Fine Agosto 2017. Sveglia presto nella casa di Aigerim a Bishkek, capitale del Kirghizistan. Giusto il tempo di sorseggiare una tazza di chay (tè) e addentare una lepeshka (focaccia) fresca, amorevolmente preparata la sera prima dalla ragazza, per poi precipitarmi verso l’aeroporto Manas con un vecchio “taxi” sgangherato senza insegna ufficiale, uno dei tanti che affollano la capitale centroasiatica in qualsiasi ora della giornata.
“ “Otkuda ti?” (Da dove vieni)… ” Aaa Italianets!?” (Wow italiano)…” Berlusconi,Pizza” Rispondo assonnato alle ennesime domande di rito in russo del tassista di turno, mentre raggiungiamo l’aeroporto dove mi aspetterà il volo per Dushanbe, capitale del Tagikistan e punto di partenza della mia prossima avventura: La via M41 del Pamir, seconda strada internazionale più alta del mondo dopo quella del vicino Karakorum; Circondata da montagne che superano i 7000 metri e dove il tempo sembra essersi fermato per sempre.
Durante l’attesa per l’imbarco conosco anche un gruppo di insegnanti tagike, di ritorno da un corso di formazione al Lago Issyk Kul, le quali dopo aver scoperto la mia nazionalità chiedono subito una foto insieme a me, facendomi sentire una sorta di leggenda vivente. Una in particolare, Alina, di origini azero-armene, si fa avanti per offrirmi una visita guidata per la capitale il pomeriggio stesso.
L’arrivo a Dushanbe, dopo un volo mozzafiato con vista sul Pik Lenin coperto di neve, è segnato da un caldo secco e torrido.
A questa latitudine il sole è ancora più forte che a Bishkek nonostante gli 800 metri di quota e come esco fuori dal terminal mi ritrovo in una realtà molto differente: Donne in ‘hijab’ e vestiti variopinti affollano le strade sotto il sole cocente, e i tratti somatici con gli occhi a mandorla sono sostituiti da quelli caucasici, essendo il popolo tagiko di stirpe iranica.
Dopo una terribile sudata alla ricerca di un bancomat dove prelevare qualche dollaro e una rinfrescata in ostello, mi avventuro verso il centro della città.
Qui le ‘marshrutki’ sono in gran parte dei minivan, in cui una sorta di bigliettaio riassembla velocemente i posti a sedere come le persone salgono e scendono.
La guida è frenetica e spesso non mancano gli incidenti stradali degli spericolati automobilisti, che molto spesso si concludono con una stretta di mano tra le due parti, non essendo ancora diffuse le assicurazioni.
Mi incontro con Alina di fronte ai grandi magazzini ‘Tsum’ del centro e facciamo una passeggiata lungo l’arteria principale della città.
Camminiamo nel verdeggiante Rudaki Park con splendidi giochi d’ acqua, passando di fronte al Parlamento e alla statua del re Somoni, condottiero samanide del X sec divenuto simbolo della nazione. Superiamo il Teatro dell’opera e raggiungiamo il caotico Zeleniy rynok (Bazar verde) appena prima della chiusura, dove i suoi banchi di frutta e datteri multicolori creano un’atmosfera tipicamente centroasiatica e i venditori si accalcano intorno a me incuriositi, come provo a fare qualche scatto.
Della città mi colpiscono molto le sue architetture orientaleggianti e l’ onnipresente volto del presidente Emomali Rahmon, quasi ad ogni angolo di strada ; Quest’ultimo, racconta Alina, si è appellato a legami più stretti con le vicine nazioni di lingua persiana dell’ Iran e dell’ Afghanistan, per una riscoperta dei valori del proprio popolo al 95 % musulmano e una ulteriore ‘derussificazione’ del Paese.
Dalle parole di Alina infatti traspare benissimo il sentimento apolide dei russi locali, che ormai rappresentano una minoranza assoluta qui, complici anche il fondamentalismo e una rinnovata spinta islamica nei confronti della società.
