Mi ritrovo di nuovo da solo in un luogo desolato disperso nell’Asia Centrale, come quando sono sceso dal treno poche ore fa a Sary-Shagan. Mi guardo attorno incuriosito e un po’ spaesato, tranquillo e concitato allo stesso tempo. Nonostante mi trovi in una cittadina che conta già un discreto numero di abitanti (a differenza della minuscola Sary-Shagan), nei pressi non c’è quasi anima viva. I palazzi che passo in rassegna con lo sguardo sono tutti parallelepipedi di 3-5 piani grigi o marroni chiari, in prefabbricato o in mattone senza intonaco, non fatiscenti ma pesantemente impolverati. In giro sono poche anche le insegne. Vorrei prendere confidenza con il nuovo posto con la dovuta calma ma il tempo incalza: sono già le cinque del pomeriggio e tra non molto farà buio.
Mi avvio lungo il viale principale battuto da un manto d’asfalto piuttosto sdrucciolato e delimitato ai bordi da cordoli di pietra tinteggiati di bianco e nero, come in ogni paese ex-sovietico che si rispetti. Ogni tanto passa in solitaria qualche macchina, di cui quelle fabbricate nel millennio corrente si contano sulle dita delle mani. Pochi anche i pedoni che si trascinano con manifesta pigrizia. A lato della strada corre come sempre il serpentone grigio del gasdotto che ogni tanto fa dei zig-zag e si dirama, avvolto nella sua guaina di spugna e nastro isolante, a tratti sfasciata se non completamente sbrindellata.
Priozërsk, insomma, può ritenersi a pieno titolo un luogo da “far east” post-sovietico, ultimo avamposto di una civiltà sospesa tra passato e presente e oltre il quale c’è solo la steppa selvaggia. Si ha quasi la sensazione che qui, a Priozërsk, persino la dimensione spaziotemporale sia alterata…
Come già rilevato, la poca gente che si incontra per strada sembra avere un’aria un po’ assonnata, come la città stessa. Le persone sono vestite in modo semplice, con vestiti poco accesi e talvolta consumati. Eppure dai volti non sembra trasparire tristezza quanto più – a mio avviso – rassegnata placidità, o placida rassegnazione. Traspare la condizione di chi è abituato da decenni a vedere i giorni trascorrere allo stesso modo, di chi non si aspetta nulla di ché dal domani perché comunque vadano le cose Priozërsk sarà sempre alla periferia della modernità, e di chi ha visto persino le cose “andar meglio anche quando si stava peggio”. Priozërsk è del resto una di quelle tante città di provincia che si potevano dire relativamente sviluppate al tempo del comunismo ma che dopo il crollo dell’ URSS sono cadute in rovina perdendo produzione e abitanti, salvo essersi rimesse un po’ in sesto solo recentemente e comunque con poche prospettive per il futuro.
Arrivo in quello che sembra essere il centro cittadino: uno spiazzo cementato rettangolare con una statua di marmo raffigurante un qualche personaggio emerito locale eretta a ridosso della strada. Sulla facciata di un palazzo è appeso invece un grande manifesto colorato che celebra i venticinque anni di amicizia tra Kazakistan e Russia, con le rispettive bandiere ai lati e al centro – ovviamente – i due presidenti Nazarbayev e Putin ritratti a mo’ di gigantografia. Mi sembra tra l’altro che ci sia un discreto numero di abitanti etnicamente russi qui a Priozërsk, probabilmente per via del poligono militare attivo in epoca sovietica. Alla mia sinistra c’è una piccola scalinata dove siedono alcune persone e un piccolo ristorante segnalato da un’insegna luminosa, forse la più appariscente vista finora. Mi fermo qui soltanto un momento giusto per riallacciarmi le scarpe e dare una veloce occhiata; il posto non merita in fondo troppe attenzioni. Comincio tuttavia a sentire una certa fame e il ristorante che sta a pochi passi è un’opzione che mi attira. Però la sera sta ormai pian piano calando e decido di passarci più tardi per cena, al ritorno.
