Ucraina coast to coast: la Ritirata

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Non esiste un viaggio che inizi con la partenza e termini col ritorno, forse soltanto quelli tristemente organizzati in villaggi di stoccaggio turisti di massa, compresi di braccialetti all inclusive, escursioni ridicole, animatori sfracassa palle e quant’altro il progresso ed il benessere economico garantiscano ai nostri giorni. Un Viaggio, con la V maiuscola e non per vendetta, può iniziare in qualsiasi momento, nasce da un’idea, da una promessa, da una curiostità o da una lettura, la sua fine non è nel mesto ritorno a casa, nel disfare i bagagli e tornare al lavoro, il suo termine è difficile da identificare, semplicemente perchè un vero Viaggio, non ha una vera fine ma soltanto l’inizio del successivo.

Tempo fa, treno espresso (si fa per dire…) WarsawKrakow, prime ore di un pomeriggio polacco grigio e privo di colore. L’inverno polacco, per chi non lo conoscesse è da provare, non aspettatevi cose incredibili, freddo a tratti pungente, plumbee colorazioni del mondo e, se va bene, neve in abbondanza. Io e il Maestro venivamo da alcuni mesi di separazione se non gradita per lo meno salutare per i nostri fisici ormai provati dai gotti insieme ingurgitati, specialmente quelli che ci avevano visti protagonisti nei balordi dell’autunno quando, tra fine settembre e novembre, era iniziato il mio erasmus in terra di confine, in quel di Bialystok. Quella volta fu un viaggio nel viaggio, diretti a Rzeszow per celebrare il primo week end del nuovo anno il nostro scompartimento era popolato per lo più da polacconi appartenenti alla tipica specie degli orsi buoni, che non poco conciliavano le nostre menti (certo qualche donzella indigena avrebbe avuto effetti migliori.. ma si sa.. la sfiga). I nostri vaneggiamenti, già rodati dalle vodke e dalle birrette dei giorni precedenti, ci portarono in quelle ore di viaggio a ideare una nuova grandiosa trasferta, dal sapore storico memorialistico, che si sarebbe dovuta realizzare soltanto nelle vicinanze del matrimonio di uno dei due, mio o del Maestro… “La ritirata di Russia”. In tutti i nostri viaggi, infatti, da quando frequentavamo il centro est Europa, il gotto e la sua tradizione alpina, erano stati per noi conforto e stimolo. Mai rifiutarne uno, nella certezza che “noi” … “Saremo tornati dalla Russia…”. Il mio matrimonio, programmato nel frattempo per settembre, forniva a noi due, viaggiatori distratti ma non troppo, l’occasione per pianificare e realizzare quel progetto. In dicembre la messa in cantiere sia dello sfondamento bielorusso che della Ritirata. I preparativi della partenza, caratterizzati da uno studio “matto e disperatissimo” delle mappe comparate della ritirata dei nostri Alpini dalla Russia nell’inverno ’42-’43, da un infinito numero di contrattazioni con indigeni locali che avrebbero potuto rivelarsi ottimi autisti a prezzi modici e da una selezione accuratissima delle nostre tappe, l’obiettivo era ovviamente, oltre a ripercorrere strade storiche per la nostra armata montana, sostare in centri abitati più o meno popolosi (mai sotto le 150 – 200 mila unità) che potessero garantire a due esausti viaggiatori quali saremo stati io ed il Maestro, una calorosa quanto familiare e discreta ospitalità. Ai primi di aprile l’itinerario era quasi pronto. La nostra ritirata prevedeva volo diretto Treviso  -Kiev, noleggio autovettura targata Ucraina (l’ipotesi autista era infatti tramontata causa esose quanto puntigliose pretese del nostro contatto.. Misha) nell’area arrivi del suddetto aereoporto, traversata della steppa Craina ed arrivo a Kharkiv in serata, opzionalmente, nel caso le nostre condizioni fossero state precarie, sosta a 100 km dalla meta, nella “ridente” Poltava. Da li, Kharkiv o Poltava non importa, inizio ritirata con destinazioni Sumy, Chernigov, Rivne ed infine L’viv. Ancora una volta, dopo l’interlocutoria trasferta bielorussa, l’intera organizzazione del viaggio spettava al sottoscritto. Il Vulcano islandese, risvegliatosi dopo secoli di rispettoso silenzio, fa prendere un bruttissimo colpo al sottoscritto quando, la sera del 15 aprile, a poche ore dalla nostra partenza una mail della mai troppo lodata Wizz m’informa che i voli per l’ Irlanda, l’ Inghilterra e i paesi scandinavi saranno cancellati causa ceneri isolane. Fortunatamente Kiev, località prevista per il nostro approdo in terra giallo azzurra, non rientra tra le basi a rischio, così come la “bollicina” del nord-est (Treviso…). Il mattino del 16 aprile sono finalmente pronto per la partenza, solito equipaggiamento da viaggio di media durata, borsa porta computer, valigia da stiva, per metà occupata da ottime bottiglie, di eccellenti annate, delle più pregiate produzioni vinicole venete, ovvero 2 bozze dell’amarone da me prodotto nel 2006 e una del nobile Maculan di Breganza (Brentino 2004). Rispetto alle partenze tipiche dei nostri viaggi, io ed il Maestro saremo in quest’occasione scortati all’aereostazione di Treviso da mio padre con special guest mia madre. Tutto procede per il verso giusto, l’ora e l’oscurità che ancora avvolgono tangenziali e autostrade venete invitano al sonno più profondo ma allo stesso tempo l’eccitazione che pervade le nostre anime prima di ogni partenza ci tiene svegli ed assorti, quasi rimiranti il paesaggio familiare che stiamo per lasciare alle spalle, pronti, ancora una volta, ad andare oltre, alla scoperta di un paese che non conosciamo. Poco prima di Venezia insistenti e fitti banchi di nebbia ci fanno temere il peggio, non si è mai visto che un volo venga cancellato per nebbia a metà aprile, ma i cattivi pensieri, sia pure non esplicitati reciprocamente, passano dalla mia mente a quella del Maestro. Fortunatamente una volta a destinazione la visibilità è più che buona, scaricati i bagagli, saluto i miei genitori e mi avvio placidamente all’ingresso dell’aereoporto, il Maestro mi segue lentamente ma col passo deciso di chi è consapevole del Viaggio che lo aspetta. Conoscevo già lo scalo trevigiano che mi aveva in precedenza colpito per disorganizzazione e fancazzismo, impressioni che sembrano ampliamente confermate. Al check in due lunghe code attendono l’apertura dei banchi d’accettazione, al primo piano della struttura in legno e simil vetro che accoglie i passeggeri. Un po’ a intuito, un po’ a memoria e un po’ perchè col cazzo che mi faccio mezz’ora di coda, iniziamo solitari un’altra fila di fronte agli schermi vuoti del check in. Incredibile ma vero… con circa 15 minuti di ritardo ecco apparire davanti a noi le hostess pronte a consegnarci i biglietti e un momento di felicità. Nemmeno il tempo di congratularsi vicendevolmente per la fortunata scelta che, preceduta da borse, borsoni e sacchi, una donna di ucràina provenienza sulla cinquantina ci butta fuori dalla fila sostituendoci con i suoi figli, cugini, nipoti e buona parte dell’albero genealogico. Tra l’allibito e l’infastidito cerco conforto nello sguardo del Maestro, che in questa situazione non sa darmi alcuna spiegazione, se non confermare dubbioso i miei sentimenti. Dalle retrovie della colonna umana in attesa giungono