Breve disamina sulla situazione in essere.
Tra l’agosto ed il dicembre del 1991 si consumò la dissoluzione dell’Unione Sovietica.
Uno ad uno tutti i Paesi facenti parte dell’Unione come anche varie regioni autonome inglobate all’interno di alcuni di essi, dichiararono la loro indipendenza dall’Urss. Il processo di dissoluzione era, in realtà, già iniziato un anno prima quando i Paesi Baltici seguiti poi da Georgia, Abkhazia e Transnistria, proclamarono la propria fuoriuscita dall’Unione Socialista Sovietica.
Il 2 settembre del 1991 toccò all’Oblast (Regione) Autonoma del Nagorno-Karabakh promulgare la propria indipendenza.
Il Nagorno-Karabakh è una regione geografica del Caucaso del sud comprendente grosso modo gli antichi territori dell’Artsakh, storico regno di etnia armena e di tradizione cristiana, tanto che secondo la tradizione proprio in quell’area si diffuse per primo il cristianesimo e nacque l’alfabeto armeno.
Dopo varie vicissitudini storiche e politiche il Nagorno-Karabakh venne incorporato, in seguito all’avallo di Stalin, nella giurisdizione della Repubblica di Azerbaijan con lo status di “Regione Autonoma”, nonostante la maggioranza della popolazione fosse appunto di etnia armena e di religione cristiana.
E così, in seguito alla proclamazione di fuoriuscita dall’Urss da parte dell’Azerbaijan, a sua volta anche il Nagorno-Karabakh nel settembre 1991 dichiarò la propria indipendenza da quest’ultima.
Fu quello l’evento scatenante di una drammatica guerra lunga tecnicamente due anni ma durata in realtà più a lungo ed iniziata molto prima, già nel 1987, con tragici episodi di violenza interetnici tra azeri ed armeni, alcuni dei quali assurti a livello di genocidio e martirio.
Da entrambe le parti infatti vengono ricordati tragici eventi quali il “Gennaio Nero” del 1990 quando l’Armata Rossa sovietica fu costretta ad intervenire per le strade della capitale azera, Baku. A quei giorni è stato poi dedicato un imponente memoriale collocato su una collina che domina la città e consacrata la giornata del 20 gennaio come “Giornata dei Martiri”.
Ma gli azeri ricordano anche il “Massacro di Kojali” del febbraio del 1992 mentre gli armeni non dimenticano l’“Operazione Anello”. In entrambi i casi centinaia furono le vittime.
Nel 1994, in seguito agli accordi di Bishkek, lo stop della guerra vide la perdita da parte azera di un’area più vasta rispetto a quella “contesa” e fu sancita la nascita della de facto Repubblica del Nagorno-Karabakh. Da allora la situazione è sempre rimasta tesa, tanto che non sono mai mancati i momenti di attrito sul campo e la propaganda azera non ha mai smesso di promettere la “ripresa” dei territori persi.
I rapporti diplomatici tra Armenia ed Azerbaijan, di conseguenza, non sono mai stati in essere e la cosa si è riflessa anche sui semplici viaggiatori tramite la “guerra dei timbri”.
Per entrare in Armenia avere il visto azero sul passaporto non presenta grossi problemi [ questo almeno fino alla nuova evoluzione del conflitto di questi giorni del 2023. N.D.R.] a meno che non si incappi in frontiera in uno zelante doganiere. Mostrare un timbro armeno significa invece avere gravi conseguenze al confine azero tali da comportare anche la non ammissione nel paese ubicato sulle sponde del mar Caspio. L’unico punto di ingresso nel Nagorno-Karabakh è attraverso l’Armenia, per questo se risulta palese aver messo piede anche nella Repubblica de facto, significa finire nella black list come “persona indesiderata” in Azerbaijan. Nel tempo ne hanno fatto le spese sia semplici viaggiatori sia archeologi sia anche giornalisti recatisi in Nagorno-Karabakh per lavoro. Sapere di esser stato in Armenia può al limite essere accettato seppur con difficoltà [almeno fino a settembre 2023. n.d.r.] ma esser stato nel Nagorno-Karabakh non è ammissibile da parte delle autorità azere.
