine cazzare la gomena in pieno stile fantozziano quando ancoriamo davanti all’isola delle Palme ed in seguito a quella di Ramkeen, le due vere isole, seppur piccole, dell’arcipelago fenicio.
Vista dal mare l’isola delle Palme con la sabbia dorata della sua spiaggia e la folta vegetazione centrale sembra esser la fonte d’ispirazione del mito dell’ “isola deserta” stereotipo di film, libri, visioni oniriche. Qualche piccolo yacht privato è ancorato poco lontano dalle sue coste ed i pochi spiaggianti sbarcati si godono l’atmosfera di relax che regala questa località dove è possibile notare tartarughe, volatili e, si dice, anche qualche coniglio, discendente di quelli che venivano allevati qui dai francesi fino alla prima metà del secolo scorso.
Ed infatti per la sua amenità l’ “isola dei conigli”, l’altro nome con il quale è conosciuta, è ufficialmente una riserva naturale nonchè sito Unesco.
La mia destinazione finale è però l’ultimo avamposto di questo particolare arcipelago che vide transitarvi anche i crociati durante i loro lunghi viaggi verso la vicina Terrasanta.
L’isola di Ramkeen, conosciuta anche come Fanar, è l’isolotto più lontano dalla costa libanese ed in linea d’aria quello più vicino a Cipro.
Spoglia e con solo un vecchio faro oramai in disuso, l’isola in questione è la meno utilizzata dai bagnanti anche perché capita che per alcuni giorni venga requisita dall’esercito libanese ed utilizzata come luogo d’addestramento congiunto con altre forze straniere per simulare operazioni anti terrorismo e di contrasto al contrabbando con tanto di finti prigionieri e conseguente esfiliazione tramite elicotteri.
Una location perfetta considerato che proprio il cosiddetto terrorismo internazionale ed il contrabbando di armi incrociano la storia dell’isola arrivando a toccare anche fatti di storia contemporanea italiana.
Nel 1979 con la cosiddetta “operazione Francis” Mario Moretti, ai tempi considerato uomo di punta delle Brigate Rosse, insieme ad altri due personaggi legati allo stesso movimento armato italiano, salparono a bordo del “Papago” da Numana, località della Riviera del Conero non lontano da Ancona, e dopo una sosta a Cipro si ancorarono intorno l’isola di Ramkeen per caricare armi da gruppi palestinesi e portarle quindi poi in Italia. Magari non l’unica volta che una operazione del genere viene svolta tra questi isolotti e magari anche con attori e mercanzia diversificata a seconda della situazione.
INTRECCI STORICI CON L’ITALIA ED ALCUNI LUOGHI SIMBOLO DELLA GUERRA
Ma la storia italiana di quegli anni ha numerosi altri punti di connessione con il Libano, vicende ingarbugliate ed ancora misteriose che si intersecano con gli avvenimenti della “strategia della tensione”.
Tralasciando gli aneddoti dei vari campi di addestramento paramilitare dove in numerosi transitarono provenienti dal nostro paese, oppure la presenza oramai quarantennale dell’esercito italiano nel sud del paese [qui la nostra esperienza precedente: Libano 2020: la Blue Line Unifil] o alcuni personaggi in debito con la giustizia recatisi a svernare nel “paese dei cedri” in attesa di tempi migliori, uno degli incroci rimasto senza soluzione è la scomparsa nel settembre del 1980 dei giornalisti Italo Toni e Graziella De Palo ingoiati dalla cortina fumogena alzata per coprire ulteriori intrecci geopolitici.
Nella Beirut dove l’Italia definì e gestì il “lodo Moro” tramite il colonnello Giovannone, deus ex machina e garante del patto che avrebbe dovuto rendere l’Italia immune da operazioni terroristiche palestinesi, i due cronisti sparirono dall’hotel Triumph nell’allora settore ovest della capitale libanese.