Concludiamo la serata in un variopinto caffè turco, dove assaggio un ottimo kebab e con stupore scopro che la famiglia tagika media è assai numerosa, arrivando in media a 5 figli.
Il giorno successivo sveglia piuttosto mattiniera. Finisco i preparativi del mio zaino e incontro i due compagni di viaggio con cui avrei condiviso questa avventura nel cuore del Pamir: Mat londinese d.o.c. e Thomas, francese trasferitosi in Australia ormai da parecchi anni. Si presenterà di lì a poco anche il nostro autista Ali, col suo Land cruiser nero tirato a lucido.
Ali è un giovane tagiko laureato in economia, che parla oltre alla lingua madre anche inglese, russo e cinese, con il pallino per le belle donne e la guida spinta del suo bolide. Ha visitato l’Italia di recente durante un viaggio in Europa e nella bella stagione lavora come autista per il cugino.
Poco dopo partiamo alla volta di Kalai Khum, un villaggio che si trova circa 300 km più ad est, incastonato lungo le rive di un fiume, al confine con l’Afghanistan.
Questa località segna anche l’ingresso nel Gorno Badakhshan, regione autonoma del Tagikistan che corrisponde all’area del Pamir e fu sede di una sanguinosa guerra civile negli anni 90, volta ad ottenere l’indipendenza dal paese. Per farvi accesso occorre avere un visto speciale e prepararsi a versare tangenti alla polizia lungo la via.
Ci mettiamo un intero pomeriggio per coprire la distanza a causa della strada dissestata, che non è ancora nulla in confronto a quello che ci avrebbe atteso nei giorni a seguire. Il paesaggio mano a mano che ci allontaniamo da Dushanbe diventa più arido e montano. I pochi insediamenti che attraversiamo sono sempre più poveri e popolati da gente che veste solo con abiti tradizionali. Avvicinandoci gradualmente verso la frontiera ci capita di incrociare fuoristrada con targa afgana, e poco dopo eccoci costeggiare il mitico fiume Panj, confine naturale e politico con l’Afghanistan. Gli abitanti di entrambe le sponde condividono la stessa lingua, il farsi, la medesima religione, quella ismailita, e gli stessi volti.
E’ una sensazione particolare quella di ritrovarsi a poche centinaia di metri da uno dei principali fulcri delle vicende di politica internazionale. Mentre Ali ci racconta di come qualche settimana prima un’ offensiva aerea russa avesse respinto un’avanzata dei talebani nella vicina zona del Wakhan, ci troviamo a fare battute su ipotetici cecchini appostati al di là del fiume. Veniamo a sapere che in alcuni punti il corso d’acqua è attraversabile e che la marijuana non costa nulla nei villaggi dell’altra sponda. Ma i soldati che controllano queste zone hanno ordine di sparare a vista ad ogni tentativo di attraversamento.
La notte trascorre tranquilla presso una famiglia locale a Kalai Khum, mentre lo scrosciare dell’acqua del fiume fa da sottofondo. Il mio sonno rimane piuttosto leggero, essendo un po’ suggestionato dalla particolare posizione in cui ci troviamo, sebbene del tutto priva di rischi.
Il giorno seguente di buon ora ci rimettiamo in marcia. Il panorama ci regala scorci unici, con la strada che corre a picco sul Panj impetuoso, sovrastato da imponenti pendii rocciosi. Ogni tanto avvistiamo sul lato afgano operai addetti alla manutenzione stradale e persone intente a lavorare nei campi. Disteranno si e no duecento metri rispetto a dove ci troviamo noi. Così vicini eppure così lontani a causa di un triste destino.
Nel primo pomeriggio raggiungiamo Rushan, un tranquillo e verdeggiante villaggio di confine circondato da alte montagne. Sistemiamo le nostre cose nella casa dove avremmo alloggiato per la notte e iniziamo ad esplorare meglio il posto.