Questo per ritorsione, ovviamente, ma soprattutto perché in base alle leggi azere il territorio in questione, seppur de facto indipendente, ha comunque sempre fatto parte integrante della Repubblica di Azerbaijan. Il controllo da parte azero sui viaggi effettuati in Nagorno-Karabakh è capillare e sovente le ambasciate di Baku sparse nel mondo, se ne hanno notizia in anteprima, intervengono preventivamente “sconsigliando” di partire adducendo presunti problemi di sicurezza o si attivano successivamente con “richiami” o inserimenti nella già citata black list. E non mancano anche i monitoraggi di stampa e televisioni estere colpevoli di aver utilizzato termini o riportato fatti non “consoni”.
Circa l’Armenia, invece, l’astio nei confronti del vicino caspico è da sempre alimentata anche dalla forte vicinanza politica e non solo dell’Azerbaijan alla Turchia la quale, ai tempi dell’Impero Ottomano, incamerò i territori dell’Armenia storica. I luoghi sacri del monte Ararat dove la leggenda narra si fermò Noè con la sua Arca in seguito al Diluvio Universale. Il “Genocidio degli Armeni” è una drammatica ferita da sempre paragonato all’Olocausto degli Ebrei e a Erevan ricordato con un imponente memoriale.
Anche tra Turchia ed Armenia non esistono ovviamente rapporti diplomatici e le frontiere sono chiuse. Anche in questo caso la “guerra dei timbri sul passaporto” è attiva.
La Repubblica del Nagorno-Karabakh, divenuta ufficialmente Repubblica di Artsakh solo nel 2017, seppur del tutto autonoma avendo frontiere, un proprio governo, proprie istituzioni, proprie leggi, una propria bandiera, è possibile definirla, per una più facile comprensione di chi legge, una exclave etnica armena in territorio azero. Dalla guerra degli anni ’90 la situazione territoriale è rimasta molto indefinita. La striscia di territorio che infatti avrebbe dovuto separare l’Armenia dall’Artsakh, la regione di Kalbajar e Lachin sulla carta appartenente all’Azerbaijan, in realtà è rimasta sotto il controllo dell’Armenia sin dal 1994. Lo stesso dicasi per la zona di Agdam, ad est dell’Artsakh de facto.
Agdam è la città di origine della squadra di calcio del Qarabag, militante nel campionato azero ma che in seguito alle vicissitudini belliche dei primi anni ’90, ha spostato la sua ubicazione a Baku. Negli ultimi anni, quasi a voler dare un segnale di forza e rivincita, il Qarabag è uscito dall’oblio ed è diventata una squadra di livello europeo altalenando partecipazioni alla Champions League ed all’Europa League.
E proprio da Agdam, spostandosi verso l’interno dell’Azerbaijan, una vasta porzione di territorio è, sempre dalla metà degli anni ’90, rimasto militarizzato e reso sostanzialmente inaccessibile ai visitatori stranieri. Questo, in via ufficiale, a difesa di eventuali azioni da parte avversa ma molto più verosimilmente è servito anche per prepararsi alla grande controffensiva. Controffensiva della quale si svolse una sorta di prova generale nel 2016 quando gli azeri provarono una prima volta a sfondare le linee nemiche cercando di invadere il territorio dell’Artsakh.
Già allora la Turchia, come detto da sempre in rapporti stretti con l’Azerbaijan ed acerrima nemica dell’Armenia, si schierò a supporto degli azeri.
La fratellanza tra turchi ed azeri si palesa in vari modi. Uno dei tanti esempi sono le celebrazioni del “centenario della vittoria ottomana sugli armeni” dove, a Baku, è un trionfo di bandiere azere e turche. Chi scrive ricorda in particolar modo l’edizione del 2018. Battaglioni di entrambi gli eserciti sfilarono congiuntamente durante la parata militare sotto gli applausi scroscianti dell’ospite d’onore, il presidente turco Erdogan e di molti appartenenti ai “Lupi Grigi” confusi tra il pubblico ai lati sulle strade. I “Lupi Grigi”, il gruppo ultranazionalista turco di cui, sembra, fu esponente Ali Agca dalla pubblica opinione italiana conosciuto come il presunto attentatore del Papa Giovanni Paolo II.