Proseguo quindi il cammino e ad un certo punto incrocio un gruppetto di ragazzini con lo zaino in spalla che con tutta probabilità stanno tornando a casa da scuola. Scherzano spensieratamente tra di loro disegnando splendidi sorrisi sui loro volti… Qui non posso esimermi dall’osservare che il sorriso di queste genti asiatiche dagli occhi un po’ a mandorla e gli zigomi pronunciati è di una bellezza e naturalità che lascia incantati, capace di trasmettere una profonda serenità anche qui a Priozërsk (questo è solo un mio giudizio ma credo possa essere universalmente condiviso)… Chissà però se questi ragazzini sono consci di abitare in un posto che ha ben poco da offrire e proporre loro, tagliato fuori dalla modernità globalizzata con le sue opportunità e le sue (spesso false) lusinghe. L’interrogativo quindi che si pone intorno a questi ragazzi è se in futuro rimarranno qui a vivere o se ne andranno, e se rimarranno, fino a quando… Poco più avanti, ad un incrocio, scorgo all’interno di un anonimo edificio in mattoni dall’altra parte della strada una vetrina con paste e altri prodotti da forno. Penso che una capatina lì dentro faccia giusto al caso mio, giusto per mitigare il languorino allo stomaco e addentare qualcosa del posto. Quindi attraverso l’incrocio e mi avvicino all’entrata dove non è presente la minima insegna. Spingo il portone di ferro tutto arrugginito ed entro. Subito l’odore sfizioso, pregnante, leggermente acre della pasta appena fatta e dei vari ripieni mi avvolge e mi stuzzica l’olfatto, e assieme ad esso l’appetito. Dietro il bancone sta una grossa signora in grembiule e copricapelli azzurri, un’autentica babushka kazaka anch’ella dai tratti grezzi e con rughe profonde sul viso. Scendo i tre gradini dell’entrata (il locale è seminterrato). Dentro c’è un’altra signora che attende il suo ordine scambiando nel frattempo qualche parola con l’anziana fornaia. Questa mi rivolge una veloce occhiata indagatrice col suo sguardo senz’altro buono ma penetrante. Io accenno uno zdraste! appena percettibile. Me ne rimango lì defilato e compassato e con lo sguardo vagante. Questi sono luoghi dove solitamente di stranieri non se ne vedono e il mio aspetto marcatamente europeo insieme al giubbino Woolrich che indosso, del tutto alieno al vestire locale, mi mettono immediatamente in posizione di manifesta estraneità. Ciononostante capita spesso da alcune parti che mi scambino per uno del Caucaso, data l’affinità somatica e la barbetta che porto, specie quando vedono che parlo russo. Cosa che probabilmente starà pensando anche questa nonna kazaka.
Scandaglio con lo sguardo la vetrina non proprio lucente di pulito per capire innanzitutto cosa viene offerto. Diversi sono i tipi di sfornati già pronti, dalle pizzette (o presunte tali) a forma circolare agli immancabili chebureki, ma molti di questi impasti non ho in realtà idea di cosa siano né tanto meno so come si chiamino. Non intendo chiedere delucidazioni in proposito, piuttosto cerco di scegliere tra i prodotti più freschi e meno unti (dal momento che in questi luoghi il rischio di intossicazione alimentare è sempre in agguato), quindi opto per tre manty, specie di ravioloni tradizionali bolliti e ripieni di carne macinata molto diffusi in Asia centrale.
Mi domanda se li voglio mangiare subito. Rispondo di sì e li mette a riscaldare. Un minuto dopo me li allunga in un sacchetto. Pago quei pochi tenghé – se non ricordo male poco più di un euro – e mi siedo al tavolino attaccato al muro. Do prima una fugace annusatina di nascosto per sincerarmi della commestibilità di ciò che ho appena preso, quindi mi metto a mangiare lentamente per meglio assaporare e allo stesso tempo non sovraccaricare lo stomaco. I manty che ho appena preso sono davvero saporiti e cucinati a regola d’arte, ripieni di carne di montone che ha il sapore forte e selvatico della steppa… E che verosimilmente mi rimarranno sullo stomaco per tre giorni!