E’ qui che faccio la conoscenza di Odinasho, un simpatico abitante del luogo che non ci pensa due volte a invitarmi dalla propria famiglia a sorseggiare una tazza di chay. Ci sediamo a terra su alcuni tappeti colorati, come è consuetudine da queste parti, di fronte alla sua abitazione in fango essiccato. Vicino a noi siede sua madre, una donna molto anziana col viso solcato dalle rughe, mentre la moglie e la figlia più grande ci offrono un banchetto fatto di lepeshki, biscotti, noci e caramelle. La bambina più volte prova a parlare in inglese con me, davanti allo sguardo orgoglioso del padre; Quest’ultimo mi racconta che viene insegnato nella scuola del villaggio fin dalle prime classi. Si parla dei più svariati argomenti, e sperimento sulla mia pelle la grande ospitalita’ dei pamiri. Dove la gente ha poco, condivide tutto, e in queste terre remote un viaggiatore ci mette poco a diventare membro di una famiglia. Ricambio il favore, fotografando la famiglia di Odinasho, a cui prometto i miei scatti come avrei fatto ritorno in Italia.
Durante la notte purtroppo mi ritrovo ad affrontare un piccolo inconveniente; Mentre Thomas e Mat dormono in terra, io quasi mi pento di aver scelto l’unico letto a disposizione nella casa. Una forte sensazione di prurito mi pervade e come accendo la luce della mia frontale, noto degli animali microscopici che salterellano sulle lenzuola: Cimici da letto probabilmente, molto comuni in ambienti rurali simili. Il Pamir è anche questo.
Il giorno dopo mentre il nostro Land cruiser arranca sulla strada pietrosa, prendiamo una deviazione rispetto alla via principale. Ci troviamo a risalire la aspra Valle di Bartang, incastonata fra imponenti pareti, fino a una specie di vecchio ponte tibetano che permette di attraversare il fiume che scorre impetuoso.
Da qui proseguiamo a piedi dopo esserci dati appuntamento con Ali il giorno dopo. La nostra meta è il villaggio di Jizew, un minuscolo agglomerato di capanne nel cuore delle montagne, raggiungibile solo con un paio d’ore di cammino.
Madidi di sudore e affamati, dopo una dura salita sotto il sole cocente, veniamo accolti dal buon Gulsha nella sua casa ricoperta di fango essiccato. Ci rifocilla a dovere con tè e dolciumi vari, dandoci il benvenuto. E’ una persona molto solare e parla un buon inglese, imparato grazie ai numerosi ‘backpackers’ stranieri che nel periodo estivo si trovano a passare nel suo villaggio. Finito il banchetto godiamo del posto il più possibile, entrando in confidenza con le famiglie locali e tuffandoci nell’acqua gelata dei laghetti alpini adiacenti. La natura regna sovrana, fiera e incontaminata; Ogni tanto scorgiamo qualche persona dedita al lavoro nei campi. Uomini dai tratti spigolosi su visi cotti dal sole e donne avvolte da veli variopinti, che parlano solo farsi e vivono secondo i ritmi imposti dall’ambiente circostante.
La sera dopo la solita razione di zuppa di patate insipida con pezzetti di carne, apriamo i nostri sacchi a pelo sul charpoy (i baldacchini all’ aperto su cui si mangia). Vogliamo addormentarci sotto il cielo stellato, di fronte alla silhouette delle montagne che si stagliano nell’oscurità. Comincia ad essere tardi e il mio cellulare non ne vuole sapere di trovare un minimo di segnale. Devo avvisare Aigerim a Bishkek, sicuramente in ansia dopo tutto questo tempo, per dirle che sto bene. Gulsha capisce al volo ed è pronto ad aiutarmi, prestandomi il suo vecchio Nokia. Non importa che si tratti di una chiamata verso un altro paese. Mi guida in un punto più alto dove c’è un po’ di campo e mi porge il suo telefono per tranquillizzare la ragazza. Vorrei dargli alcuni somoni in cambio ma non accetta, quasi offendendosi.
Al mattino l’aria pungente dei 2700 metri di quota si fa sentire tutta. Facciamo colazione e ci apprestiamo a scendere, dopo un caloroso abbraccio con Gulsha e la sua bellissima famiglia; Augurandogli che con successo ottenesse i documenti per lavorare in cantiere a Mosca durante l’inverno. La dura vita di chi deve emigrare per sopravvivenza.