davanti a noi, minuto dopo minuto, sempre più amici e parenti della “simpatica” donnina di Craina che, a chi cerchi di farle notare la maleducazione sottostante le sue azioni, risponde stizzita ed offesa. Tra tutti spicca il figlio maggiore della donna. Un mix fra Shevchenko e Ringo Star che col suo stracazzo di cappellino con la visiera rompe non poco i coglioni. Tale soggetto infastidisce la platea con uno sguardo fiero, per lo più immotivato, di se stesso. Decidiamo allora di attuare una strategia a blocco, così, mentre il Maestro blocca l’affluenza abusiva dal lato sinistro della fila, piazzando la mia valigia su quello destro mi porto all’accettazione senza problemi. Dovendo pagare il bagaglio in stiva ci rechiamo alla cassa Wizz, dove le scene penose della famiglia Karamazow si ripetono sullo stesso copione, arrivando questa volta a scavalcare le transenne tra l’incredulità generale. Evitiamo commenti offensivi; sia pure un po’ allucinati da questo primo assaggio di Ucraina, ci mettiamo l’anima in pace attendendo il nostro turno e ricordando le parole che un’educata signora dell’est poco prima ci aveva rivolto “Pazienza e umiltà: state andando in un paese dove tante cose non vanno. Pazienza ed umiltà”… sti cazzi… alquanto inquietante… ma così è. Il volo procede tranquillo, parecchi km sopra ogni piccola nuvola che tenta inutilmente di offuscare il cielo europeo in questo primo scorcio di primavera. Al mio fianco lato finestrino siede un assonnato Maestro che, prudente ed inconsapevole, sapendo di dover guidare una volta giunti a Kiev preferisce non bere nulla, per cui la birretta Wizz tocca al sottoscritto. Tra una sorsata e l’altra attacco bottone con la passeggiera che siede al mio fianco lato corridoio, una moracciona occhi di ghiaccio con un’apertura di gamba notevole ed uno stile che non può non ricordare la mitica spia russa perdutamente innamorata del grande ispettore Closeau. Nei panni del goffo ispettore francese avvio un’interessante conversazione, la mia vicina proviene dalla lontana Siberia e si sta recando a Kiev per incontrare amici. A mia precisa e diretta domanda su come sia la Siberia, segue perentoria e tagliente risposta “è grande”… ah però… non avrei mai detto. Giunti a Kiev, passati gli interminabili minuti che separano un atterraggio da uno sbarco, regoliamo i nostri orologi sull’ora locale e ci dirigiamo all’ingresso dell’aereoporto. Appena dentro un senso di calca e caos invadono i nostri animi stupiti. Il grande salone degli arrivi è totalmente intasato causa controllo passaporti che in questa regione, esclusa da ogni convenzione di Shcenghelliana memoria è ancora un rito tutto da espletare. A portare conforto e sorriso ebete d’ordinanza sui nostri volti le tre splendide “generalesse” dell’esercito ucraino (saran state anche soldati semplici della militja di frontiera, ma sti cazzi…). Assodato il totale disinteresse delle tre grazie di Boryspil ci impegniamo nella compilazione di quella carta di soggiorno, divenutaci familiare dopo la trasferta bielorussa, necessaria per entrare e uscire dal paese. Tutto fila liscio (senza mance e senza sequestri…), si aprono le porte automatiche, ed ecco il caos all’ennesima potenza, nulla a che fare con l’ordinata equazione di traffico degli aereoporti europei, qui passeggeri, personale, tassisti e mendicanti sembrano un formicaio impazzito. Troviamo conforto nell’ufficio della Budget rent car dove, Jury, un ragazzo sui 25 con l’aria del manager arrivato, sembra ansioso di scroccarci ben più di quanto preventivatoci (non dubitate, ci riuscirà benissimo). La nostra tanto sognata Skoda 1.2 è purtroppo assente, per cui ci dovremo accontentare di una elegantissima Polo 1.2, nera fiammante. Dopo quasi un’ora di burocratiche rotture di balle finalmente abbiamo la nostra auto chiavi in mano. Il Maestro, con mia grande sorpresa mi chiede se me la senta di guidare, ovvio che si. Chieste un paio di delucidazioni sulla miglior strada per Kharkiv il nostro Jury ci illumina così “in fondo a destra, poi sempre dritti”. Cioè son 500 km da fare e sto genio ci rivela l’arcano con due frasi… idolo avrà ragione lui. Così partiamo quando il mezzodì ucraino ha ormai lasciato la scena al primo pomeriggio, condizioni atmosferiche ottime, strade con discreto traffico ma assolutamente scorrevole, machina dotata di ogni comfort, dal lettore cd al porta lattine. Si parte, direzione est est est (citando la sigla vescovile per i migliori vini d’ Italia ideata dall’avvinazzato porporato teutonico Fugger), fronte del Don. I primi km vengono fatti attraversando il paesino di Boryspil prima che la strada si perda nella sconfinata steppa “craina” (così d’ora in poi sarà rinominata la parte est dell’ Ucraina per differenziarla nettamente dall’”ucrè”, ossia dalla parte ovest), rinomata per le sue distese di grano, girasoli e terra nera come il carbone, che il sole fa luccicare come sabbia infuocata. Incredibilmente lunghi tratti di strada sono, sia pure devastati da ciò che sembra restare di un ex campo minato, a due corsie per senso di marcia. Macchina in affitto, strade oscene ma larghe, palla lunga e pedalare, accelero sin oltre i 120 km|h, fedele al mio motto “finchè si può facciam strada”. Il Maestro reagisce abbastanza titubante a tale motto, sostenendo che, se ben ricorda l’andazzo del caro vecchio est, siamo ad alto rischio pattuglie, per cui meglio palla corta gioco di sponda e imboscati dietro ai tir, specie nei lunghi ed infiniti tratti rettilinei. Ovviamente faccio di testa mia, ovviamente dopo nemmeno mezz’ora di strada una paletta spunta da un distributore, una vecchia Lada tappata da milicja mi fa capire che forse il Maestro, porta tale nome per qualcosa. Solite scene, documenti, do you speack english, pan mowie po polsku, po angielsku, po wlosku… un cazzo. Scendo dalla macchina per non contravvenire all’ordine del sorridente maresciallo (o giù di lì..) gentilmente mi viene mostrato il limite del codice stradale craino e la mia velocità. In centro abitato vige il limite dei 60 orari, io andavo ai 100, tutto regolare, ma dove cazzo è il centro abitato…??? Problemi miei e del nostro obsoleto concetto di centro abitato. Già perchè da ste parti un cartello con quattro case stilizzate vale più di 1000 abitanti. Girando un pochino attorno alla cosa capisco che con 20 euro tutto si può risolvere, torno in auto chiedo pezzi piccoli al Maestro che allunga la mano leggiadro. Ripartiamo non dopo aver ascoltato un’ultima lezione di educazione civica sui limiti di velocità, docente, il maresciallo de sto caz… Appresa la lezione inizio a rallentare ad ogni avviso di centro abitato, a sfanalare ad ogni avvistamento di pattuglia e a contare “per hobby” le pattuglie lungo la strada. Agghiacciante, circa una ogni 17 km (il tutto per quasi 500 km…. fate voi i conti… 27 in 479 km). Le ore di viaggio passano liete, ammiriamo e cominciamo a commentare le infinite distese che separano i minuti gruppi di case, spalmati per il lungo su distanze esagerate, dalle altre. Le abitazioni di campagna, vere e proprie isbe, sono solitamente mal tenute, poco curate, tali da apparire ad una prima occhiata