L’esercito azero, poche settimane prima dell’inizio della guerra del 2020, condusse esercitazioni congiunte con quello turco in previsione dell’inizio delle manovre ufficiali avviate qualche giorno dopo. Il 27 settembre 2020 ricominciò infatti una nuova guerra, drammatica come d’altronde lo sono tutte, ma in questo caso con gli armeni costretti alla sconfitta. Sotto il quasi totale silenzio della comunità internazionale che a parte qualche parola spesa non pensò di intervenire. Fu la Russia a mediare l’“accordo di pace” il 10 novembre. Un accordo doloroso per gli armeni dell’Artsakh che persero sostanzialmente tutti i territori controllati fino ad allora. La regione di Kalbajar e Lachin, la zona di Zangilan e la piccola Repubblica di Artsakh vera e propria vennero territorialmente ridimensionati. Simbolo della sconfitta assurse la perdita della cittadina di Shusha, località della tradizione per entrambi i popoli, divisa per etnia e significativa alla stregua di quello che rappresentò Mostar ai tempi della Jugoslavia e della guerra che la smembrò.
La Turchia negli ultimi tempi ha favorito il numeroso trasferimento in Azerbaijan di combattenti irregolari. Turchi, filoturchi, esponenti dei soliti “Lupi Grigi”, miliziani della “divisione Hamza” e di altre organizzazioni internazionali operanti in Siria, dove oramai il loro compito militare è quasi esaurito, con lo scopo di dare manforte all’esercito azero. Questo nella guerra del 2020 come nelle recenti operazioni del settembre 2023. E’ assodato il passaggio continuo di uomini, mezzi e rifornimenti tra la regione siriana di Idlib dove sono rimasti asserragliati i miliziani dell’Isis e la provincia turca di Hatay. Alcuni di questi combattenti sono naturalmente finiti a combattere anche in Ucraina nell’ultimo anno e mezzo.
Negli ultimi anni l’Azerbaijan si è anche dotata di moderno materiale bellico proveniente proprio dalla Turchia, come dei droni di ultima generazione che hanno fatto volgere le recenti operazioni militari a suo favore. Altri sofisticati armamenti, invece, giungono regolarmente da Israele, altro attore dell’area nonostante sia geograficamente più defilato ma in buoni rapporti con l’Azerbaijan. Lo dimostra anche la solidarietà espressa dal governo azero in seguito alla nuova recrudescenza della guerra tra arabi ed israeliani in corso in questi giorni. Le cosiddette “Flame Towers”, oramai simbolo della Baku moderna, sono state repentinamente illuminate con i colori della bandiera israeliana.
I peacekeeper russi installatisi dal 2020 nel “corridio di Lachin”, la stretta via d’accesso all’Artsakh provenendo dall’Armenia, hanno controllato per questi ultimi tre anni l’accesso alla piccola Repubblica cercando di mantenerlo libero e senza problemi di sorta. Gli episodi di guerriglia non sono però mancati.
Difficile è rimasta la situazione anche a sud dove il governo azero ha previsto un collegamento stradale diretto tra la regione di Zangilan e la propria exclave di Nakhichevan lembo di terra racchiuso tra Armenia, Turchia ed Iran e collegato finora con l’Azerbaijan solo tramite via aerea.
Il distretto di Zangilan dal 2020 è finito in una nebulosa situazione di controllo territoriale, con il progetto azero di unione al Nakhchivan in essere. In seguito alla guerra lampo dello scorso settembre 2023 Kovsakan, nome armeno della regione caratterizzata dai monti Zangezur, è tornato completamente sotto controllo azero. L’idea è quella di costituire un collegamento diretto e sicuro tra Azerbaijan e Turchia tramite la regione suddetta ed i pochissimi chilometri di contatto tra le frontiere turche ed azere al nord del Nakhichevan.
Una zona quindi particolarmente strategica che ha messo in stato di allerta anche il confinante Iran.
Religiosamente vicino all’Azerbaijan per via dello sciismo e con una percentuale di popolazione di etnia mista azero-iranica ma in tensione con esso per la sua citata vicinanza ad Israele ed alla Turchia. Con lo schieramento di una parte del suo esercito sulla frontiera l’Iran vuole prevenire un eventuale sconfinamento nel suo territorio ed un attacco a Jolfa, la cittadina ubicata proprio sul confine col Nakhichevan segnato dal corso del fiume Aras.
