Siamo in Georgia, precisamente in Ajaria ma abbiamo ancora voglia di frontiera dopo l’ esperienza prolungata di qualche giorno fa al confine con l’ Abkhazia. Ed allora decidiamo di dirigerci in Turchia, il tempo di sciacquarci nel lato turco del mar Nero e rientrare. D’ altronde siamo a pochissimi chilometri, sarebbe un peccato non testare anche questa frontiera, appassionati come siamo. La giornata è caldissima e non abbiamo bisogno di molti effetti personali considerato che dobbiamo restare tutto il giorno a mollo in acqua, per questo ci presentiamo in frontiera a Sarpi in abbigliamento da spiaggia. Io forse esagero in eleganza con maglietta bianca da pizzaiolo, costume colorato, occhiali da sole a goccia stile “CHiPs” (il telefilm) e tappine ai piedi. Per i pochi effetti personali al seguito opto per una soluzione geniale: una busta bianca del supermercato sotto casa.
Giungiamo in frontiera intasata dal riversamento di decine di turisti iraniani che rientrano a casa transitando dalla Turchia. Forse siamo gli unici stranieri, nel senso di non iraniani. Folla che spinge e sole battente creano un mix esplosivo tanto che i poliziotti georgiani fanno fatica a contenere la gente. Tra spintoni e l’ incunearsi negli spazi stretti della calca riusciamo comunque ad inserirci alla dogana. Il nervosismo tra doganieri ed iraniani è tanto. Perdo di vista i miei compagni che comunque passano senza problemi.
Io, per motivi di “studio di frontiera”, esibisco la carta d’ identità al posto del passaporto. Il poliziotto va in tilt. Mi fa attendere l’ arrivo di un superiore mentre tutti gli altri iraniani mi sfilano davanti. Il superiore sembra capirci qualcosa in quella strana situazione con la carta d’ identità e dà l’ assenso al mio passaggio. Riesco a ricongiungermi ai miei compagni ed affrontiamo il corridoio artificiale di pochi metri che separa la frontiera georgiana a quella turca. La massa spinge. Il nostro gruppetto finisce in due file separate. Quelli finiti di fianco passano senza problemi, noi al di quà no. Per il poliziotto turco, il compagno di viaggio davanti a me, non è quello della foto poiché non ha gli occhiali. Bisogna così fargli capire che oggi porta le lenti a contatto e si convince solo dopo avergli rivolto qualche domanda e solo dopo avergli fatto inforcare gli occhiali così da sembrare quindi uguale alla foto. Ora tocca a me. Da studioso di frontiere evito di dargli il passaporto e gli allungo la carta d’ identità. Non conosce questo documento, mi intima di consegnargli il passaporto. Cedo alle sue insistenze. Ma non sono quello della foto… anche io oggi porto le lenti a contatto. Anche con me trafila sul perché non porto gli occhiali ed obbligo di provino, indossandoli, per convincerlo. Ok, si passa.
Ma no !
Sfogliando il passaporto non trova il timbro d’ uscita dalla Georgia. E certo che non lo trova, non c’è. Cerco di spiegargli che è inutile che lo cerca e che nessuna pagina del passaporto si è attaccata, semplicemente il timbro d’ uscita non c’è in quanto ho utilizzato la carta d’ identità, il documento che gli ho consegnato prima e che ancora trattiene. Non capisce, in inglese stentato cerca ancora il timbro. Si innervosisce, si altera, chiama al telefono non so chi ma che comunque non arriva. La fila è bloccata e la gente dietro insiste a sbrigarsi. Il poliziotto continua a cercare il timbro, mi rovina una pagina del passaporto ed ora sono io che mi innervosisco. Chiama a raccolta un doganiere addetto a smistare la fila, non di certo un superiore, il quale ci capisce meno di lui. E’ sempre più nervoso, ora non vuole più il timbro ma mi chiede addirittura la carta d’ immigrazione, la stessa che devono compilare gli iraniani. Gli faccio presente che da cittadino dell’ Unione Europea non ho bisogno di carta d’ immigrazione. “Qui siamo in Turchia, non in Unione Europea ! “, grida ricordandomi dove siamo. Perde ancora tempo, esce dal suo gabbiotto e dall’ alto del suo scranno fa volare il mio passaporto e la carta d’ identità gridando come un forsennato: “Dishari ! Dishari ! “ o qualcosa di simile che in turco significa “vattene!”