Il resto della giornata si profila veramente piena. Ci ricongiungiamo ad Ali e ci dirigiamo dapprima verso Khorugh, capitale del Gorno Badakhshan. Si tratta di una ridente cittadina al centro di una valle verdeggiante, dove si trova una importante università. Il luogo e’ interessante e quasi non sembra avvertirsi il peso della religione islamica. Gli abitanti sono molto amichevoli e rimaniamo impressionati dalla bellezza delle ragazze locali a passeggio nel parco principale; Occhi verdi che spesso si incastonano nei bei visi persiani, con una femminilità di altri tempi. Siamo ironicamente tentati dal farci assumere come professori presso l’università locale.
Piu’ tardi dopo una pausa in un caffè locale, dove ci rifocilliamo a dovere, proseguiamo la marcia. Deviamo dalla M41, puntando diretti verso il Corridoio di Wakhan: Una striscia di territorio afgano nella provincia del Badakshan, a due passi da Pakistan e Cina. Noi ovviamente risaliremo il lato tagiko, sempre delimitato da un fiume. Lungo la via ci fermiamo anche in una sorta di terme locali all’aperto per un bagno caldo. Qui incontro nuovamente i due ragazzi svizzeri, che pernottavano nel mio stesso ostello a Dushanbe; Coraggiosissimi, sono venuti dall’Europa in furgone attraversando mezza Asia Centrale, tra cui la difficile frontiera turkmena. Mentre il sole tramonta dietro ai picchi innevati in lontananza, arriviamo ad Ishkoshim.
Questa località è nota ai più per il mercato di commercianti afgani, che si tiene ogni sabato dall’altra parte del fiume. Purtroppo al momento del nostro passaggio scopriamo che il ponte che si trova sul confine è chiuso per motivi di sicurezza e il bazar non si sta tenendo più. Un giovane soldato tagiko ci spiega infatti che i Talebani sono di nuovo attivi in queste zone. Stavolta un po’ a malincuore dobbiamo rassegnarci.
Pernottiamo alla “Hanis Guesthouse” insieme ad altri viaggiatori di passaggio nella zona. Entro in confidenza con un gruppo di ragazzi israeliani, partiti per gli ‘Stan’ dopo la fine dei tre anni di leva obbligatoria nel loro paese. Parliamo fino a tardi di argomenti diversi, spaziando dalla lingua russa fino al mondo del lavoro nei rispettivi paesi e ai nostri progetti di viaggio futuri.
Come ripartiamo da Ishkoshim facciamo una breve sosta per rifornire la jeep di gasolio. Nelle strade del villaggio c’è atmosfera di festa: Miriadi di bambini vestiti elegantemente con giacche, cravattine e coccarde sui capelli si riversano tra le vie, salutandoci al nostro passaggio.
Oggi infatti è il 1° Settembre e nella Valle di Wakhan così come nel resto del paese si torna dietro ai banchi di scuola.
Percorriamo la vallata lungo il tragitto sterrato e raggiungiamo le antichissime fortezze di Yamchun. Da qui il panorama è mozzafiato… Senza parole contemplo le pareti ricoperte di ghiaccio dell’ Hindu Kush, simili a delle meringhe. E pensare che da ragazzino sognavo questi luoghi mitici sui libri di geografia!
Poi puntiamo verso Yamg, dove restiamo a pranzo da un signore del posto e visitiamo la casa-museo di un santo sufi. Il sufismo è una corrente mistica dell’Islam, molto radicata in queste zone. Prima di ripartire facciamo tappa in una scuola, solo dopo aver ottenuto il consenso dal preside. Nelle classi veniamo accolti con un “hallo” all’unisono da parte dei piccoli scolari che si alzano prontamente ed io scatto alcune foto uniche. Volti dagli sguardi sinceri, vispi e curiosi con le giacche riciclate dai fratelli più grandi o cucite a mano dalle mamme. Distanti anni luce dall’opulenta realtà occidentale.