quasi disabitate. Gli steccati di legno scoloriti, i fienili decadenti, gli orti invasi dalle erbacce. Le uniche testimonianze di vita sono silenziosamente portate dalle vecchie donne craine, capelli raccolti in un foular, che sedute ai bordi della strada di fronte alla loro abitazione attendono pazientemente che qualcuno accosti per acquistare una mela, un uovo o un vasetto di miele che con disordinata compostezza, attende d’esser venduto di fronte a loro. Spesso, se ad ogni casa corrisponde un cestello di prodotti da vendere, si può soltanto scorgere una vecchina ogni tre o quattro case. Qui gli anni non sono passati. Le case, le persone, gli animi, le idee. Siamo lontani, troppo lontani. Pausa. Foto e doppia P, come sempre gesti semplici ma immortali. Eccoci alle porte di Poltava, l’ingresso nella città, nella regione, ci sono ampiamente anticipate da imponenti colonne di cemento che ai lati della strada recano inciso l’emblema ed i colori dello stendardo cittadino. Il traffico, i blocchi grigio e giallino decadenti, i semafori, il caos calmo ed i tir di sovietica memoria (imponenti camion col davanti tremendamente arrotondato a parentesi graffa). Tutto questo e altro ancora è la Craina, tutto questo e altro ancora è, e sarà, Poltava. La fame inizia lentamente a farsi sentire, uno spiazzo, un centro “quasi commerciale”, un bancomat ed ecco le hryvne fare la loro comparsa sulla scena del racconto. Questo strano soldo che ancora lotta per sopravvivere all’inflazione di euro e dollaro, si presenta ai nostri occhi variopinto e sgualcito. Nessun signoraggio, nessuna vendetta… abbiamo fame. La città com’è logico che sia, non invita alla tradizione ma al moderno, decidiamo di far strada sino alla prossima bettola dove, siamo sicuri, potremo essere dissetati e sfamati come solo in Craina è possibile fare. La strada scorre talmente suadente sotto le nostre ruote che i km fatti sono molti più di quelli voluti. Ci fermiamo a soli 130 km dalla nostra meta, la regina dell’est, lei, l’unica, Kharkiv. Città che, ospitando gli ospedali da campo della prima e della seconda guerra mondiale, tanto sollievo arrecò alle nostre truppe e forse, chissà, saprà recare a noi due mendicanti di strada. La bettola che ci ospita per il pranzo (16.45 ora locale…??) è alquanto deserta, il parcheggio curato ci illude, l’interno desolato ci risveglia. Il cirillico che compare a chiare lettere nel menù che la dolce camerierina ci consegna, quasi intimorita dal nostro idioma tanto forestiero, ci induce a non poche e profonde riflessioni. Detto fra noi… non ci capivamo un cazzo. Così scatta la fase due. Occhi innocenti, tentativi linguistici indecenti e… e… e … la specialità dell’italyan style… the Body language. Arriviamo, dopo circa 13 tentativi di mimo falliti alla Aldo Giovanni e Giacomo, ad ordinare una zuppa di “..?..frytki” ed uno spezzatino di carne indefinito (mostratoci da crudo…) che speriamo non essere fegato. Il tutto innaffiato da una mitica red bull (per il sottoscritto… mea culpa mea grandissima culpa) e da una luminosissima birra alla spina di madre patria Craina per il Maestro… il meglio del meglio. Mangiamo per otto, scopriamo che il pane, da queste parti (granaio d’ Europa), è più prezioso dell’oro, paghiamo… nulla, o quasi. La mitica Polo, rimembrante i fasti della vecchia Passat del Maestro, pedala sull’arcigno asfalto, o simil tale, Craino con leggiadra pesantezza. Paesaggi, odori e colori si fondono in poche e mai dome note musicali che la nostra auto mixa magicamente, “Io son di un altra razza…. son bombarolo….” Come De Andrè cantava decenni or sono, così noi oggi ci presentiamo alle porte d’una città che, fatta eccezione per la targa infernale di Dantesca memoria, ci accoglie fredda ed imponente fra i suoi figli…. Kharkiv.
Maestro siamo arrivati…
Trovato agilmente il parcheggio, posto sul retro dell’imponente edificio recante gli stendardi e il nome dell’ hotel, infiliamo la nostra autovettura tra un discreto ma volgare Porsche Ceyenne ed una notevole ma scontata Bmw serie 7. Scopriremo essere, in questa parte del mondo, tra le macchine più diffuse (per pochi) e apprezzate.
Penetrando timidamente nell’albergo dalla porta sul retro, tra l’indifferenza e la sorpresa del personale (dubito avessero mai visto una macchina di cilindrata inferiore al 2000), non possiamo fare a meno di notare le finiture interne della struttura, veramente ben curate. I colori predominanti una volta giunti nella hall sono il verde e l’oro di poltrone e tendaggi che stupendamente si sposano col rosso marmoreo e il nero granito dei pavimenti lucenti. Il tutto riscaldato da alcuni lampadari stile primo novecento che fanno risplendere di luce viva bancone e tavolini in legno scuro massiccio.
I receptionist, una ragazza e due ragazzi, giovani ma all’apparenza molto svegli, ci accolgono in buon inglese, dichiaro orgogliosamente di aver una camera riservata per una notte (si… come al solito una soltanto…), consegno i documenti miei e del Maestro, raccolto nel frattempo in un profondo quanto profetico silenzio, ricevendo in cambio le chiavi della stanza. Numero 606… si va a incominciare.
Le prime difficoltà insorgono quando, salutato in perfetto Italyan Style “l’allegra” brigata della hall, ci troviamo all’interno dell’ascensore. Qui, nonostante gli sforzi cognitivi che impiegano le menti mie e del mio compagno di viaggio, la gabbia metallica non ne vuol saperne di partire. Inseriamo chiavi magnetiche, premiamo pulsanti, scarpiamo le porte scorrevoli, accarezziamo la pulsantiera… niente. Fortunatamente, uno dei due ragazzi, afferrata al volo la drammaticità della situazione ci soccorre prontamente effettuando, chiavi alla mano, una veloce operazione che prevede nell’ordine: inserimento chiave magnetica nell’apposita fessura, rapida pressione sul tasto indicante la chiusura delle porte ed infine vellutato tocco di fioretto sul pulsante recante inciso il numero del piano. Arrivarci noi…? buonanotte, figurarsi poi se dovessimo tornare in serata leggermente alterati dai fumi alcolici, possibilità, nel nostro caso non poi così remota; un problema per volta.
Camera eccezionale, degna del nostro vecchio compagno di bisbocce, l’ Hotel Ambasador di Rzeszow, con delle cromature che ricordano vagamente il primo amore polacco del Maestro, il mai troppo rimpianto Hotel Europa di Lublin.
Depositati i bagagli, stabilite le solite priorità, cesso, doccia e gotto….(stiamo ancora lavorando sul come espletarle in contemporanea) siamo pronti a sbrigare le solite mille procedure necessarie ad un buon inizio di serata. Mentre la doccia bollente riscalda il mio corpo intirizzito dal viaggio e dall’umidità della piovosa giornata di primavera che sta giungendo al termine, non posso non fermarmi per qualche secondo a pensare a me ed al Maestro, alla strada fatta insieme, alle distanze e soprattutto alle culture, ai mondi che ci separano da casa. Mai banali.
Raggiungo il mio mentore al piano di sotto, bancone del bar, piwo e sigaro. Il massimo. Il fumo denso che un toscano d’annata sprigiona nell’aria, impregnando immagini ed emozioni, è un qualcosa di indescrivibile ad animi astemi di vita.