Una città che era divisa e disastrata dalla guerra e che oggi annovera tra i simboli di quegli anni drammatici proprio un altro hotel, quell’Holiday Inn che con il suo imponente scheletro bruciacchiato domina la Zaituna bay, l’area elegante del lungomare cittadino. L’Holiday Inn di Beirut come il palazzo della televisione serba e quello del Ministero della Difesa a Belgrado, involontari monumenti a testimonianza di drammatici eventi.
La “battaglia degli alberghi”, combattuta tra gli hotel contigui della zona, avvenuta tra il 1975 ed il 1976 diede in pratica il via alla lunga guerra, suddivisa in fasi, che tormentò il Libano fino al 1990.
A poca distanza dalla struttura del vecchio Holiday Inn si nota sulla Corniche, il lungomare, il St. Georges, un altro antico ed elegante hotel di quando il Libano era considerato la “Svizzera del Medio Oriente” ma oramai abbandonato proprio dai tempi della battaglia appena citata e nei pressi del quale il Primo Ministro dell’epoca, Rafic Hariri, fu ucciso con una esplosione in un attentato nel 2005.
LA SITUAZIONE IN SEGUITO ALL’ESPLOSIONE NEL PORTO
La deflagrazione che più ha colpito la capitale in maniera diretta e tutto il popolo libanese a livello emotivo è stata però quella avvenuta il 4 agosto del 2020 a circa a circa tre chilometri da questa signorile ma quasi deserta area del lungomare. Epicentro un deposito del porto e come propagazione di danni e morte interi quartieri circostanti. Evento del quale appresi quasi in tempo reale tramite la visione di video esclusivi.
Mi aggiro per Remeil e Mar Mikhael, le zone più direttamente colpite dalla detonazione. Vetri, infissi, vecchi balconi, muri incerti e quasi tutti gli esercizi commerciali costituiti soprattutto da bar e ristoranti sono andati distrutti nonostante ora per strada si notano soprattutto decine di impalcature con solerti operai al lavoro e quasi non ci si accorge di quello che è accaduto solo pochi mesi fa.
Annoverando Beirut una particolare conformazione architettonica dove vecchie palazzine si alternano a moderni grattacieli costruiti su precedenti costruzioni distrutte dalla lunga guerra, di certo non mancano fabbricati con ancora ben tangibili i segni dell’esplosione. Queste zone della città, per chi ha visto personalmente i luoghi in questione, sono una sorta di via di mezzo tra i quartieri distrutti di Joubar, Barzeh e Al- Kaboun di Damasco dove il conflitto è terminato da poco ed il quartiere crivellato di colpi di mortaio di Dobrinja a Sarajevo dove invece la normalità è tornata da qualche anno.
Provoca un certo effetto rivivere in un clima di ricostruzione quelle stesse strade di Beirut che nel febbraio 2020 accolsero me e chi mi accompagnava in quel viaggio con una atmosfera di spensieratezza.
L’area del porto, fulcro dell’imponente scoppio, è stata già quasi tutta ripulita. Restano ferraglia ammassata e delle navi-gru che operano in quello che oramai è un grande spiazzo assolato. Di ben visibile è rimasto solo un imponente blocco di cemento, parte del deposito esploso, un vero e proprio monolite che si staglia sul mare e che cattura l’attenzione quando gli passi vicino a piedi od in auto e distinguibile anche a distanza ed anche di notte. Quando la visione nella baia della sua forma scura attorniata dalle luci della capitale e dalle sagome dei mercantili che stazionano all’imbocco del porto accompagna il sorseggiare lento di una chiara “Beirut” o di una preziosa “Almaza” in un rilassante silenzio. Di notte come di giorno una visuale privilegiata, chiara, panoramica. Quasi strategica.
Prospettiva nitida di cui si può beneficiare da un qualsiasi punto della vasta area dove sorge l’Ambasciata Statunitense in Libano.