Quando mettiamo piede a Langar in una specie di ostello, le quattro case del centro abitato sono spazzate da un vento fortissimo, segno che il tempo sta per cambiare. Prima che faccia buio, mi incammino verso il fiume per fare quattro passi. Incontro un paio di donne coi figlioletti al seguito, che incuriosite dalla mia presenza, mi rivolgono subito parola: “Vedete quelle montagne in lontananza su cui si stanno addensando dei cumuli neri. Là comincia il Pakistan.”
La mattina seguente il cielo è terso mentre risaliamo i tornanti verso il Passo di Khargush. La strada corre a lato di uno strapiombo e ogni volta che incrociamo un tir, Ali deve accostare o superare con perizia. Saliamo rapidamente di quota e il paesaggio diventa sempre più lunare. Al valico tocchiamo i 4200 metri e sentiamo le nostre teste come alleggerite in seguito alla rapida ascesa. Facciamo incontri naturalistici degni di nota, prima con alcuni cammelli vaganti poi con un’aquila reale ferma su un prato, forse per deporre le uova. Arriviamo al Lago di Bulunkul, che ci regala uno spettacolo meraviglioso: L’acqua cristallina rifrange le montagne sullo sfondo e le nuvole, colorandosi di diverse tonalità. Alcuni nomadi kirghisi che abitano alcune ‘yurte’(tende di feltro delle popolazioni dell’Asia Centrale) vicino alla riva ci invitano per un chay.
Il villaggio di Bulunkul all’altitudine di 3700 metri sorge vicino all’omonimo lago, in mezzo al nulla. Le vecchie case di fango sembrano un tutt’uno con l’altipiano desertico su cui sorgono. E’ proprio in una di queste che dormiremo stanotte. Gli abitanti affollano una sorta di piazzola principale, fatta di terra battuta e in un baleno siamo circondati dai bimbi. Giocano con noi e sono costantemente incuriositi dalla macchina fotografica che ho con me. Gli mostro le mie foto, e parlo con i vecchi del paese. Scopriamo quanto sia dura la vita qui: Manca l’elettricità e i viveri sono trasportati in fuoristrada dai centri più grandi di Murghab e Khorugh. Tutto ciò fa da contrasto con l’energia vitale dei piccoli tagiki, che felici e liberi corrono sui prati e saltano da un torrente all’altro.
Al calare del sole mangiamo seduti in terra e Thomas si diverte a suonare la chitarra. L’appetito non è molto e avverto una leggera emicrania vista l’altezza in cui ci troviamo. Quando staccano l’alimentatore di corrente verso le nove, dobbiamo ricorrere alle nostre lampade frontali per far luce. Fuori il buio totale insieme all’aria gelida del Pamir sono suggestivi. Anche andare in bagno non è una cosa semplice in queste condizioni, calcolando che dista duecento metri rispetto a dove siamo, e solo alcuni mesi fa nel cuore della notte alcuni bambini del villaggio sono stati divorati dai lupi, che numerosi popolano queste lande selvagge…
La strada verso Murghab è poesia pura; Chilometri e chilometri di altopiano brullo che ricordano il nostro Campo Imperatore in Abruzzo, solcati da un’unica strada dritta, dove potreste anche non vedere un auto in tutta la giornata. La popolazione qui è già kirghisa. Ritornano gli occhi a mandorla e scompare il farsi. Si veste, si mangia e si parla kirghiso.
A Murghab dobbiamo salutare Ali, che non proseguirà con noi verso la frontiera con il Kirghizistan, dove gli chiederebbero 500 $ solo per passare… Veniamo affidati a un tassista uzbeko di Osh che fa avanti e indietro spesso dal confine. Il suo nome è Gulcha, 37 anni e padre di 5 figli. Indossa un ‘kufi’ islamico bianco e può conversare esclusivamente con me in russo, non sapendo una parola di inglese.