La birra ucraina, a differenza della polacca, scende più delicata nello stomaco ed ogni sorso invita al seguente. Dopo aver scambiato le solite considerazioni pre serata, circa dinamiche cittadine ed aspettative reciproche, sogni e perchè no, speranze, siamo pronti a lanciarci nella night life di Kharkiv.
Prima di uscire, chiediamo, al gentilissimo staff del Chichikov hotel di indicarci un paio di posti cui sfamare i nostri corpi.  Il butel dal biondo ciuffo, dopo una rapida consultazione con la ragazza della reception, detta alla suddetta fanciulla una lista di nomi. Per le cibarie le indicazioni ci giungono a voce, il posto è molto vicino, raggiungibile a piedi senza problemi (perfetto…); Fidele restoran…. stiamo arrivando, of course, non prima di aver gentilmente accettato i due ombrelli, di cui il vispo biondino con la faccia da buono ci omaggia prima della nostra dipartita. Seguendo le precise indicazioni verbali e grafiche che la nostra fighissima mappa della città (targata Chichicov…) reca segnate in blu biro, giungiamo in pochi minuti alla nostra destinazione, Fidele Restoran, rinominato per parsimonia Fidel.
Scesa la ripida ed impervia rampa di scale, abbandonando la strada maestra e trafficata, ormai già piena di graziose creature, non possiamo non interrogarci sul cosa ci stia aspettando al fine di quei quattro gradoni. Risposta; una morettina pazzesca seduta tra il guardaroba e l’ingresso del locale, gambe accavallate, caschetto moro portato con non indifferente eleganza, occhioni verdi che sti cazzi che la mamma di bambi li aveva così. Cupido, risvegliato dopo un lungo letargo, sta già giocando a freccette con i cuori miei e del Maestro, fraccando a bersaglio non poche frecciate.
Depositata la giacca, spalancato sorrisone d’ordinanza all’irraggiungibile mora dell’entrata, passiamo la tendina filante di gomma rossiccia e ci troviamo di fronte il sorriso d’una biondina d’altri tempi che sembra chiedere, nell’intimità della sera, che diavolo ci stiano facendo due anime perse come le nostre in una città così distante dal mondo, dalla realtà. Un benemerito nulla, sarebbe la giusta risposta. Quella che i nostri sguardi comunicano è ben diversa ed è intrisa d’Infinito.
Ci accomodiamo in una delle tre sale (quattro contando quella spezzata a metà dalle tende di colore blu), di cui si compone il grazioso e caloroso ristorante di terra craina. L’atmosfera è soffusa, la musica avvolgente e soltanto accennata in un sottofondo ancora tutto da scoprire. Alcuni tavoli presentano, ai piedi, imponenti Narghilè emananti orientali aromi di “tutto”. La piastrellatura del locale, quasi a richiamare bizantini mosaici, colora e riscalda un ambiente soave e suadente. Le foto in bianco e nero (pudicamente raffiguranti donne ed uomini in atteggiameneti ben più che intimi…) che costeggiano le pareti, squarciano brutalmente un’armonia quasi perfetta di profumi, colori ed odori, andando incredibilmente a colmare il vuoto dell’umana imperfezione.
Ordinate , quasi meccanicamente ed inconsciamente due bistecche e due birre ci troviamo a fissare negli occhi una gigantografia che inchioda una stupenda e soave bellezza femminile, accanto al suo uomo, nel momento che segue al piacere.
La cena prosegue tranquilla, una birra, due birre, un dolce al cioccolato, soavemente consigliatomi dalla bionda camerierina (colei che meglio padroneggiava il britannico idioma…), fanno volare i minuti di una serata d’avventura e frenesia.
La domanda che ormai attanaglia le anime di noi, viaggiatori in terra orientale, è una sola. Dove assuefare la nostre serate, in una città così grande e sconosciuta..?.. ci viene in prezioso quanto provvidenziale aiuto la ragazza dal biondo e ridente capello, tanto abile nel padroneggiare la lingua inglese, che su un pezzo di carta che porta impresso il logo “fidele”, compone tre nomi soavemente rieccheggianti nelle nostre teste… “Bolero” – “Misto” – “Parmup”. Il sorriso con cui a precisa domanda indica i primi due nomi come meglio del meglio ci fa ben sperare.
Rientrati in hotel per la consueta organizzazione tattica, composta da lavata di denti e liberazione fisica del basso ventre, scesi nella hall chiamiamo a noi lo sveglio biondo della reception chiedendo gentilmente quale, fra i tre nomi rivelatici dalla dama del Fidel, sia il più adatto per la serata, un venerdì anonimo  e qualunque.
La risposta, dopo attenta e approfondita analisi, ci viene servita a chiare lettere. Misto club... the best today.
Prego il giovane di chiamare taxi a pochi soldi, noi turisti ma non totalmente rincoglioniti, quindi niente chiavate. Il tassista, chiamato puntualmente a prezzo calmierato, soggiunge dopo pochi minuti a bordo d’una non poco elegante bmw, targata un anno, nulla a che vedere con la vettura d’epoca gentilmente offertaci in quel di Grodno.
Seduti col fare degli uomini vissuti sui sedili posteriori del taxi, pronti a tutto, ci gustiamo il paesaggio di blocchi e vialoni sovietici che a fasi alterne compongono la città, ormai appena illuminata dai fari delle auto e dalle luminarie a bordo a strada.
Dopo poco più di 5 minuti eccoci a destinazione, un hollywoodiana entrata ci spalanca le porte del Misto club. Il venerdì si prospetta niente male, molte auto in coda, ragazze da favola accalcate gli ingressi, metal detector stile aereoporto alle entrate… dove cazzo siamo capitati…???
Lasciata a malincuore la digitale al guardaroba, accompagnata da uno smagliante sorriso anni ’50 alla biondina dell’ingresso, eccoci entrare suadenti nel piano casinò del locale… slot machine, roulette, tavoli da poker… chi cazzo se ne frega.
Salita una scalinata imperiale stile “uccelli di rovo” ecco aprirsi ai nostri occhi uno spettacolo difficilmente descrivibile… Quante caz… sono…??
Assurdo, dai tempi di Grodno 2010 non potevamo annoverare cotante bellezze indigene alla nostra provata vista. Una dopo l’altra, quasi fosse una sfilata, bellezze di ogni colore, sapore, profumo o stile appaiono ai nostri occhi, ancora esterefatti e bisognosi di soccorso immediato. Nulla può ormai trattenere l’ormone dormiente della mia anima. Applausi a ripetizione squarciano il fragoroso rumore delle hit pop di madre patria Craina, fragorosi applausi recanti nome e cognome, il mio.
Il Maestro, tra l’inibito e il frastornato cerca, inutilmente, di riportarmi alla calma. Niente da fare. Soltanto una vodka, offertami con affetto fraterno, può sopire per alcuni istanti la mia anima scatenata.
Il freddo distillato insapore mi da modo di osservare il locale, composto da una prima sala dove prevale un sound commerciale ma imperdibile cui si accede dalla sommità della scalinata. Nel bel mezzo è posizionato un palco a più livelli ognuno dei quali collegato da gradoni sino ad una specie di balconata. La pista da ballo a forma di mezza luna si adagia lungo il semicerchio del palco delimitata dalle ringhiere delle postazioni tavolo-divanetto. Sul retro del pacchianissimo palco un punto di ristoro ben dotato di vodka e affini. Un brevissimo corridoio collega direttamente ad una seconda e più “tecno-style” sala da ballo. Qui… qui… un degenero attiva ormone detonato da cubiste seminude che danzano (…se così si può dire) tra un lungo bar ovale e delle apposite postazioni  cubo dotate di tutti i comfort, dalla pertica stile pompieri a delle futuristiche docce a cascata e luci ultraviolette… I barman posti ai due lati dell’ingresso si dilettano in coktail mangia fuoco che fischietto alla bocca vengono fatti trangugiare alla russa ai malcapitati avventori. Che figata… voglio subito provare un “gas chamber” in memoria dei bei tempi passati al Jazz Club di Rzeszow. Il Maestro sta quasi per approvare, poi però declina l’invito rientrando nella prima sala. Senza dubbio meno volgare e più a portata di puntata della seconda.