. Il clamore della folla è grande. La calca si zittisce nell’ intero hangar-dogana, raccolgo i miei documenti da terra e la folla dietro di me si apre come quando Mosè fece dividere il mar Rosso. Transito in senso contrario tra due ali di folla. Io italiano, respinto in frontiera tra tanti iraniani. Il poliziotto ha fatto bene. Paghiamo la Turchia due milioni di euro per non far passare i migranti e loro eseguono il lavoro in maniera eccelsa. Respingono proprio gli europei. Ora però sto tornando indietro, in Georgia, nel corridoi sbagliato, nel senso che va verso la Turchia. Come lo spiego ai doganieri georgiani? Noto al di la di un cancello dei soldati turchi intenti a fare la cosa che più gli piace: fumare. Ci provo, non ho alternative. Cerco di fargli capire che sono stato sbattuto fuori e devo tornare indietro. Ci riesco, mi aprono un altro cancello e mi fanno passare nel senso giusto verso la Georgia, ridacchiandomi e prendendomi un pò per il culo. Ora ho fretta però. I miei compagni di viaggio sono già in territorio turco e non hanno mie notizie. Mi muovo offuscato dalla fretta e mi dirigo verso il passaggio auto e camion. Un vecchio facchino che trasporta un carrello mi segnala l’ errore ed effettuo la deviazione in semicorsa. Un poliziotto mi nota e da lontano mi intima l’ alt con un fucile in mano pronto eventualmente ad esplodere qualche colpo. Mi blocco in tempo. Sono in tappine, con una busta, in costume. Un profugo è vestito meglio. Mi chiede spiegazioni, da dove arrivo ma il facchino testimonia a mio favore. Mi incanalo nell’ uscita giusta. Giungo alla dogana georgiana. Una piacente poliziotta mi controlla il passaporto ed in ottimo inglese mi chiede “Ma come? Sei uscito dalla Georgia pochi minuti fa e già ritorni?“… Mi consiglia comunque di rientrare in Georgia, riuscire con un timbro sul passaporto e cosi poter accedere in Turchia senza problemi .
Mi metto a correre, i miei compagni mi aspettano senza notizie ma… alt di nuovo… Una doganiera mi chiede di controllare le valigie… “ma quali valigie? Non lo vedi che sono con una busta… ”, le rispondo in italiano ma lei capisce uguale.
Sono di nuovo a Sarpi nel piazzale antistante la frontiera e mi accingo a riuscire dal territorio georgiano. Ma la fila è diventata clamorosa, orde di iraniani scesi dai bus si accalcano all’ uscita. Ci sarà più di un’ ora di attesa…
Decido che oramai la mia gita in territorio turco è saltata definitivamente e devo avvisare i miei compagni oltreconfine. Ma come? Il mio telefono non prende la linea. Da profugo, credibile per l’ abbigliamento che indosso, chiedo ad un viandante di farmi usare il suo telefono. Mosso a compassione acconsente e riesco ad avvisare i miei compagni che resterò in Georgia e che ci vedremo poi la sera a casa a Batumi.
Era una giornata da trascorrere in spiaggia ed è quello che farò, invece che in Turchia qui a Sarpi al confine. E per dispetto trascorrerò la giornata proprio sulla linea di confine. Scendo in spiaggia e mi attesto non molto lontano dal filo spinato che delimita i due stati e sotto l’ attento sguardo dei militari turchi che mi osservano dalla torretta d’ avvistamento. Prendo il sole con vista frontiera e sguazzo nelle acque del mar Nero nuotando fino a pochi metri da una motovedetta georgiana dotata di mitragliatrice ormeggiata a difesa marina della frontiera.
Una emozione storica.
Sono a metà tra Georgia e Turchia. Di qua c’è una grande chiesa, dall’ altro lato una grande moschea.
Il tempo della spiaggia è terminato, il sole spacca. Vado ad osservare i giovani che si tuffano da un’ alta rupe, in uno scenario suggestivo. La giornata però non è ancora terminata e, forte dell’ esperienza in frontiera con l’ Abkhazia di qualche giorno precedente, mi metto a studiare anche questa di frontiera. Ed il modo migliore è quello di trascorrere il resto della giornata mescolato ai tassisti ed ai nullafacenti del posto. In fondo oggi sono un profugo. E se ne accorge anche un barbone che viene a chiedermi qualche spicciolo, al quale rispondo in italiano: “Ma non lo vedi in che condizioni sono? Sono in tappine e con una busta… sono messo peggio di te…”
LUCA PINGITORE
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