Ci avventuriamo con la sua jeep alla volta del Passo Ak-Baital, il punto più alto del nostro percorso, a 4600 metri di altitudine. Il cielo assume un colore spettrale, e all’ improvviso ci ritroviamo a costeggiare il confine cinese nella nostra rotta verso nord, delimitato da una interminabile rete metallica, interrotta in diversi punti e facilmente attraversabile. Il terreno detritico costringe Gulcha a una guida molto attenta, e a volte è persino costretto ad uscire dalla strada principale. All’ Ak-Baital siamo accolti da una fitta nevicata, mentre incrociamo alcuni ciclisti che si arrampicano coraggiosamente sotto la tormenta; Sono molti gli amanti della bici a percorrere la ‘Pamir Highway’ nella stagione buona.
Dopo una repentina discesa, usciamo dalle nuvole e giungiamo in vista di Karakul, adagiato sull’omonimo lago. Si tratta del secondo lago più alto del mondo a 3700 metri sul livello del mare, circondato da giganti alti più di settemila metri.
Una pace surreale regna in questo villaggio desolato, tutto bianco e dall’aspetto decrepito. Non ci sono negozi, né corrente elettrica, né acqua corrente. E’ il regno del silenzio, dove fra vie sterrate, uomini in ‘kalpak’ dalle lunghe barbe e donne che tirano su il secchio dal pozzo, sembra che tradizioni secolari resistano ancora fiere al mondo globalizzato. Forse fra dieci anni troveremo anche qui resort turistici e tutte le comodità del momento. Ma per ora lo voglio ricordare così questo posto, sospeso nel tempo, nel cuore perduto dell’Asia.
Dormiamo da una famiglia di kirghisi, insieme a diversi ciclisti di varie nazionalità: americani, polacchi spagnoli; Ci sono persino degli scalatori olandesi di ritorno da una spedizione. Un po’ di mal di montagna si fa sentire la sera, l’appetito manca e sento la mia testa che pulsa. So che devo bere il più possibile a quasi quattromila metri, ma avvicinarmi alla zuppa che ci servono per cena insieme a del pane rinsecchito è quasi impossibile. Mi chiedo dentro di me come possa essere possibile la vita da queste parti in pieno inverno, e ripenso agli sguardi curiosi e dolci dei bimbi di Karakul oggi pomeriggio. Infreddolito e stanco crollo nel sonno, avvolto nel piumone.
Un bianco risveglio ci attende al mattino, visto che la neve è caduta copiosa durante la notte. Ci avviamo verso il Passo Kyzylart che segna il confine tagiko-kirghiso. L’ultimo valico ad oltre 4000 metri da noi raggiunto, dove possiamo fermarci un attimo per ammirare per l’ultima volta la lunga strada che si perde fra l’altopiano e i monti in lontananza. Tra il respiro affannoso e la mente che si riempie di ricordi.
Al check point tagiko abbiamo qualche problema… alcuni poliziotti ci ritirano i passaporti e si inventano che c’è da pagare una tassa ulteriore di circa 50 dollari. Gulcha ci invita a fare tutto quello che dicono, ed un doganiere mi fa cenno di seguirlo dentro al suo ufficio. Mi faccio coraggio e dopo una breve trattativa mi invento che saremmo riusciti a racimolare in tre solo 200 somoni. I militari annuiscono e fortunatamente riusciamo a passarla liscia senza ulteriori complicazioni. La frontiera kirghisa e’ invece più rapida, e la ‘militsia’ coi cappelloni di stampo sovietico sorride e inneggia a “Totti”, dopo aver visto la mia provenienza sul documento.
Tornare in Kirghizistan mi fa un effetto un po’ strano, è come se fosse Svizzera in confronto al Tagikistan. A cominciare dall’asfalto che torna ad essere più regolare. Circondati da praterie sconfinate, tra mandrie di cavalli selvaggi e qualche yurta isolata, coi picchi innevati sullo sfondo. Passiamo attraverso il villaggio di Sary-Tash dove la strada si biforca e a destra sale al Passo Torugart verso il Sinkiang in Cina. Noi prendiamo la direzione opposta fino a Sary-Mogol, alle pendici del celebre Pik Lenin, nostra meta conclusiva. Non facciamo in tempo a fermarci per fare benzina, che subito catturiamo l’attenzione di una famiglia di ritorno da un matrimonio, appena scesa dalla marshrutka. Ci improvvisano una specie di festa di benvenuto, ci donano i kalpak e del cibo fresco. La loro simpaticissima figlioletta ci suona persino un pezzo in francese, dedicato a Thomas e una delle donne presenti, con un fazzoletto a fiori e i denti dorati, ci invita a trovarla al suo banco al mercato Dordoi di Bishkek.
