Era dal 1949 che le fiamme della guerra civile divampavano nei focolai attizzati dalle differenti etnie che compongono la Birmania, uno degli stati appartenenti alla penisola dell’Indocina.
La Birmania era oramai da decenni sotto la guida dei generali dell’esercito che cercavano di contrastare le rivolte dei numerosi gruppi etnici anelanti la propria indipendenza.
Solo nel 1984, però, l’Italia si accorge realmente della situazione che attanaglia il paese del sud-asiatico grazie ad un reportage della italiana Albatross Press Agency confezionato dai suoi inviati Gian Micalessin ed Almerigo Grilz. I due si trovavano a Bangkok, in Thailandia, per organizzare un reportage sulla situazione in Cambogia e si ritrovarono, invece, nella jungla sul corso del fiume Moei che separa Thailandia e Birmania. Proprio sul fronte della guerra che contrapponeva l’esercito birmano, il Tatmadaw, ad i guerriglieri di etnia Karen fautori dello stato indipendente del Kawthoolei.
“Padre” del Tatmadaw fu il generale Aung San che condusse la Birmania fuori dal giogo del colonialismo britannico. Fu ucciso nel 1947, pochi mesi prima dell’indipendenza birmana avvenuta ufficialmente nel 1948. Sua moglie divenne poi ambasciatrice in India. La figlia Aung San Suu Kyi, invece, premio Nobel per la pace nel 1991 prima, Consigliere di Stato (carica alla stregua di un Primo Ministro) poi.
Ma non è stato semplice per Suu Kyi arrivare alla guida del suo paese, seppur in condivisione con i vertici dell’esercito che controllano de facto la Birmania ininterrottamente dal 1949.
Nonostante fosse la figlia del Generale fautore dell’indipendenza della Birmania, al suo rientro in patria dopo tanti anni all’estero, si schierò a favore delle proteste di gran parte del popolo avverso al Tatmadaw, divenuto oramai una giunta militare guidata dal Generale Ne Win il quale detenne in maniera dispotica il potere per ventisei anni, fino al 1988.
Nella capitale si protestava contro i militari mentre ai quattro angoli del paese le numerose etnie impegnavano l’esercito in diverse guerriglie periferiche.
Suu Kyi fonda la Lega Nazionale per la Democrazia e diventa leader naturale, lei figlia dell’icona nazionale Aung San, dell’opposizione al regime che governa dai palazzi dell’allora Rangoon, la capitale dello stato.
Viene però presto arrestata e tenuta imprigionata per quindici anni.
Nel frattempo cambia la giunta militare al potere, la Birmania diventa Myanmar, Rangoon diventa Yangon ma non mutano le condizioni del paese stretto in un crisi economica e sociale.
Suu Kyi, che rinuncia all’esilio preferendo restare nel paese natio seppur in galera, viene insignita del Premio Sakharov nel 1990 e le viene assegnato il Premio Nobel nel 1991.
Diventa, seguendo il mito del padre, una eroina paragonata addirittura a Gandhi.
Nel 1990, nonostante fosse in carcere, il suo partito riesce a partecipare alle prime elezioni libere del paese che si ripeteranno poi solo nel 2010, poco prima della sua liberazione.
Ci vorrà però il 2015 affinché Suu Kyi conquisti il posto di Consigliere di Stato, Primo Ministro di fatto, preposto alla guida del Myanmar ma sempre in condivisione con i Generale dell’esercito.
Fino a pochi giorni fa, al 1 febbraio 2021, quando viene deposta ed imprigionata dai militari che la estromettono dal potere in seguito ad un rapido colpo di stato perpetrato tramite dichiarazione dello “stato di emergenza”, taglio delle linee telefoniche principali ed oscuramento di internet. Le proteste di piazza a Naypyidaw, la nuova capitale del Myanmar in precedenza chiamata Pyinmana, vengono prontamente sedate.
La stella di Suu Kyi, soprattutto a livello internazionale, era già però decaduta da qualche tempo. Tanto da venirle ritirato il Premio Sakharov e criticata la scelta del ricevimento del Nobel per la pace.
In Myanmar le guerriglie di indipendenza condotte dalle etnie, magari con periodi di maggior intensità alternati a periodi di relativa calma, non si sono mai placate.
Negli ultimi anni soprattutto il popolo dei Rohingya è balzato agli onori delle cronache internazionali per la pesante repressione subita e messa in atto dal Governo centrale birmano con l’avallo o comunque l’indifferenza di Suu Kyi. Drammatiche sono le condizioni dei Rohingya costretti in campi profughi al confine col Bangladesh, dove i più fortunati sono riusciti a rifugiarsi raggiungendo il ceppo bengalese del loro gruppo etnico diffuso dal Pakistan alla Malaysia con presenze anche in Arabia Saudita.