Rimango lì una decina di minuti a consumare lo spuntino ma anche a riscaldarmi. Esco soddisfatto benché sensibilmente appesantito e decido di proseguire la passeggiata per la via laterale perpendicolare alla strada principale, rigorosamente non asfaltata. Mi inoltro in un reticolo di vie una più desolata dell’altra ai cui margini si susseguono file di staccionate sghembe e cancelli sgangherati a schermare isbe di legno e qualche casa di pietra in stile tradizionale. Gli unici o quasi rumori che si sentono sono i guaiti dei tanti cani che abitano il paese, tra cui molti randagi. Qua e là c’è almeno qualche albero a rendere un po’ meno spente queste vie. Ogni tanto comunque, girando l’occhio, si ha modo di rilevare anche la presenza umana: una donna che passa di sfuggita nel giardino con in mano dei panni o delle verdure, o un uomo che fuma vicino alla porta di casa. Questa insomma è la provincia kazaka, praticamente uguale a quella russa: povera, malmessa e malinconica, ma dal vivere quieto, semplice, in una certa misura anche armonico, in un certo senso comunque dignitoso.
In alcuni punti adombrati noto che è presente della neve in piccoli cumuli non sciolti, mentre ormai quasi ovunque lo sterrato, a tratti più simile a poltiglia, va irrigidendosi e ghiacciandosi in superficie: la temperatura si sta abbassando allo zero. Oltre al gelo però sta calando anche il buio. Meglio quindi che torni verso il viale principale, ché di lampioni qui intorno non se ne vedono né sembra ci sia altro da vedere.
Nel giro di un quarto d’ora faccio ritorno, orientandomi a naso, sul viale principale, illuminato a tratti da sparuti lampioni. Presto sono di nuovo nella piazzetta con la statua di marmo e il ristorante dall’insegna luminosa. Lungo quella che è la strada principale della cittadina non c’è quasi più nessuno; anche di svaghi serali pare non ce ne siano qui a Priozërsk.
Come già mi proponevo di fare, opto per un salto nel piccolo ristorante della piazzetta: i gustosi manty di tre quarti d’ora fa non hanno saziato il mio appetito e prima di ripartire ho bisogno di una rifocillata come si deve. Mi sistemo il giubbino ed entro nel locale. Il posto dà l’impressione di essere, più che un ristorante kazako, un comune ristorante russo, e infatti dalla cucina esce una donna russa in grembiule viola che rimane lì a guardarmi senza sprecarsi in saluti o sorrisi di cortesia. Ma va bene comunque, decido di rimanere. Intanto così approfitto per prendermi un borsch, la tipica minestra russa di barbabietole con pezzi di carne lessa, che non mangio da parecchio tempo e che senz’altro saprà aiutare il mio stomaco nella dura lotta contro i manty e la loro carne di montone! Per rimanere in tema ordino da bere un bicchiere di kvas, la tipica bevanda russa ottenuta dalla fermentazione del grano (al gusto una via di mezzo tra coca-cola e birra), anche questa da tempo latitante al mio palato.
Persino gli unici clienti, setto o otto uomini raccolti ad un unico tavolo, sono chiaramente russi. Mangiano abbondantemente discorrendo tra loro, e a giudicare dai loro discorsi fanno parte del personale militare o tecnico russo di stanza al poligono di Sary-Shagan. Fanno sì un po’ di chiasso ma nulla di eccessivo né fastidioso, almeno non ci si annoia. In sottofondo, infine, si alternano allegre e malinconiche canzoni russe anni ‘90 a rendere ancor più caratteristica l’atmosfera. Nel ristorante c’è il wifi e colgo l’occasione anche per riprendere un attimo “contatto con il resto del mondo”…
In pochi minuti arrivano kvas e borsch. Che dire: consumo questa cena fuori dal comune cercando di assaporarne tutto l’agrodolce ma intenso gusto post-sovietico!