Nel villaggio, decadente e polveroso, mangiamo un samsi, che si rivelerà una delle esperienze più terribili dei miei quaranta giorni in Asia. Le condizioni igieniche sono precarie, ed è da Karakul che mi porto dietro i primi sintomi di una fastidiosa dissenteria. Subito dopo saliamo a un accampamento di yurte, proprio sotto il Pik Lenin e non lontano dal suo campo base alpinistico, con l’idea di pernottare in una tenda nomadica e godere dell’alba al cospetto del primo settemila della mia vita. Incrociamo le dita affinchè il meteo regga e ci scaldiamo accanto alla stufa della nostra yurta. La notte trascorre piovosa e fredda. Ci troviamo oltre i tremila metri e mi sveglio continuamente a causa delle scariche di diarrea, senza appetito e con il retrogusto fritto del samsi ancora sullo stomaco. Sono costretto a prendere dell’ imodium e bevo continuamente coca cola per reintegrare liquidi, ma non serve a molto. Solo negli ultimi due giorni di viaggio perderò ben 6 chili…
Alle 6.00 veniamo svegliati da Thomas, che euforico ci invita a prepararci; Infatti le nuvole che avvolgono le montagne si stanno dissolvendo, e presto potremo vedere il Pik Lenin in tutto il suo splendore. Saliamo verso un punto panoramico, che domina la vallata e a un certo punto un gigante di neve candida, colorato di rosa dai raggi del sole nascente, si staglia di fronte a noi. Estasiati dalla visione di quella che è considerata una delle più alte vette del Pamir, restiamo ad ammirare le pareti completamente bianche, interrotte ogni tanto dalle linee dei crepacci. Si tratta di una cima tecnicamente “facile” , banco di prova per numerosi alpinisti sovietici in passato e oggetto di tentativi di revisione storica, dopo la caduta dell’URSS, che ne hanno modificato il nome in Picco Avicenna o Dell’Indipendenza. Dopo una intensa sessione fotografica, ci prepariamo alla nostra meta finale, la città di Osh.
Le note arabeggianti di canzoni kirghise allo stereo accompagnano il nostro ritorno alla civiltà, mentre Gulcha si concentra sulla strada a tornanti. Il paesaggio cambia mano a mano che perdiamo quota e anche la temperatura si scalda, ricordandoci che siamo ancora in estate. Nel tardo pomeriggio raggiungiamo la Valle di Fergana e quindi Osh, dove ad accoglierci c’è un traffico infernale di automobilisti che tornano da lavoro. La città ha più spiccate caratteristiche asiatiche, rispetto alla capitale Bishkek di stile più russo ed è un autentico crocevia di razze, con una consistente fetta di popolazione uzbeka. Gulcha ci lascia di fronte ad un caffè del centro e con una stretta di mano ci congediamo: “Udachi Luka…bud schastliv (Buona fortuna Luca…tanta felicità)” . Dopo esserci rifocillati arriva il momento dei saluti anche con i miei compagni di viaggio. Thomas proseguirà per Arslanbob, una località più a nord prima di spostarsi in India e continuare il suo lungo viaggio. Mat tornerà a Dushanbe, spezzando l’itinerario in due giorni. Ci abbracciamo e i destini di tre viaggiatori si separano nuovamente. Non faccio in tempo a fermarmi nella piscina di un hotel strada facendo, per rilassarmi dalle fatiche e fare un bagno, in attesa del mio volo serale per Bishkek, che sono subito invitato da alcuni dei presenti per un brindisi a base di vodka.
LUCA ACITELLI
Follow Us