Dopo le prime sette-otto vodke stiamo finalmente prendendo confidenza con la pista, via via che passano i minuti si riempie sempre più di regali bellezze craine. Il mio ormone ormai impazzito e risvegliato di colpo dopo il lungo inverno mi fa fare la spola tra i bar della sala tecno-volgare e la pista da ballo della room commerciale, neanche fossi una pallina da flipper anni ottanta. L’unica differenza è che ogni tot minuti applaudo accoratamente a tutto il locale al grido di “Su le maniiii Kharkiv…….. suuuuu leeee maniiiii”… come i vocalist della peggior specie nei locali italici della peggior specie. Al che, incontrato il Maestro a metà strada tra banco e pista da ballo, lo abbraccio e impongo urlandogli in faccia “Domaniiii siamo ancora qua…!!!”. Il Maestro impotente di fronte a sto degenero, mio e del locale, annuisce e poi non può far altro che sfogare stress e pulsioni terrene tra una danza e una puntata fugace, intervallando queste sfiancanti attività da lunghe soste ristoratrici a suon di vodka. Tali soste, arrivate ormai le 4 del mattino, cominceranno a dare i loro risultati. Il viaggio, le emozioni, la serata, la stanchezza. Il Maestro siede ormai imbronciato con sé stesso e il mondo all’angolo del banco. Io, troppo distratto dalla sfilata che per tutta la notte i miei poveri neuroni hanno dovuto razionalizzare, molto più attivo in pista nello sfogare ogni singola goccia di vodka degustata sono, sia pur esausto, in condizioni considerevolmente migliori. Decido di farmi carico del mio compagno nel frattempo sceso al banco della sala casinò, al piano di sotto. Come prevedibile non ne vuol sapere di ascoltarmi così, prima che gli orsi della security dopo averlo adocchiato passino all’azione, mi reco all’uscita dove sfrutto il sorrisone anni 50′ sfoggiato ad inizio serata alla biondina dell’ingresso. Le spiego con voce suadente e mimica patetica la situazione di estrema difficoltà in cui si trova il mio compagno di viaggio, di come non voglia dare nessun fastidio e che purtroppo la colpa è tutta della vodka, che noi poveri italiani non siamo abituati a bere (il Maestro si vendicherà per questo…). La gentilissima ragazza, ormai in lacrime, decide di andare di persona a palare col mio amico che, non potendo dire di no ad una ragazza tanto a modo, si lascia convincere a raggiungermi al guardaroba.
Taxi e rientro in hotel. Questa prima nottata in terra craina, là dove la Russia strizza l’occhio ai confini dell’ovest, corteggiando e bramando una terra che vorrebbe far sua, ci lascia una certezza. Vogliamo saperne di più, non batteremo in ritirata di fronte a tutto questo. No di certo.
Il mattino avrà anche l’oro in bocca ma noi, appena alzati per la colazione, abbiamo più che altro la morte in bocca. Quella strana sensazione di reimpasto denso e stopposo che lega palato e lingua nel post sbronza vodkiana lascia sempre perplessi. Scesi nella hall salutiamo i simpatici receptionist ormai eletti a nostri idoli locali, saliamo le scale a chiocciola che conducono alla sala ristorante e ci accomodiamo per la colazione. Tutto molto curato, si va dal dolce al salato, sprechi praticamente ridotti all’osso. Il Maestro è abbastanza taciturno, non so se a causa della ciclona della nottata appena trascorsa o semplicemente perchè intende farsi i cazzi suoi. Ridiscesi verso l’ascensore stringo la mano e ringrazio calorosamente uno dei ragazzi della hall che la mia mente annebbiata identifica come colui che ci ha gentilmente indicato il Misto club. Mentre lo abbraccio questo mi guarda dubbioso e perplesso. Dirigendomi verso l’ascensore il Maestro mi fa notare che lui se lo ricordava diverso e mi mette il dubbio non si tratti del ragazzo della sera prima. Fermatomi a metà strada lo fisso per alcuni istanti, mi rigiro verso il “butel” dell’hotel e realizzo che ho appena esaltato ed abbracciato un perfetto sconosciuto mai visto in vita mia. Mi scappa una mezza risata accolta dalle taglienti parole del mio fedele compagno di viaggio… “Sei un cretino”.
Pochi minuti in camera poi decidiamo di avviare l’esplorazione con relativa mappatura della città o per lo meno dei dintorni dell’albergo. Il sole già splende scintillante nel cielo di Kharkiv, l’aria fresca del mattino è senza dubbio il miglior rimedio ai postumi alcolici, meglio se accompagnata da una coca fresca. Appena usciti, mappa cittadina alla mano, ci dirigiamo con passo sicuro verso il lato a sud del fantomatico quanto inesistente centro cittadino. Lo squallore svelato ad ogni angolo, le file disordinate di vecchie trabant e lada arrugginite e borbottanti che intasano gli incroci, le facciate scrostate di blocchi e palazzi sono solo alcune delle realtà di questo mondo così diverso dal nostro. Così come le splendide modelle acqua e sapone che affollano marciapiedi e locali a tutte le ore del giorno e della notte. Questo e altro ancora è l’Est.
Dopo una veloce visita alla metropolitana, che decidiamo di non provare soltanto per non dover affrontare la complicata gestione dell’acquisto del biglietto, ridiscendiamo verso il fiume cittadino ma trovata una caffetteria decidiamo d’infilarci a bere la sudatissima coca del giorno dopo resa in questo caso indimenticabile dal sorriso di una splendida fanciulla dal lungo capello castano. Risaliti in zona fidel resturant da una parallela meno trafficata decidiamo di provare il ristorante Abajeur, giusto per una birra (io..) ed una thè caldo (il Maestro..). Posto molto bello e curato, caldo ed accogliente, praticamente deserto. I camerieri non spiaccicano una parola di nessun idioma a noi conosciuto, dal polacco all’inglese, risultato si ordina a gesti. Questa complessa operazione si rivelerà fallimentare a causa di i dubbi del Maestro che, cambiando l’ordine, manderà in confusione il giovane e un pochino ebete ragazzo mandato allo sbaraglio a prendere la nostra comanda. Risultato… oltre alla mia birra arrivano thè e coca cola in abbondanza, evitiamo chiarimenti anche perchè non sapremo mai come esprimerci.
Rientrati in hotel decidiamo che il lavoro di mappatura per oggi può bastare, si apre così l’ennesima delicatissima questione da sbrogliare. Dove pranziamo…???
Le ipotesi sono ovviamente due (fossero di più le nostre menti entrerebbero in sciopero…) scontate all’inverosimile, tornare tra le braccia e gli sguardi ammiccanti delle bellissime grazie del Fidel o affogare i confusi ricordi della nottata precedente in una bozza dell’ Amarone da me prodotto nel 2006 e battente circa 16.5 gradi alcool nel ristorante dell’albergo??? Decidiamo in nome di una nazional popolare par condicio (e di una crisi d’astinenza alcolico enologica importante) per la seconda opzione, riservandoci ovviamente sguardi, grazie e quant’altro di prezioso il Fidel ci potrà offrire, per la cena.