Verso fine pasto ricevo la telefonata di Erlan che mi dice che a breve passa a prendermi.
Pago quel poco che devo lasciando una piccola mancia. Ho il tempo di uscire per una boccata d’aria e un mezzo sigaro rimasto da quelli portati dall’Italia. Fuori è completamente buio, il freddo umido si fa sentire sulla pelle e il silenzio è rotto solo da alcuni soliti guaiti di cani. Sfrutto il momento per riprendere nella mia mente pensieri personali avulsi da questi luoghi…
Arriva cinque minuti dopo Erlan a bordo della sua macchina-taxi in mezza derapata sulla ghiaia e con musica tradizionale a gran volume. Sono solo le otto, manca ancora un’ora e mezza alla partenza in treno. “Pazienza, vorrà dire che mi toccherà aspettare un po’ in stazione” – penso. Ripartiamo per Sary-Shagan.
Sulla strada per il piccolo villaggio della ferrovia d’un tratto Erlan mi domanda:
– Lorenzo, che ne dici di un tè a casa nostra? Di tempo ce n’è… Sarai ospite gradito.
Rimango sorpreso dalla gentile e inaspettata proposta, che non posso non accettare. Un assaggio di ospitalità kazaka da queste parti è esattamente ciò che mancava per concludere in bellezza la giornata!
Lasciando la strada principale Erlan svolta in una stradina sterrata e piena di buche immersa nel buio. Dopo pochi minuti arriviamo. Scendo dalla macchina lasciandovi su lo zaino. Erlan apre un cancelletto di legno tutto cigolante e sussurra due parole all’animale che vaga lì nel prato, che risponde qualche attimo dopo con un flebile belato. Al di là della bassa staccionata intravedo la sagoma di una casetta bianca con un piccola finestra illuminata e fumo grigio che esce dal tetto.
Erlan mi accompagna verso l’entrata. Ci tiene a dirmi (ad avvisarmi in un certo senso) che la sua casa è umile e semplice… Apre la porta, l’ingresso della casa è illuminato solamente dalla luce che arriva dalla cucina. Entro chiedendo il permesso.
– Zahodì! Zahodì! – mi invita ad entrare Erlan.
L’interno è un amalgama di odori rustici, forse leggermente acre ma tutto sommato gradevole: si distinguono l’odore della pietra, del fumo, della carne stufata, delle spezie e delle erbe aromatiche, presenti un po’ in tutti i piatti, ma anche un certo sentore di umido e stantio.
Erlan annuncia il nostro arrivo a chi è dentro. Si toglie le scarpe e io faccio altrettanto, come è d’uso se non d’obbligo fare da queste parti. Un grosso tappeto rosso scuro copre tutto il pavimento all’ingresso. Erlan mi fa cenno di passare nella stanza a fianco insieme a lui. Mi ritrovo così nella cucina-salotto della casa dove sono presenti la moglie, seduta in tutta la sua stazza al piccolo tavolo tondeggiante, e alla mia destra un ragazzo sui trent’anni appoggiato a gambe incrociate al bancone della cucina, accanto alla stufa: dev’essere il figlio o uno dei figli di Erlan. Nel vedermi si apre in un largo sorriso quasi entusiastico, si rizza in piedi e si allunga verso di me con entrambe le braccia per stringermi la mano. Si presenta:
– Molto piacere. Saken.
Gli stringo la mano e mi presento a mia volta, sorridendo persino un po’ imbarazzato.
– Lui è uno dei nostri tre figli, quello più giovane – precisa Erlan.
Poi dice qualcosa di conciso alla moglie in kazako. Distinguo solo la parola chaj e tanto mi basta per capire.
– Siediti, preparo il tè – mi dice allora la moglie di Erlan con benevolo e paffuto sorriso, e subito si alza dalla seggiola per andare a mettere un pentolotto cilindrico sulla stufa. Lì di fianco è adagiata un’elegante teiera nera di ceramica con arzigogolati motivi floreali color oro.