Ambasciata che occupa un intero versante di una collina dove per transitare, per andare a casa, al lavoro, in un negozio, in un ristorante devi oltrepassare un check point dell’esercito libanese. In auto rallenti, il militare di turno ti lancia uno sguardo e via verso i fatti tuoi. Posti di controllo nelle vicinanze di punti strategici sono la normalità in Libano. Nel precedente viaggio ne superammo diversi per raggiungere il cancello chiuso che a sud segna la fine del paese al confine con Israele, proprio dove parte la “Blue Line”, come anche rientrando a Beirut dopo la sortita a Damasco dove ad uno di questi check point vivemmo una esperienza particolarmente concitata. [Siria 2020: Damasco]
Tutta l’area dell’Ambasciata è reticolata e controllata a vista da militari su alte torrette e per accedere all’interno della Rappresentanza bisogna ovviamente superare serrati controlli. Sia all’ingresso riservato ai pedoni, dove nei giorni di apertura numerose persone si mettono in fila per richiedere un visto per gli States anelando una vita diversa, sia al varco di accesso per le vetture sbarrato da un doppio e possente sistema di cancelli in acciaio, intervallati da un piccolo spazio di ispezione, che si aprono a comando. L’ingresso è controllato da un paio di aitanti marines che nascosti tra le grate scrutano fissi la strada già con il dito sul grilletto pronti a puntare il fucile e fare fuoco senza perdere eventuale inutile tempo.
L’area riservata alla Rappresentanza Diplomatica sta per diventare il più grande hub statunitense per il Medio Oriente comprensivo di un funzionale eliporto. Proprio per questo lo spazio originario è interessato da imponenti lavori di costruzione e trivellamento che proseguono alacremente con decine di operai locali utilizzati per l’ampliamento della base. Accompagnati la mattina presto con degli autobus, controllati all’ingresso ed all’uscita e riportati via dagli stessi bus la sera a fine turno.
Ambasciatore, diplomatici e personale accreditato, per forza di cose data la più che ottimale posizione nonostante la distanza, hanno vissuto in diretta i tragici momenti successivi all’esplosione nel porto di Beirut avvertendo anche loro il tremito della terra ed il violento spostamento d’aria. Magari qualcuno della Diplomazia guardava verso il porto già prima dell’esplosione, magari mentre venivano serviti thè e pasticcini ad amici giunti da non molto lontano. Una fantasticheria da trama di una spy-story che forse vengono ispirati dal mio trovarmi fisicamente in Libano. O forse vengo influenzato da quello che ascolto dal “solito metronotte, nottambulo inguaribile” [appellativo dato a chi ovunque nei nostri viaggi ci imbecca suggerimenti, dalla nightlife locale alle questioni geopolitiche] di credo cristiano-maronita che sostiene curiosamente la stessa tesi del “solito metronotte” di confessione musulmana. Due versioni simili di provenienza contrapposta fanno un indizio. Elemento probabilmente confermato in questo caso dall’allusivo silenzio di un ulteriore “metronotte”, quello sempre ben informato sui fatti locali.
Secondo la voce metropolitana, quindi, l’esplosione sarebbe avvenuta a causa di una bomba sganciata da un aereo israeliano su un deposito segreto di armi e materiale deflagrante in uso alla formazione politica libanese Hezbollah. Il frastuono di un aereo è stato distintamente avvertito da molti testimoni uditivi pochi istanti prima dell’esplosione. Proprio l’insolito fragore dell’aeromobile è stato l’elemento che ha catturato l’interesse di molti che, ascoltato il rumore inusuale, si sono affacciati alle finestre o si sono messi a guardare in aria per comprendere cosa stava accadendo. Il tempo di alzare lo sguardo e boato e fumo erano già diffusi nell’atmosfera mentre spostamento d’aria e movimento tellurico si erano già propagati per chilometri.