Dopo aver gentilmente chiesto alla dolce receptionist il permesso di poter dissetarci alla sacra fonte di una buona borgognotta nostrana, il tutto con mimica dignitosamente patetica, ringrazio con pseudo inchino a mani giunte, neanche mi avessero concesso la grazia di fronte alla pena capitale, ma si sa… the italian style.
Le comiche sono ovviamente appena agli inizi. Il cameriere del ristorante, 100% puro manzo  “craino”, alto, spalle da guardaroba, spazzolina bionda alla ivan drago dei tempi d’oro ma sguardo da orso salmonato bonaccione (alla polacca per intenderci…) ci accoglie con sorriso palesemente impostato che scopriremo essere stampato indelebilmente a oltranza  sul suo volto. Dopo aver ricevuto l’english menù d’ordinanza inizio a spiegare l’ingarbugliata questione enologica. Nella mia immensa geniale ingenuità provo una prima operazione di aggiramento problema… ossia… chiedo un cavatappi.
Il tutto si risolverà in un nulla di fatto. Senza mai cambiare espressione del volto, con conseguente fastidio da parte mia, il buon giovane s’impunta a voler offrire un servizio “impeccabile”, all’altezza dei rinomati standard craini… nella difficile situazione in cui mi trovo il Maestro non mi è ovviamente di nessun aiuto, da buon economista è infatti fermo sostenitore del “lasciar fare” di liberalista memoria, per cui son semplicemente cazzi miei.
Appurato che non avrò mai un cavatappi accetto, a malincuore, di affidare nelle poderose manone del fastidioso quanto sorridente ebete in divisa la mia preziosa essenza di uvaggi valpolicella. Seguendo con lo sguardo la dipartita dell’omone e soprattutto della bozza stretta avidamente nelle sue mani, diretti entrambi verso il bancone del ristorante non posso non esprimere la mia preoccupazione, rivivendo emotivamente i momenti del rapimento di Lucia Mondella da parte dell’Innominato.
Il Maestro, ancora impegnato in un impari lotta per la sopravvivenza del post ciclona, ha un solo sussulto quando esclamo a gran voce “Ma che cazz… sta facendo…???”. Vedere un armadio di due metri porre  impacciato una bottiglia di amarone in un secchiello colmo di ghiaccio non ha prezzo. Alzatomi, facendo ampi gesti con le mani, le braccia, gli occhi, la mandibola riesco a far capire al salmonato in camicia bianca che è consigliabile evitare un abbattimento della temperatura tanto drastico per un vino rosso. A questo punto, oltre al dramma che sto vivendo personalmente, si consuma un secondo inaspettato quanto non richiesto dramma… l’inettitudine del salmone lo porta all’impasse. Zero azione, zero reazione, sguardo fisso perso nel vuoto cosmico. L’iniziativa decisionista che tanto aveva contraddistinto questo giovane craino svanisce in un nulla di fatto. Un’esistenza sospesa fra una bozza e un secchiello pieno di ghiaccio, freddo ed inutile come una vodka servita calda.
Mosso da compassione decido per un’azione di forza. Chiamato a me l’ormai svuotato guardaroba biondo spiego che, essendo rosso il contenuto della bottiglia, il ghiaccio è forse superfluo. Questo, in un misto fra canto del cigno e sussulto d’orgoglio giallo azzurro, dopo aver annuito con la testa sfodera la genialata più democristiana che la fertile terra craina abbia mai visto. Dopo pochi minuti la mia bottiglia giunge, ancora chiusa, in un secchiello del ghiaccio, calorosamente vuoto.
Evitando ulteriori, vuote, considerazioni circa le complesse operazioni di stappatura, mi limiterò ad affermare che la bottiglia si rivelerà organoletticamente eccezionale, il Maestro non sarà purtroppo in grado di confermare tale affermazione in quanto, pur dissetandosi ad ampie sorsate dal mio nettare, si dichiarerà a distanza di alcuni mesi, palesemente incapace d’intendere e volere un buon bicchiere in tale, difficile, drammatica situazione.
Nulla sa essere più avvolgente, gradito e rassicurante di una buona dormita pomeridiana post viaggio, sbronza, innamoramento misto e filosofeggiante pranzo in terra straniera. Quando la pesante tenda bordeaux della camera  si chiude scivolando sulla finestra  della stanza, il calore d’una canzone romantica, l’atmosfera d’una terra lontana e il senso di vuoto d’un primo Novecento che ritorna attuale oggi avvolgono le nostre anime sazie di tutto e niente. Desiderose di tutto e niente.
Il risveglio tardo pomeridiano, all’alba della sera, è una cosa che pochi artisti, poeti e scrittori hanno mai affrontato. La complessità delle emozioni, la vaghezza dei ricordi del momento è forse troppo anche per loro, o semplicemente, come ogni buon innamorato sa, è cosa questa troppo intima e preziosa per essere scritta o raccontata ad un pubblico volgare e spesso non meritevole. Non sarò certo io a rompere questa tradizione. Non oggi, non ora. Basti sapere che dopo un ristoratore quanto elitario sonnecchio una bollente e pungente doccia sa essere sempre la miglior compagna di viaggio.
Poche parole col Maestro. Monosillabi. Gesti. Sguardi. Sigaro e birra.
Ormai esperti e navigati conoscitori della realtà cittadina che ci circonda e abbraccia in una strana quanto amichevole fraterna atmosfera ci rechiamo con passo deciso al Fidele resturant dove, con piglio ormai scontato, la bellezza intima della morettina dell’ingresso che altro ruolo non ha che regalare un sogno ai distratti avventori del locale, ci accoglie e coccola in un delicato gioco di sguardi.
Birra, ciccia, soufflè al cioccolato con gelato alla menta. Narghilè al latte e ciliegia scaldano la serata in un’intrigante atmosfera di condivisione.
A sto punto altro non resta che pianificare la complessa serata che ci aspetta. Forse. Si potrebbe. Malgrado tutto. Sebbene. Misto Club. Ovvio.
Usciamo poco dopo le 22 di un sabato sera d’ordinaria follia per le strade ormai ricolme di bellezza ed estasianti fragranze di Kharkiv.
La scanzonatura con cui saltelliamo gioiosi sui marciapiedi cittadini ha dell’incredibile. Consci di ciò che ci aspetta, esaltati da tale idea, non possiamo non essere impazienti di vivere un’altra serata in terra di confine, come sempre la miglior location per guardare oltre. Il traffico cittadino si dipana in un serpentone scostante di luci, suoni e poderosi aromi di smog e benzina. In fondo anche in questo disordine volgare ed inutilmente frenetico sta il fascino di questa metropoli.
Rieccoci in albergo, saliamo e scendiamo dalla stanza in pochi attimi, receptionist. Taxi. Calmierato. Thanks.
Ecco un’imponente  Ml dal manto nero luccicante come la notte e  rivestito di teutonico splendore accostare al nostro fianco. Assurdo. Ci aspetta un’altra entrata in grande stile al prezzo di ben 4 euro diviso due….
Dopo pochi metri, appena ridiscesi nella principale rotonda cittadina, una traballante lada già pregusta la vendetta craina ai danni dell’imperialismo automobilistico tedesco. Tale obsoleta e russofila vettura ha infatti impressa la ben nota scritta “milicja” a chiare lettere sulle fiancata ed un solerte tutore dell’ordine ritiene giusto vestire le panni del moderno Robin Hood facendo pagare allo sfortunato tassista una mancetta decisamente insensata. Il nostro autista, nonostante la disavventura paga, riparte e non rincara la corsa di un centesimo.