L’ambiente è effettivamente ristretto e un po’ modesto; le poche mobilia lasciano per lo più scoperto il bianco delle pareti; oltre al tavolo, alla stufa e ai basilari accessori della cucina c’è un vecchio televisore collocato nell’angolo di fronte e un piccolo basso divano dalla parte, sopra il quale è appeso il classico tappeto rosso da parete di gusto sovietico. Ma l’atmosfera è genuina e l’accoglienza è calorosa, ed è questo ciò che ovviamente conta!
Mi siedo su uno degli sgabelli intorno al tavolo, anche Saken ed Erlan si siedono e iniziamo una gioviale conversazione sostenuta soprattutto dalle numerose e incuriosite domande di Saken. Mi chiede come si sta in Italia, come è messa l’Europa, quali sono le maggiori differenze che noto stando in Kazakistan, ma anche domande più terra-terra come quella solita su quale squadra di calcio tifo, e lui si sorprende parecchio quando gli dico che l’interesse per il calcio è più vivo qui che da noi in Europa (lui è un fervido tifoso del Real Madrid e di Cristiano Ronaldo). Saken è in tutto e per tutto un ragazzo del mondo d’oggi, è ben istruito e vestito con abiti più da città che da campagna, anche se ora sta in casa. Dice infatti che ha studiato ad Almaty dove lavora più o meno stabilmente. Torna ogni tanto a casa degli anziani genitori se non altro per dare loro una mano con le faccende più incombenti così come fanno, sembra, anche il fratello e la sorella che vivono altrove con le loro famiglie. È stato diverse volte anche in Russia ma vorrebbe un giorno andare in Europa alla ricerca di un miglior guadagno.
– Quello che adesso ti offriamo è tè di Tashkent – ci tiene a precisarmi Erlan mentre la moglie mette al centro del tavolo un’altina di ceramica dal bordo ondulato e tinto di blu con dentro biscotti, arachidi e frutta secca. Il tutto assume una vena spiccatamente orientale.
Subito dopo Erlan mi spiega che in realtà lui e Madina sono sì kazaki ma cresciuti e vissuti per buona parte della loro vita in Uzbekistan, non lontano proprio da Tashkent. Sono venuti ad abitare qui sulle rive del Balkhash solo venticinque anni fa aderendo alle politiche di rimpatrio del governo kazako successive l’indipendenza. Sono dunque dei “rimpatriati”. Per questo nella loro famiglia continuano a essere sentite le usanze e le abitudini uzbeche (cosa che, a dire il vero, andavo già sospettando).
Tra una chiacchiera e l’altra spizzico qualche pistacchio e uvetta secca. Il tè è già in infusione nella teiera. Nel mentre che la bevanda si prepara, Erlan tira fuori per mostrarmelo anche una specie di mandolino tradizionale kazako, molto suonato in Kazakistan e considerato strumento nazionale, il quale presenta un manico lungo e stretto e una “pancia” di forma ovale apparentemente senza buco né cassa interna (la mia ignoranza in fatto di musica non mi permette di darne una descrizione più accurata). Ai primi pizzichi di corda emette un suono delicato ma più basso e più spuntato di quello del mandolino o della chitarra; un suono che evoca una dimensione tribale.
Si mette poi a suonare (o meglio a strimpellare) con questo dombyrà intonando un canto della tradizione, tutto sommato gradevole, con una vena malinconica. Così mi perdo tra l’ascolto di questa musica cantilenante e il tentativo di rispondere alle domande in successione di Saken.
Poco dopo la grossa padrona di casa distribuisce sul tavolo le tazze per il tè: sono in completo con la teiera, di ceramica nere con motivi dorati, e sono simili a piccole scodelle, basse e senza manico, come vuole la tradizione. Porta la teiera vicino alla tavola e versa quindi il tè a ognuno nella sua tazza, riempiendone non più di metà, con una cura ed esattezza che esprimono la forza di un rito. Il tè è a sorpresa di color giallognolo ed emana un fine aroma di menta.