La tragedia dell’agosto 2020 sembra esser stata però subito dimenticata dal governo libanese, le istituzioni hanno repentinamente relegato la disgrazia nell’oblio. Se davvero lo scoppio è stato causato da un attacco deliberato di Israele, la politica libanese come mai non si è mossa ufficialmente, è la domanda che potrebbe quindi sorgere spontanea. Risposta ovvia, è convenuto accettare morte e distruzione sul proprio territorio da parte di mano straniera pur di non esser costretti a svelare le connivenze affaristico-militari che si intrecciano tra i partiti maroniti ed i musulmani di Hezbollah ed Amal. Fazioni avverse durante gli anni della guerra e colleghi alle redini del paese al giorno d’oggi. Tutti e tre i “metronotte” forniscono questa lettura dei fatti spacciandola per certa.
BANCAROTTA ECONOMICA E CRISI POLITICA
E’ un Libano abbastanza diverso da quello che vidi nel febbraio 2020. Un Libano dove ora il popolo cerca di mantenersi a galla mentre le istituzioni affondano sempre di più. Da mesi non si riesce a formare un governo stabile ed alcuni interessi stranieri sguazzano nell’instabilità creatasi come conseguenza del drammatico default nel quale è sprofondata l’economia.
Dall’inizio del 2020 ad oggi si sono accavallati la pandemia, il fallimento economico e l’incredibile esplosione al porto ma c’è comunque voglia di ricominciare, soprattutto tra la popolazione di Beirut che sta rimettendo in sesto la città a proprie spese o grazie a qualche aiuto fornito da paesi stranieri, considerato che appunto il Libano a livello politico ed economico è nel totale caos.
E le ripercussioni nella quotidianità sono concrete.
A partire dalle distese di rifiuti ammassati ai lati delle strade in diverse aree del paese che in alcuni casi si allargano di giorno in giorno. Dove la sera prima hai guidato schivando l’immondizia, il pomeriggio successivo sei costretto a passarci sopra. Ogni tanto, in prossimità di sedi influenti, l’area viene ripulita semplicemente tramite trasloco della spazzatura in siti analoghi nelle vicinanze mentre il surriscaldamento dovuto alle alte temperature estive fa scatenare gli effluvi che rilasciati inebriano le vicinanze.
Ma d’altronde in molte parti d’Italia, dove la situazione economico-politica è abbastanza differente rispetto alla Terra dei Cedri, si notano in questo settore contesti molto analoghi.
La situazione più grave in Libano si manifesta però in ambito energetico. La distribuzione di energia elettrica pubblica si prende alcune pause durante il giorno o la notte e per questo quasi tutti si sono dotati di generatori privati o condominiali che entrano in funzione durante queste consuete interruzioni generali in maniera da garantire così la continuità di utilizzo.
Non è la Pristina avvolta dal rumore dei gruppi elettrogeni continui pre-dichiarazione d’indipendenza del Kosovo ed ancora in piena gestione UNMIK e neanche la capitale della Corea Del Nord Pyongyang lasciata ogni notte quasi completamente al buio per non sprecare l’energia solare accumulata durante il giorno, giusto per citare un paio di esperienze paragonabili vissute personalmente, ma il Libano di questi giorni è in piena emergenza energetica.
Gasolio e benzina per muovere mezzi di trasporto e fornire elettricità sono volutamente centellinati al minimo in base a quello che si ascolta nei vicoli, in totale penuria di approvvigionamenti nazionali secondo quello che si sente dire nei salotti. Qualunque sia la verità i rifornimenti di benzina restano chiusi per giorni e quei pochi aperti che distribuiscono carburante sono presi d’assalto con lunghe ed a volte interminabili code. Spesso si trascorrono ore ad attendere il proprio turno nelle autovetture rese incandescenti dall’implacabile solleone. Capita che qualcuno, probabilmente dietro soffiata, venendo a conoscenza dell’imminente apertura di un determinato distributore lasci l’auto parcheggiata la sera prima in maniera di ritrovarsi in pole position poi l’indomani all’ alba. Non mancano le discussioni veementi tra gli avventori delle pompe di servizio in prossimità delle quali, per le lunghe code, si creano spesso ingorghi stradali gestiti a fatica e stancamente da sfiduciati agenti di polizia. I tassisti sono costretti a valutare la convenienza prezzo – distanza – coda al rifornimento se sono opzionati per percorsi extra urbani o comunque ritenuti troppo lunghi.