Eccoci sul red carpet più popolato di Kharkiv. Noi e loro. Dove “loro” sta per un numero sterminato di bellezze che come sottolineava il mio buon vecchio barbone di un prof di matematica liceale “è tendente all’infinito…”… Solo ora capisco l’utilità della trigonometria e la sua materializzazione concreta.
Entrando, ormai pratici di metal detector, “perquise” stile stadio e quant’altro questo rilassato localino di danze e bagordi mette a disposizione della selezionata clientela, ci al piano superiore non guardando nemmeno i magnaccia intenti a dilapidare inezie milionarie al casinò.
La sala commerciale questa sera è splendidamente vestita a festa. Lungo le gradinate ottocentesche del soppalco già numerose danzatrici si esibiscono in passi a due notevoli. I tavolini a bordo pista brulicano di vita. Vodkina d’ordinanza. Anzi meglio due. Le danze si aprono a ventaglio con diverse occhiate lanciate qua e la. Atmosfera d’assoluta assuefazione. Per noi e per chi ste cose non le vedrà mai. Dopo un altro paio di ghiacciate punture alla gola marchiate “Finlandia” vodka sono pronto a metter il naso nella più volgare sala tecno “?” del locale. Oggi l’ambiente è decisamente più caldo e vivo. “Meno tecno più elemento fondamentale” .
Decido noncurante le malsane possibili conseguenze e gli sguardi titubanti del Maestro, vero mentore e censore dei miei comportamenti in terra straniera di ordinare una sorta di “brucia, bevi e aspira”. Coktail senza dubbio importante.
Mentre tento goffamente di ordinare al mio miglior amico ucraino della serata, il barman, una gentile e aggraziata biondina dal vellutato trucco pastello sul viso, mi apostrofa in maniera alquanto diretta. “Sei italiano…???”… e che caz….
Come sempre tra l’infastidito e l’inorgoglito confermo l’arcano. Nikola si dimostra molto interessante. Venticinquenne dal carattere forte ha vissuto quasi tre anni in Italia, nel torinese dove dice di avere una specie di fidanzato che non si decide a mollar la moglie per lei… della serie… e vissero tutti felici e contenti.
Il suo padroneggiare l’idioma dantesco mi affascina, tutto il suo resto ancor di più. Spigliata, senza troppi peli sulla lingua si lascia andare in esaltanti apprezzamenti circa l’ars amatoria italica. Concordando su tutto la invito a ballare… lei, dolcemente e soavemente come soltanto una bellezza di tale spessore sa esprimersi, mi sussurra all’orecchio di non poter ballare stasera…e con la punta della lingua mi accarezza l’orecchio. Non capisco più una mazza tendente all’infinito. Numero di telefono all’istante. La saluto ripromettendomi di risentirla l’indomani ed inizio a trangugiare il trangugiabile. Tra danze e gotti ripiglio il Maestro cui racconto l’accaduto e specifico che “Domaniiii siamo ancoraaaa quaaaa….”. Come sfondare una porta aperta. Il mio fidato e saggio compagno di viaggio annuisce sghignazzando di fronte all’ennesimo degenero firmato Est.
Tirate circa le 4 e trenta decidiamo di far gamba verso la branda che ci aspetta amica in quel del Chicichov hotel. Vaneggiando circa le due serate trascorse in città, su ciò che sto ammasso di blocchi, cemento, squallore, degrado, povertà e ricchezza nasconda al suo interno ci troviamo in camera col sole che timidamente s’affaccia dietro i palazzoni cementiferi delle periferie. Non ora grazie. Tiriamo le tende e salutiamo il giorno chiudendo gli occhi.
Il paludoso risveglio delle nostre mandibole ci ricorda il nostro più recente passato. Sono quasi le nove e trenta e la colazione ci aspetta. Il mitico orso salmonato è oggi di turno mattutino nella luminosa sala ristorante. Lo saluto distrattamente e con fare alcolico compassionevole. Tutto troppo scontato, banale, familiare e proprio per questo avvincente. Trovarsi a proprio agio a oltre 3000 km da casa è una sensazione unica e come sempre estasiante. Colazione all’insegna della parsimonia mangereccia e dell’abbondanza analcolica. Minerale e orange juice la fan da padroni. Nel tentativo distratto a finalmente sobrio di metter ordine in questo assurdo scorcio di ritirata di Russia, che sempre più sembra degenerare in gran balla craina, fissiamo come limite ultimo buono per la dipartita alla volta dell’ovest l’indomani mattina. Nemmeno troppo convinti usciamo in strada per esplorare la parte nord del centro cittadino e i suoi dintorni. La città è già viva. La domenica è vissuta ancora con l’aspettativa e la festa del giorno più bello. Famigliole, coppiette, gruppi di giovani si accalcano a piedi per le strade riscaldate da un già poderoso sole tardo primaverile.
Piazza della Libertà ha più le sembianze d’un rondò metropolitano che della piazza principe cittadina. La cattedrale dell’Assunzione è quanto di più ortodosso un fedele cristiano possa immaginare, qualcosa che da parte cattolica genera una velata dose d’invidia. Il calore sta generando strani effetti ai nostri corpi, troviamo riparo appena oltre il monumento ai lavoratori, nei parchi cittadini pieni di vita, colore e spensierata quotidianità ucraina. Seduti ad un chiosco per due birrette decidiamo di rientrare verso l’hotel. La fame si fa sentire, risvegliata dal dorato liquido alcolico appena degustato, in maniera importante. La Celentano pizzeria, catena di specialità italiane giallo azzurra, risuona al nostro sguardo ebete come il canto delle sirene risuonava nel fine udito del buon Ulisse. Ordinate due pizze molto semplificate rispetto ai menù, due cochine e due occhioni sognanti non possiamo certo ritenerci insoddisfatti.
Sono ormai le 15 passate quando, poco prima di lasciarmi cadere in un sonnecchio ristoratore, decido senz’infamia e senza lode, di spedire un coinciso sms alla bella Nikola che tanto ardentemente aveva ravvivato la nottata appena trascorsa. Neanche tre secondi e lo scampanellare soave d’un vecchio samsung molto base, risveglia il mio primo sonno e mi fa concordare un appuntamento per la serata. Aperitivo. Ore 18.30 circa. Fidele Restoran… ovvio. Giochiamo in casa anche in trasferta.
Sono le cinque p.m passate da poco quando il bollente scrosciare d’una doccia craina accompagnandosi alle più belle hit del momento sveglia il non poco infastidito Maestro che manda platealmente in quel posto il sottoscritto, le mie conoscenze notturne e il mio soave ardore amatorio. Tirato a lucido, nello sbattere la porta, avviso il mio buon mentore di sbrigarsi.
Accomodato su una poltrona in pelle, acceso il mozzicone morente d’un ultimo toscanello, ordinata una mezza di birra sprigiono emozione e malcelato autocompiacimento. Da tre giorni in città e già sappiamo come muoverci, dove andare, chi incontrare. Tutto troppo bello.
Bevo una seconda birra per far compagnia al Maestro che nel frattempo è ridisceso nella hall al mio fianco. Giunti al Fidele, avvisati tramite messaggio d’un leggero ritardo da parte della nostra amica indigena, ordiniamo un’altra birretta a nostro totale agio nel locale ancora semideserto, fantasticando circa il gradito ospite che stiamo attendendo. La domanda principe che attanaglia i nostri provati animi è… “ te la ricordi….???”….