Ai tempi dell’Urss si viaggiava tra i vari stati caucasici senza problemi.
Anche attraverso la ferrovia Transcaucasica che era una importante via di comunicazione e sviluppo e collegava Baku ed il mar Caspio con Poti ed il mar Nero in Georgia diramandosi anche verso l’Armenia e poi, tramite un tracciato abbandonato per via dei problemi già esposti, verso la Turchia. Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la conseguente guerra la tratta armena è entrata in disuso ma pochi anni fa da Poti la ferrovia ha ripreso a funzionare fino a Kars in Turchia, stazione di congiunzione della tratta che arrivava dall’Armenia. La stessa Armenia risulta così aggirata. Da Kars poi si può arrivare, sempre in treno, ad Istanbul e quindi in Europa.
Lo scorso 19 settembre 2023 inizia una nuova escalation militare. Un’operazione decisa e fulminea che consente già la sera del 20 all’Azerbaijan di mantenere la promessa fatta al suo popolo sin dalla fine delle prime ostilità degli anni ’90: riconquistare l’Artsakh e gli altri territori persi.
L’Armenia, come d’altronde già fatto nel 2020 non interviene. La Russia controlla ma lascia fare. La comunità internazionale cosiddetta “occidentale” ha come priorità unica ed esclusiva le sorti della guerra in Ucraina. La Repubblica di Artasakh / Nagorno-Karabakh cessa così di esistere. Ufficialmente lo sarà dal 1 gennaio 2024.
Mentre a Baku ed in tutto l’Azerbaijan si è festeggiato in strada per la ripresa dei territori e la “vittoria contro gli acerrimi nemici armeni”, a Erevan gli armeni hanno protestato contro il proprio governo colpevole di aver abbandonato al loro destino i loro fratelli armeni di Artasakh e “perso la guerra in maniera disastrosa” chiedendo così le dimissioni delle istituzioni in carica.
Nei territori dell’Artsakh la gente invece ha abbandonato e quando ha potuto bruciato le proprie abitazioni per non lasciarle in “eredita’ “ agli azeri in procinto di insediarsi al loro posto. In migliaia in questi giorni si stanno dirigendo a piedi o con mezzi di fortuna in Armenia dove proveranno a ricostruirsi una vita. Magari anche all’estero.
La situazione resta comunque tesa ed in evoluzione nell’area del mar Caspio.
Il mar Caspio, il lago salato più grande al mondo, è un immenso pozzo petrolifero. I primi giacimenti di petrolio furono trovati e trivellati nei primi anni del 1800 sull’isola di Pirallahi / Artyom, di poco distante dalla punta della penisola di Absheron e collegata ad essa da un ponte utilizzato dalla popolazione locale per dilettarsi nella pesca. Sull’isolotto puoi ancora aggirarti tra le vecchie trivelle di epoca sovietica.
Nella parte sud della penisola di Absheron sorge Baku.
Passeggiando sul moderno lungomare è possibile avvertire l’odore del petrolio che giunge dal mar Caspio ed in lontananza scorgere navi petroliere che fanno la spola con le dirimpettaie Turkmenistan e Kazakhstan o con le confinanti Russia e comunque in alcuni casi anche Iran. Al largo sorgono numerose piattaforme petrolifere addette all’estrazione tra le quali Neft Daslari, la città costruita in mezzo al mare dove furono girate alcune scene di un film della saga di James Bond.
Ed è proprio da qui, dai dintorni di Baku, che parte il progetto dello SCP. Il gasdotto del Caucaso del sud dall’Azerbaijan attraversa la Georgia ed arriva fino in Turchia per poi collegarsi al progetto del TAP. Il gasdotto che dalla Turchia stessa transita poi per Grecia, Albania, Italia e si aggancia quindi all’Europa. Il progetto dei gasdotti ovviamente taglia fuori l’Armenia.
Il petrolio è l’olio che unge gran parte dei meccanismi del mondo.
Articolo di Luca Pingitore per ComeDonChisciotte.org del 12/10/23
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