La contraddizione sta però tutta nel fatto che nonostante la difficoltà a reperire il carburante necessario per muoversi quotidianamente praticamente nessuno rinuncia all’utilizzo dell’auto privata. Auto che per molti è uno status symbol. Ferrari, Maserati, Porsche nell’area di Beirut si notano quasi alla stregua delle classiche vetture più popolari che a nord ed a sud del Libano sono invece altamente diffuse.
Ed a bordo di una automobile inglese d’epoca si presenta il mio “agente di cambio”. E’ la norma rivolgersi al mercato nero per acquistare valuta locale considerato il più che favorevole tasso di cambio rispetto a quello ufficiale, considerata anche la benevolenza con la quale euro o dollari sono accettati dai privati.
I salari votati al ribasso, i conti correnti sostanzialmente bloccati e l’inflazione vertiginosa condizionano il sistema economico libanese che da un anno è oramai in bancarotta dichiarata.
Nonostante ciò i locali notturni, pesantemente condizionati dalle chiusure dei mesi scorsi a causa delle restrizioni dovute alla pandemia, risultano frequentati e vivaci. Quelli riaperti della zona di Mar Mikhael già citati come quelli di Dbayeh, Jounieh, Batroun. Cinquanta chilometri di costa che erano fonte di attrazione turistica estiva e che ora si barcamenano esclusivamente con la popolazione locale. Nessun turista straniero si vede passare da almeno un anno cosicchè il mio girovagare per il paese risulta per molti ambiguo.
Ciò non mi impedisce comunque di tornare a scandagliare in maniera più approfondita uno dei quartieri di Beirut roccaforte del movimento politico di Amal. Lo stesso quartiere dove ci eravamo infilati un anno e mezzo fa e da allora rimasto nella lista dei posti da dover rivisitare in maniera più adeguata. Quello che a prima pregiudizievole vista può sembrare ai più nient’altro che un quartiere fatiscente è un rione in realtà denso di storia dove sono ancora visibili i resti dei circa quindici anni di conflitto civile. La passeggiata tra le sue strade dense di vita popolare si dimostra attraente. Come anche l’esser scrutato da alcuni preposti di zona si rivela meno invadente rispetto alla mia precedente visita.
D’altronde sono luoghi teatro di forti tensioni e dove spesso l’esser vigile sulle varie situazioni che possono presentarsi è la regola fondamentale. Lo si nota, ad esempio, anche dal riflesso condizionato di un militante di Hezbollah in seguito all’impercettibile distinzione dei miei passi felpati ma innocui in avvicinamento, durante una mia ulteriore gita nelle montagne del sud del paese. Il suo scatto è emblematico per chi è avvezzo ad alcune dinamiche. Solo chi ha un certo addestramento ha la naturalezza di queste movenze. Anche in situazioni assolutamente rilassate bisogna sempre esser pronti all’azione.
Siamo in Libano, un paese segnato da anni di belligeranza. Un paese abituato ai giochi geopolitici stranieri sul proprio territorio. Un paese dove decine di persone si muovono su scacchieri che determinano gli equilibri dell’area mediorientale. Un paese la cui situazione ha ispirato diverse storie di spionaggio. Un paese dove all’aeroporto internazionale di Beirut noti distrattamente un uomo trasandato che staziona nei dintorni del check in per il quale sei in coda. “E’ lei miss…?”; “Si”, “Bene, mi faccia vedere il suo passaporto. Sono dei servizi d’immigrazione. Sono incaricato dal Ministero. Venga con me. Mi segua”, l’uomo si rivolge alla donna in fila davanti a me. I due spariscono nei meandri dell’aeroporto ed il volo parte senza la donna. Non siamo in un film. Siamo in Libano. La comunque meravigliosa ed affascinante Terra dei Cedri.
LUCA PINGITORE
Si consiglia di leggere anche:
Libano 2020: La Blue Line Unifil
Follow Us