– Dentro ci sono già limone e miele – mi fa presente Saken che durante la mescita del tè si è persino azzittito un attimo.
– Beh, al nostro cordiale incontro! Che questo tè possa rafforzare la tua salute, Lorenzo, ché la strada che ti aspetta è lunga! – è il discorso e l’augurio che rivolge Erlan a tutti e a me in particolare, quindi possiamo metterci a sorseggiare il tè dalle tazze.
Il tè di Tashkent che mi è servito ha un gusto veramente intenso e avvolgente, è una miscela armoniosa di aromi erbati e di differenti tipi di tè, un infuso rigenerante fatto con la sapienza della tradizione.
Rimaniamo così a bere, mangiucchiare e discorrere per una ventina di minuti durante i quali il tè mi viene versato nella tazza altre tre o quattro volte. Da quanto capisco, dev’essere sempre e solo il padrone di casa a versare il tè ai convitati, e se all’ospite non viene riempita interamente la tazza significa che questi è benaccetto e ci si vuole intrattenere ancora con lui.
C’è tempo anche per un bicchiere di kumys di capra che mi viene offerto sempre con molta gentilezza e che a detta di Erlan è prodotto fresco di alcuni amici del villaggio. (Per chi non lo sapesse, il kumys è una bevanda tradizionale molto consumata in Asia Centrale e che consiste in latte di giumenta – in questo caso di capra – fermentato, a bassa gradazione alcolica e leggermente gassata). A dire il vero non sono un amante del kumys classico ma assaggio lo stesso questo kumys di capra, per curiosità ma anche per rispetto, e non me ne pento affatto: pur sempre di sapore acidulo, è una bomba di rustica freschezza e genuinità! Svuoto il bicchiere di kumys senza farmi pregare per poi berci su necessariamente un’ultima mezza tazza di tè di Tashkent, altrimenti il sapore di campagna kazaka mi rimane in bocca per un bel pezzo.
– Dopo tè e kumys niente ti fermerà lungo la strada! – scherza Erlan intanto che ci alziamo da tavola.
Sono passate le nove e mancano meno di venti minuti alla mia prevista partenza in treno. Ho il biglietto già acquistato ma prima di partire devo lo stesso ritirare il titolo di viaggio cartaceo. È veramente ora dunque di avviarci alla stazione. Mi congedo con Madina e Saken, scambiandomi con lui i contatti (metti caso un giorno…) e ringraziando sentitamente dell’ospitalità.
Risalgo con Erlan sulla sua macchina-taxi controllando di non aver dimenticato nulla, cuffia inclusa, e in cinque minuti arriviamo alla stazione. Gli allungo i mille tenghé più qualche altro spicciolo e ci salutiamo cordialmente scambiandoci i migliori auguri.
Passo dentro in stazione a ritirare il biglietto cartaceo. Alcune persone sono già in sala d’attesa. Viene dato l’annuncio del treno in arrivo da Kyzylorda. Mi sposto fuori sulla banchina del binario numero due.
Rimango qui a ripercorrere nella mente i momenti più salienti di questa giornata trascorsa sul lago Balkhash mentre una brezza umida e gelida mi pizzica le guance. Mi reputo ampiamente soddisfatto di questa scampagnata nel cuore del Kazakistan e di questa giornata unica che non so se e quando avrò più modo di ripetere. Poi il pensiero spontaneamente si spinge più in là, lungo la linea ferroviaria che mi accingo a percorrere e che punta verso nord: cerco di immaginarmi i paesaggi selvaggi della steppa profonda e la vita austera di chi riesce ad abitarla, e allora un fremito mi attraversa il corpo… Dall’altoparlante viene di nuovo annunciato l’arrivo del treno; sulla mia sinistra due fari si fanno avanti tremolando nel buio pesto. La gente affluisce con ordine sulla banchina. È già ora di ripartire, destinazione Astana.
LORENZO BARATTI
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