Una ventata di speziata essenza di bello precede l’ingresso dell’affascinante Nikola. Eccola scolpita da un jeans azzurro chiaro e una magliettina con variazioni di blu e grigio appena accennate che non poco si sposano col solito viso da acquarello tardo ottocentesco che tanto avevano colpito il mio etilico rincoglionimento la sera precedente. Nello spalancare il più bel sorriso della serata saluta con riguardo il Maestro e mi sfiora leggermente il viso. La conversazione procede a strappi. Il tasso alcolico è ancora esageratamente basso ed inconsistente per metter becco nei nostri discorsi. Parliamo di lei, di noi, della serata trascorsa al Misto e di quella che sta per iniziare. Apprendiamo con cadaverica espressione facciale che il Misto club chiude di domenica e lunedì. Esultiamo di giubilo alla notizia che la domenica è immancabile tradizione cittadina recarsi al Bolero club….
Caffè e vodka, saluti.
Ci diamo appuntamento alle 22 circa per recarci assieme al tanto agognato club serale. Nikola ci saluta e soavemente esce di scena.
Due veronesi. Soli. Lontani. Con quasi tre ore di nulla da passare. Non ci resta altro che insaccarci di gotti. Tra birre e narghilè, un concerto acustico d’incantevole voce femminile e discreto accompagnamento chitarristico, determina un insperato sold out al  caloroso Fidele. Bene così. L’ora si fa tarda. Poco dopo le 21 usciamo allegri come non mai in direzione hotel dove chiederemo l’ultima, scontata, doverosa, essenziale conferma circa la destinazione palesemente offertaci dalla bella Nikola.
Il Bolero riceve la scontata approvazione generale, tra grida di giubilo, folle festanti, receptionist in lacrime lasciamo il bel Chichov montando sull’ormai scontata Mercedes blu notte che c’aspetta all’ingresso.
Pochi secondi ed ecco un sms di Nikola informarci che passerà la serata a casa. Stanchezza e lavoro. Da parte nostra malcelato fastidio. Forse un po’ di preoccupazione. Temiamo addirittura la gran serata stile “The Hostel”. Che date le circostanze sarebbe un degenero senza fine e un totele sbattimento. Sguardo da uomini vissuti perso tra i blocchi ormai sterminati che si affacciano minacciosi ai finestrini bui del taxi. Optiamo per un profilo basso assoluto. I km che ci separano dall’albergo sono ormai almeno una decina. La periferia che ci abbraccia cupa e sovieticamente paternalista ci rassicura, non troppo. Eccoci a destinazione. Un parcheggio cementifero appena illuminato decreta la fine della corsa. Chiediamo ormai balbettanti “where is Bolero…”. Il tassista, intento a contare il soldo pattuito, indica svogliato una porta in vetro soffusamente risplendente di buio all’angolo d’un palazzone grigio di quattro o cinque piani. Tra taxi ed entrata decretiamo che stanotte si rientrerà presto. Ancora una volta guardandoci attorno non scrutiamo null’altro che blocchi resi simili a scacchiere dalle finestre illuminate, cemento, grigio e notte. Le stelle han deciso di stare a nanna.
La perquisa dei buttafuori è alquanto sgraziata. Il biglietto costa quasi tre euro. Saliamo le scale per giungere al piano rialzato teorica sede del tanto declamato Bolero club. Un tendaggio rosso opaco ci introduce nel più deserto dei locali da me visti in terra straniera.
Corridoio con entrata sulla pista, banco del bar sul fondo del locale. Divanetti e tavolini deserti o frequentati dai più gran magnaccia cittadina costeggiano pista e bancone. Un ingiacchettato manager da club ci vuole propinare un tavolo. No grazie. Un divanetto con tavolino in vetro vista pista, appena all’ingresso, sembra fare al caso nostro. Prendo coraggio e propongo un giro di vodka red bull per migliorare riflessi e ravvivare la situazione, almeno interiore, dei nostri corpi. Sorseggiando il dolciastro e sintetico liquido ghiacciato, adagiati su di un comodo divanetto, osserviamo le immagini trasmesse dai grandi lcd incentrate sulle serate festanti del locale. Quasi fossero messaggi propagandistici d’un vecchio regime m’insacco di fronte a quell’infinito di bello. Quasi emozionato mi faccio un altro giro di vodredbull. Tornato sul divanetto ben presidiato dal Maestro, ecco sfilare di fronte a noi un quartetto d’archi notevole. Subito dopo due amiche d’infanzia sembrano celebrare festanti un nuovo incontro, bellissime. Gli schermi e le loro affollate immagini sembrano prendere vita di fronte a noi. Non si distingue più il sogno dalla realtà. Ordino e scolo un terzo cocktail del toro rosso. Il Maestro, ancora al palo del primo, sorride, sghignazza e m’invita alla calma. Inizio ad agitarmi. La nostra postazione è ormai il fulcro del locale. Dopo i buttafuori siamo ormai eletti a seconda selezione del locale. Si festeggia con un’ennesima vodka redbull quando mezzanotte è scoccata da poco e di zucche, scarpette, principi nemmeno l’ombra. Soltanto fate e principesse affollano l’ormai gremito club di craina periferia.
Il dj apre le danze. La pista si riempie. Fuoco alle polveri. Il profilo basso tanto declamato ad inizio serata è ormai un ricordo lontano. Le paure di hostelliana memoria, la bella Nikola, tutto sembra distante. Circondato da ciò che è bello m’improvviso novello Sampei e gioco a pescare le più belle donzelle del locale con mimica ai limiti del ridicolo (forse molto oltre…). Il Maestro è sbigottito. Io carico. Attaccato bottone col barman mi scolo un gas chamber con sei alcolici e un’aspirata etilica spaziale. Il mio buon mentore ormai mi segue a ruota. Siamo già al secondo mangia fuoco estasiati di fonte a tutto ciò che vive in questa stravagante location post sovietica.
Trangugio a fatica un terzo ed ultimo devastante cocktail aspirante. Il fischietto del buon pelato dietro il bancone sancisce la mia vittoria, nel contempo la mia fine. Tento barcollando un’ultima incursione in pista. Troppo tardi. Uno stato comatoso avanzato si sta rapidamente impadronendo delle mie funzioni vitali. Arrivo al bagno quando ormai null’altro che la vista è in mio possesso. La piastrellatura bianca, lucida, splendente e luccicante del wc targato Bolero è una diapositiva inceppata nella mia memoria. La voce ridondante del Maestro che mi avvisa dei buttafuori ormai consci della mia situazione, minacciosi a pochi passi da me è l’unica hit che la mia mente ancora canticchia.
Due orsi di oltre 100 kg mi stanno trascinando fuori dal bel locale mentre nessun muscolo, cuore e polmoni a parte, sembra voler rispondere alla mia confusa volontà neurologicamente bruciata dall’alcool.
La discesa delle scale rimane un mistero. Il Maestro finge di premurarsi delle mie condizioni, distratto dall’ingresso di due fanciulle che lo inducono al totale disinteresse nei miei confronti esplicitato da una finta telefonata a voce alta per rimarcare la sua estraneità alla mia situazione e la sua latina provenienza, non è a questo punto biasimabile. Riferito il nome dell’hotel, estratti dieci euro calmierati e preteso di pagare la mia corsa senza chiedere nulla al mio fraterno mentore, mi affloscio sul sedile impregnato di fumo d’una vecchia lada grigio scuro rivestita a taxi. Sono quasi le due del mattino. Oblio. Notte. Null’altro che buio.
CESK
( utente del forum viaggiatorindipendenti.it )
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