Per il suo comportamento tenuto con i Rohingya ma forse soprattutto per la sua politica più accondiscendente verso la Cina, Suu Kyi è stata scaricata dal supporto internazionale che vedeva Stati Uniti ed Unione Europea in prima fila.
La Cina è il grande attore che influenza la politica ma soprattutto l’economia del sud est asiatico ed il Mynamar è geograficamente strategico per il Paese del Dragone consentendogli l’accesso all’Oceano Indiano.
E’ in fase attuativa con capitali cinesi, infatti, la linea ferroviaria che dalla città di Kunming, in Cina, raggiunge il porto birmano di Kyaukphyu passando per Mandalay, diramandosi poi da qui per il porto indiano di Kolkata.
Ma il Mynmar ha anche aderito al piano RCEP che prevede agevolazioni doganali e soprattutto il superamento dell’utilizzo del dollaro come valuta di scambio tra la Cina ed i paesi del ASEAN, l’associazione degli stati del sud est asiatico.
L’accordo è stato firmato a novembre 2020 e per qualcuno il colpo di stato dei militari avvenuto pochi giorni fa ha ricordato, in maniera molto più blanda, la caduta di Gheddafi in Libia nel 2011. Anche il Colonnello stava lavorando all’accantonamento del dollaro per gli scambi commerciali tra i vari paesi africani.
Ed in Libia, per un breve periodo nella prima metà degli anni ‘70, operò il celebre mercenario francese Bob Denard. Proprio a causa dei suoi trascorsi libici, narrano alcune tesi, lo stesso Denard fu invischiato nella strage di Bologna dell’agosto 1980. Smessi per un periodo i panni di soldato di ventura operò al servizio di una organizzazione internazionale con interessi mediorientali. Alcuni uomini di Denard, tra i quali un suo connazionale ex compagno in Africa, erano presenti nei dintorni della stazione di Bologna il giorno della strage.
Bob Denard aveva raggiunto la propria fama qualche anno prima in Congo combattendo per l’indipendenza del Katanga. Uno dei suoi compagni di ventura fu il belga Jimmy Vogeeler, “Jimmy le Belge”, il quale proprio in quei frangenti da mercenario trovò il tempo di esser protagonista del documentario italiano “Africa addio”, facendosi riprendere con i suoi commilitoni in azione durante la liberazione di una missione cristiana presa in ostaggio da squadre nemiche.
Bob Denard tornò a combattere in Congo, che nel frattempo era diventato Zaire, nuovamente negli anni ’90, annoverando in quell’occasione, come compagno d’armi, l’italiano Franco Nerozzi, ex giornalista Rai e vicino ad ambienti eversivi italiani. Nerozzi è un reporter di guerra freelance e conosce Denard qualche anno prima proprio in Myanmar nella regione abitata dall’etnia Karen, in occasione di un evento commemorativo di alcuni mercenari caduti in guerra.
In seguito alla successiva esperienza comune in Zaire, nei primi anni del duemila Nerozzi fonda una onlus attiva proprio in Myanmar nello stato dei Karen. La sua onlus organizza anche delle missioni di solidarietà e proprio ad una di queste partecipa Gian Micalessin, uno dei due giornalisti dell’agenzia Albatross che nel 1984 seguirono la guerra in atto e la portarono alla ribalta italiana. Proprio in quella prima volta del 1984, Micalessin con il collega Grilz, nella jungla del Kawthoolei fecero la conoscenza di Jimmy le Belge al secolo Jimmy Vogeeler, il protagonista di “Africa addio”, in quel tempo mercenario proprio in Birmania e collega negli anni ’60 di Bob Denard nella Repubblica Democratica del Congo.
Alcuni anni fa Nerozzi fu indagato con il sospetto di utilizzare i progetti solidali in Myanmar come copertura per dei campi di addestramento per mercenari, simili a quelli che con Denard aveva organizzato in Afghanistan alla fine degli anni ’90. Le accuse non trovarono però piena fondatezza ma lo portarono a patteggiare comunque una piccola pena. Nell’inchiesta gli fu anche contestato l’aver collaborato all’ultimo dei numerosi tentativi di Bob Denard atto a compiere un colpo di stato alle Isole Comore.
Ma tutte queste sono, ovviamente, altre storie.
Mentre in Myanmar, a pochi giorni dal colpo di stato che ha deposto Suu Kyi, la situazione è in progressivo divenire.
LUCA PINGITORE
Articolo apparso su ilquotidianoditalia.it del 11/02/21
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